Oggi si tende a dare al termine “qualità” un significato sempre più rigidamente scientifico, sulla base delle caratteristiche morfologiche e funzionali delle carni da cui dipendono, a loro volta, sia la trasformabilità che il valore alimentare delle carni stesse. In Italia, in passato, la qualità era la conseguenza diretta delle tecniche di allevamento, del tipo genetico, dei parametri zootecnici propri della specie suina; alcune caratteristiche organolettiche, “normali” per il passato, sono “obiettivi qualitativi da garantire” oggi. Con l’evoluzione genetica del suino, dell’ingegneristica zootecnica e quindi con l’avvento dell’allevamento intensivo-industriale, sicuramente è cresciuta la qualità igienico-sanitaria delle carni, che ovviamente costituisce oggi un prerequisito essenziale. Anche alcune caratteristiche nutrizionali, come il minor contenuto di grassi saturi a vantaggio degli insaturi molto utili nell’alimentazione moderna insieme ad una riduzione dei grassi totali di circa il 30%, hanno contribuito da un lato ad incrementare il consumo di carne suina fresca e, dall’altro, all’internazionalizzazione dei mercati di alcuni prodotti stagionati di alta e altissima qualità tipica del territorio italiano. Il concetto di qualità deve tenere conto delle diverse esigenze: esiste quindi una “qualità biologica”, che è costituita dalla qualità nutrizionale e da quella sensoriale, che rende il prodotto gradevole e appetitoso ed è richiesta e percepita dal consumatore, ed una “qualità tecnologica”, importante per l’industria di trasformazione. Tra esse è possibile citare il colore e la consistenza, ma anche la capacità di interagire con l’acqua, la marezzatura, l’entità della copertura adiposa che influenza la velocità di perdita di acqua e l’assorbimento del sale. È richiesta dai trasformatori e dettaglianti. Gli allevatori devono quindi prestare molta attenzione alle tecniche di allevamento adottate in funzione della destinazione finale del loro prodotto.
Vediamo ora come può l’allevatore incidere su alcuni parametri qualitativi importanti al fine di garantirsi sul mercato con un prodotto conforme ai vari disciplinari di filiera, non rischiando di essere penalizzato né sul prezzo né sul ritiro stesso dei suoi animali. Definiamo meglio i parametri tecnologici minimi richiesti per la conformità della carne ai disciplinari di prodotti tipici.
Indicatori della qualità del grasso o indice dello iodio e acido linoleico
Per le produzioni Dop il limite massimo è rispettivamente 70% e 15% sul grasso interno ed esterno del pannicolo adiposo sottocutaneo della coscia. La principale caratteristica richiesta al tessuto adiposo di copertura è di resistere, in ambiente aerato, a temperature che si aggirano intorno ai 18-20°C, senza subire modificazioni (rammollimento) che penalizzino le caratteristiche del prodotto finale.
Marezzatura-infiltrazione-copertura di grasso della carne
La selezione genetica tesa al controllo dell’infiltrazione del grasso nella carne ha portato alla riduzione del contenuto di colesterolo, ma la ricopertura di 20-30 mm (in base al peso fresco della coscia) di grasso sodo e bianco è necessaria per la corretta stagionatura di un prosciutto italiano tradizionale.
Età dell’animale
È dimostrato che, se un suino non raggiunge almeno un’età compresa fra i 10 e i 12 mesi, presenta, a causa dell’immaturità del parenchima muscolare, carni più pallide e umide rispetto a suini più anziani, anche se considerati a parità di peso; allora, e solo allora, si raggiunge l’apice della migliore attività fisico-metabolica, del minor contenuto in acqua, del massimo potere di ritenzione idrica, del colore ottimale e, a parità di alimentazione e razza, del maggior equilibrio fra parte carnosa e grasso.
Colore
È il primo carattere che spinge ad una scelta; un colore rosso brillante, associato ad un alto contenuto di ossiemoglobina, è un parametro importante della qualità; un colore bruno, associato alla metamioglobina, è un parametro negativo. Rispetto al colore si riconoscono anche due difetti specifici:
le carni PSE (Pale Soft Exudative: pallida, soffice ed essudativa);
le carni DFD (Dark Firm Dry: scura, soda, secca);
entrambe dovute a valori pH post-mortem anomali. Le carni PSE e DFD sono difetti a carico del colore in primis, ma si ripercuotono su tutti gli altri parametri. Un ruolo importante nell’instaurarsi di queste gravi anomalie, come vedremo, lo gioca la genetica, ma la causa scatenante risiede nello stress fisico-emotivo che subisce l’animale nelle ore precedenti la macellazione.
