Mentre sul piatto sta girando “We met at sea”, quarto album di The Pigeon Detectives e mi chiedo il motivo di un nome così assurdo, ripenso all’ultima volta che ho mangiato un piccione e di come abbia avuto a che fare con questi pennuti non solo a tavola. Due vite fa, occupandomi di export verso Paesi Bassi e Francia, ho organizzato il trasporto di due piccioni “da gara”, assicurati per una somma non indifferente. Pochi anni prima, mentre studiava Ingegneria meccanica (vecchio ordinamento, ci tiene a sottolinearlo), mio fratello lavorava come “giudice di piccioni viaggiatori”. Ma, soprattutto, tornerei anche adesso alla Futura Osteria (futuraosteria.it), ad Abbadia Isola, vicino a Monteriggioni, Siena, per mangiare un delizioso “Piccione Summertime” che non manco di degustare ogni volta che devio con piacere dal tratto tra Firenze e la città del Palio per eccellenza.
Proviamo allora ad andare per ordine, partendo dal fatto che fra le tipologie più note di questo animale ci sono i “messaggeri” (o viaggiatori), capaci di percorrere fino a 800 km al giorno alla velocità di 80 km orari, e i “grossi”, la cui bontà delle carni è risaputa.
Il piccione fa parte della categoria della selvaggina da penna, le sue carni sono “nere” differenziandosi dalle “bianche” (tacchino, pollo), dalle “rosse” (bovino, equino, ovicaprino, suino) e sono povere di grassi quanto sono ricche di proteine.
Se la carne del selvatico “colombaccio” è scura e consistente e ha un gusto deciso che spesso divide i commensali, quella da allevamento, senza bisogno di frollature prolungate, è più tenera e chiara.
Tradizionalmente arrostito o grigliato, si trova in diverse versioni nei locali di ogni categoria, mutando nel modo in cui viene cucinato e servito, testimoniando così la sua presenza nel corso del tempo all’interno della cucina italiana: allo spiedo, farcito, alla griglia, in casseruola con purè di zucca, in umido, in gratella, in tegame, con polenta, al vino rosso, con fagioli, al prosciutto, con castagne, all’agro, con noci e vino passito, con funghi, con tartufo e foie gras, all’uva bianca, con mandorle, con l’Aceto Balsamico tradizionale di Modena… Ogni regione ha le proprie versioni, in un ricettario infinito di varianti.
Allevato fin dalla antichità, senza distinzione di ceto, nel corso del Medioevo era facile trovare colombaie tra le mura dei castelli come nelle campagne, mentre oggi è facile riconoscere da Padova e Vercelli per il Belpaese, Oltralpe verso Bordeaux e Bresse, gli esemplari più pregiati.
Il piccione si vende con le viscere, spiumato in modo da poterne riconoscere la qualità osservandone soprattutto la pelle, che deve essere liscia, ben tesa e senza striature. Altri indicatori di freschezza si trovano nella flessibilità del becco, nelle ali che non devono essere avvizzite e negli occhi. Osservazioni degne di un investigatore.
Chissà che allora The Pigeon Detectives non sia uno sgrammaticato modo per definire un macellaio che sceglie con cura i piccioni da esporre a banco per far felice chi seduto a tavola li mangerà. Intanto gira a 33 giri al minuto questo disco che arriva da Leeds pieno di chitarre e, nonostante una discreta grammatura del supporto, leggerezza.
Dopo l’acclamato “Wait For Me”, esordio che scalò classifiche nel 2007, pubblicarono due album tra il 2008 e il 2011, per arrivare nel 2013 a quello che ad oggi rimane il loro ultimo lavoro. Una formula compositiva che non è mutata negli anni, capace di entusiasmare prima e compiacere nel tempo senza scadere in copie sciupate.
Come esistono album che ti cambiano la vita, ci sono anche quelli che ti accompagnano senza scuoterti ad ogni ascolto. Fanno parte di quella che possiamo chiamare “colonna sonora della tua vita” e, anche se lo sono magari in maniera marginale, rimangono comunque presenti.
“We met at sea” arriva quando l’onda di chitarre è passata, a metà degli anni dieci dei Duemila, per un vento di produzioni sempre più autoprodotte e indirizzate a basi digitali che si prende la scena, aprendo un ciclo e chiudendo quello precedente.
Oggi, a distanza di 10 anni, stiamo assistendo ad un prepotente ritorno di basso, chitarre, batteria e voce sia nelle sue forme più viscerali (da lì non sono mai andate via), che soprattutto nel pop. Allora ascoltare ora quello che ai tempi passò in sordina non può non farti riflettere su come certe dinamiche mischino le carte non tanto per un discorso artistico in sé, quanto per l’aspetto commerciale e sociale che certe involontarie cartine tornasole portano con loro.
Non si parla di precursori o innovatori, di influenze o radicali cambiamenti che aprono strade stilistiche da percorrere, ma di dischi figli del loro tempo e poi orfani, da riscoprire.
Sono le note di Animal che, con il suo riff orizzontale a incrociare il tamburo, sembra voler ribadire che sta proprio cominciando tutto qui, quando ci Incontriamo al mare, in una celebrazione dove la ritmica a salire in un groviglio di chitarre si stende sul refrain. Non c’è nulla di più leggero, potremmo essere davvero a festeggiare sulla spiaggia in un’estate che non vuole smettere.
Poi puoi fare un salto negli anni ‘80, nel power pop di I Won’t Come Back, che fa cantare e ballare anche quando si racconta di storie che finiscono una volta per tutte dopo riconciliazioni effimere.
È un’irriverenza che nella successiva Hold your Gaze ha il ritmo forsennato di una corsa che sembra rallentare solo per prendere fiato nel refrain, mentre in Light Me Up gioca a promettere divertimento garantendolo nell’immediatezza di linee melodiche perfette per essere assecondate. Chitarre da Pub Rock aprono Can’t You Find Me?, poi scherzano volando basse per preparare al meglio la risalita di intrecci tra loro e la voce. Gigioneggia invece tra il giro di basso e riff sottili a incorniciare la struttura I Don’t Mind, strafottente anche nel titolo.
Girando lato si sceglie di rallentare con decisione prendendo la forma di una inedita ballad: Day And Month si sviluppa su atmosfere Sixties attraverso un arrangiamento sincero nella sua essenzialità, un modo di suonare chiaro e intelligibile come quando si registra in presa diretta, nell’urgenza della sala prove. Paradossalmente emerge nel momento meno concitato del disco la sua indole, fatta di concretezza e necessità di comunicare senza sovrastrutture, perfetto per essere suonato live così come è stato inciso in poche settimane in un bunker interrato, lontano da distrazioni esterne. E l’isolamento in cui è nato si rivela solo apparentemente lontano dalla condivisione propria del concerto, due dimensioni unite dall’immediatezza di queste canzoni scritte per essere suonate e che trovano nell’ascolto questa sensazione.
Ma l’urgenza torna a farsi viva perché Unforgettable si rovescia come una pioggia torrenziale e improvvisa sotto cui ballare, echi di Arctic Monkeys nelle chitarre nervose, elettrificate di scosse convulse e liberatorie.
No State To Drive, che con i suoi due minuti è il brano più breve del disco, sembra scritta per essere fischiettata, si somma con estrema naturalezza alla freschezza pop che unisce ogni brano all’altro, giocando a citare certi Strokes degli esordi. E quando si arriva agli ultimi solchi con le note di Where You Are