La condizione PSE (stress a breve termine, 1-6 h) è caratterizzata da un rapido (1 h) calo del pH dopo la macellazione per la conversione rapida del glicogeno, le cui riserve sono adeguate, prima della morte, ad acido lattico, mentre nei suini non stressati lo stesso pH (5,4-5,6) si raggiungerebbe in 12-18 h. Il pH muscolare basso e la temperatura alta causano la denaturazione di alcune strutture proteiche, così da compromettere la normale capacità di ritenzione idrica e dalle superfici di taglio si ha perdita di essudato.
La condizione DFD vede un meccanismo di insorgenza diverso da quello della carne PSE, senza avere nessun origine di tipo genetico. La carne si presenta di colore scuro con un’apparenza secca. La causa risiede nello stress prolungato prima della macellazione (12-24 ore o più) e nella conseguente riduzione di gran parte delle riserve di glicogeno prima della morte, per cui l’acidificazione post mortem è ridotta (ancora pH 6,2- 6,4 a 24 h). Per conseguenza si avranno problemi microbiologici dovuti al pH alto ed anche, nel caso dei salumi, per l’ostacolo alla permeazione del sale necessario per la conservazione dei prosciutti. La scelta di una genetica adeguata ed una particolare cura delle fasi di trasporto e sosta pre-macellazione riducono tali eventi entro limiti fisiologici accettabili.
Sapore
Nelle carni rosse il più importante è il grado di marmorizzazione (tessuto adiposo localizzato tra i fasci di fibre muscolari nel tessuto connettivo). La quantità di grasso attorno i muscoli maggiori dà un aspetto finito alla carne, ma non deve essere eccessiva perché troppo grasso è associato a scarsa qualità. Quindi il grasso ci deve essere, ma in modo poco apparente ed il suo colore deve essere bianco.
Succosità
È correlata a WHC (Water Holding Capacity) e alla marmorizzazione, ma una carne troppo asciutta o con un’eccessiva essudazione è considerata difettosa.
Tenerezza
È la conseguenza di fattori come il tipo di muscolo e gli eventi che si verificano dopo la morte, comprendenti l’insorgenza e la risoluzione del rigor. In genere la tenerezza è direttamente legata alla qualità.
Scelta del tipo genetico
La genetica che possiamo trovare negli allevamenti di suino pesante è essenzialmente di due tipi: suini in razza pura o da incrocio tra razze pure(Large White, Duroc x Large White, Duroc x (Landrace x Large White), Large White x (Landrace x Large White). La presenza del gene (n) che risulta essere associato alla possibilità di sviluppare PSE viene determinata con il test dell’Alotano, la cui positività indica la presenza del gene. Nella Large White è assente la glicolisi post mortem e quindi non sensibilità alla PSE. La presenza Large White influenza un pH della carne inferiore, sia a 45 minuti che a 24 h dalla macellazione (“effetto Large White”). Nella Landrace si ha maggiore sensibilità alla PSE rispetto alla razza Large White. Nella Duroc è caratteristica la grassinatura della carne che è negativa in Italia per la stagionatura dei prosciutti Dop, la carne è più rossa, si ha limitata sensibilità alla PSE. È usata per incroci a tre vie. La percentuale di grasso intermuscolare è sensibilmente più alta. Con la selezione genetica, avvenuta prevalentemente all’estero, il miglioramento genetico, anche con bassi livelli di energia della razione, consente elevati accrescimenti della massa magra e provoca drastica riduzione dello spessore del pannicolo adiposo.
Questi “vantaggi” raggiunti dalla moderna suinicoltura non sono sfruttabili completamente in Italia da chi alleva il suino pesante da salumeria perché le esigenze qualitative della nostra filiera sono decisamente diverse:
età minima (9 mesi),
peso vivo finale (160-170 kg p.v.),
spessore minimo del grasso di copertura (da 15 a 25 mm a seconda del peso della coscia),
caratteristiche del grasso (n. iodio ≤ 70, 15% max di acido linoleico).
Ciò ha indotto, nel nostro Paese, un miglioramento genetico più rispettoso dell’equilibrio fisiologico degli animali.
È dimostrato che una selezione orientata alla velocità di crescita determina una maggiore suscettibilità allo stress e minori difese immunitarie. È ben noto, inoltre, che al diminuire dello spessore del grasso di copertura aumenta proporzionalmente il grado di insaturazione della frazione lipidica.
Composizione della razione e qualità della carne
Macronutrienti
Energia della razione
Un bilancio energetico negativo, in relazione all’elevato potenziale di crescita dei tessuti muscolari, porta a ridurre lo spessore del grasso sottocutaneo e ad incrementare il contenuto in acqua e in acidi grassi polinsaturi. Quindi, per ottenere carcasse di buona qualità da destinare alla produzione dei salumi tradizionali italiani, è necessario avere alti livelli nutritivi specialmente nell’ultima fase del finissaggio.
Livello proteico
Dove si realizza nella razione la miglior complementarietà proteica, si possono osservare, a carico del muscolo, i tassi maggiori di alcune attività enzimatiche tipicamente muscolari. La composizione della cosiddetta “proteina ideale” è quella nella quale tutti gli amminoacidi risultano nella giusta proporzione per costruire la proteina corporea. Quindi: è necessaria una generosa integrazione di AA limitanti come lisina, metionina, treonina e riptofano.
Micronutrienti
Alcuni sono molto importanti per la qualità della carne, del grasso e soprattutto nella prevenzione dei fenomeni essudativi.
Vitamine: E, C, D3, biotina.
Oligoelementi: Fe, Cu, Mg, Cr.
Antiossidanti: carnosina, carnitina, ß-caroteni.
Vitamina E (250 mg/kg mangime)
Antiossidante inter ed intracellulare, previene l’ossidazione dei lipidi insaturi impedendo perciò la formazione dei perossidi. La vitamina E assicura anche la stabilità degli eritrociti e l’integrità dei capillari sanguigni. I fabbisogni possono aumentare in seguito ad alti livelli di acidi grassi polinsaturi (PUFA), agenti ossidanti, vitamina A, carotenoidi e minerali.
Biotina (vit. H)
(0,1-0,2 mg/kg mangime)
Una carenza di biotina porta ad un incremento del rapporto insaturi/saturi degli acidi grassi di deposito. Questo può essere di rilevanza pratica poiché le diete di finissaggio spesso contengono alte percentuali di materie prime (frumento o suoi sottoprodotti, sorgo, orzo) in cui la biotina è scarsamente disponibile.
Vitamina B2 (riboflavina)
(8-10 mg/kg mangime)
Importante coenzima nelle reazioni di ossidoriduzione, è provato (Lutz e Stalhy, 1998) che la sua carenza nel finissaggio determina ridotta qualità della carne e aumento della ricopertura.
Vitamina D3
(1.500 U.I./kg mangime)
Carni più tenere e digeribili, migliora l’assorbimento di Ca e P aumentandone i livelli ematici.
Vitamina PP (niacina o B3)
(500 mg/kg mangime)
Agisce sulle prestazioni di accrescimento. Migliora il colore della carne e diminuisce le perdite di liquidi postmacellazione.
Acido pantotenico
(60-110 mg/kg mangime)
Contribuisce alla riduzione dello spessore del grasso dorsale e aumenta la percentuale di carne magra (Santoro e Macchioni, 2009).
Rame (meno di 200 ppm)
Favorisce la digeribilità intestinale dei grassi, intensifica il trasferimento nei tessuti di deposito. L’uso del rame come promotore di crescita (sopra la soglia dei 250 ppm) può provocare un aumento del rapporto insaturi/saturi, che influenza il punto di fusione del lardo.
Magnesio (0,05%)
Limita le perdite di acqua, mantiene il colore roseo.
Piano alimentare
L’alimentazione viene distinta in:
alimentazione “multifase”;
alimentazione “monofase”.
L’alimentazione “multifase” prevede un continuo adeguamento degli apporti proteici ed energetici della dieta all’effettivo fabbisogno dell’animale in relazione all’età e al potenziale genetico; per la produzione di muscolo rappresenta la migliore soluzione. L’alimentazione “monofase”: prevede l’utilizzo di un solo tipo di mangime per tutta la durata del ciclo, bandita dall’allevamento intensivo-industriale; resiste nelle piccole e piccolissime porcilaie per produzioni familiari. In pratica il miglior piano alimentare di un ciclo di ingrasso prevede l’utilizzo di almeno tre mangimi diversi, uno starter, un magronaggio ed un finissaggio.
Composizione in acidi grassi della dieta
Il suino incorpora direttamente parte degli acidi grassi della dieta nel suo tessuto di deposito. Ciò non avviene alla stessa maniera per tutti gli acidi grassi. L’acido oleico (C18:1) e l’acido linoleico (C18:2) sono incorporati molto più efficientemente degli acidi grassi saturi come il palmitico (C16:0) o lo stearico (C18:0). Il suino può assumere l’acido oleico dalla dieta o sintetizzarlo de novo a partire dallo stearico. Quindi la concentrazione di C18:1 non può essere facilmente ridotta in favore di C16:0 o di C18:0; si tratta però di un acido grasso monoinsaturo, quindi più resistente all’ossidazione rispetto ad altri polinsaturi.
L’acido linoleico è essenziale e deve essere fornito con la dieta; livelli corretti (imposti da alcuni disciplinari) variano da 0,1-1% della dieta. Tale soglia è facilmente raggiunta dalle diete di accrescimento/finissaggio comunemente somministrate ai suini, dal 30% al 60% di mais, che da solo fornisce 0,6-1,2% di C18:2. Incrementare l’ingestione di C18:2 oltre i fabbisogni nutrizionali conduce ad un drammatico incremento della deposizione nel tessuto di deposito e quindi un declino della qualità del grasso. Livelli che eccedono il 15% di C18:2 nel grasso sottocutaneo definiscono un significativo incremento di trigliceridi contenenti C18:1 e C18:2, entrambi liquidi a temperatura ambiente. È evidente che il problema fondamentale sia ridurre il più possibile l’ingestione di C18:2, senza scendere al di sotto delle esigenze nutrizionali dell’animale. Come fare, in stalla, per tenere sotto controllo questa problematica? Le possibili strade da seguire per manipolare la composizione in acidi grassi della dieta, sono tre:
l’uso di grassi a basso costo durante il periodo di accrescimento e di grassi di alta qualità durante il periodo di finissaggio: la maggior parte dei grassi di deposito è formata durante il periodo di finissaggio. Quindi, durante il periodo precedente, quello dell’accrescimento, possono essere utilizzati grassi alimentari a basso costo, contenenti acidi grassi sia saturi che insaturi;
l’uso di grassi parzialmente o completamente idrogenati: un’alternativa all’uso di grassi parzialmente idrogenati può essere l’uso di acido stearico nella forma mono e digliceridi. È possibile superare la capacità del suino di desaturare acidi grassi fornendo elevati livelli di C18:0 con la dieta, facilitando l’incremento della deposizione;
il siero: tradizionalmente viene utilizzato nella razione dei suini per un legame di coesistenza e sinergia tra suinicoltura e caseificazione. Il siero apporta proteine ed energia sotto forma di carboidrati e non grassi. Visto che l’acido linoleico costituisce il 50% dell’apporto lipidico dei cereali, a parità di energia, una formula alimentare col siero presenta un contenuto di acido linoleico inferiore. Esso può contribuire per oltre 1 kg di sostanza secca, che corrisponde ad 1/3 del consumo giornaliero di un suino di oltre 100 kg di p.v. L’energia del siero deriva principalmente dal lattosio, migliora la qualità del grasso di deposito.
Tecnica di distribuzione dell’alimento
Anche la tecnica con cui si somministra l’alimento può incidere sulla qualità finale del grasso suino. Normalmente, dopo una fase iniziale di alimentazione a secco (a terra o con mangiatoia), si passa rapidamente all’alimentazione liquida con o senza siero che, consentendo un incremento dell’ingestione di circa il 5%, contribuisce alla saturazione dei grassi di deposito.
Conclusioni
La qualità della carne nasce in stalla? Sembrerebbe di sì. Il trasformatore chiede resa tecnologica, accettabilità, corrispondenza alle norme di legge; il dettagliante richiede caratteristiche di colore, aspetto, resa, stato di ingrassamento; il consumatore chiede caratteristiche di gusto, tenerezza, aspetto e resa cottura. L’allevatore dovrà produrre reddito accontentando tutti. Risparmiare si può, mantenendo salda la qualità. Scegliere accuratamente una genetica adatta è ovviamente fondamentale. Variare e integrare l’alimentazione in base alle reali esigenze dell’animale è benessere per se stesso e conveniente per noi in quanto evita sprechi e carenze. Utilizzare siero di latte di buona qualità con un’alimentazione liquida, abbiamo visto, fa risparmiare e fa qualità. Dare agli animali più spazio non fa risparmiare, ma uniforma la produzione (pareggia gli animali), migliora i fattori visivi della carne come colore, succosità, sapore, ecc… e produce un beneficio igienico-sanitario per l’allevamento che tende a compensare lo svantaggio ai fini del calcolo della resa dell’alimento. L’esperienza dice che probabilmente non si perde.
Un imprenditore zootecnico moderno non può prescindere da una gestione attenta, “scientifica” di tutto il suo processo produttivo, rispettoso tra l’altro del benessere degli animali imposto, giustamente, dall’etica e dalle normative vigenti, consapevole del fatto che non sarà lui (solo) a stabilire il prezzo di vendita del prodotto. Essere fornitori di qualità costante può costituire, oggi, un vantaggio strategico nel variegato mondo suinicolo nazionale.
Francesco Bruno
Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali UNINA – Federico II
Claudio Mucciolo
Dipartimento di Prevenzione Area Sud - Servizio Igiene Alimenti di O.A. ASL di Salerno
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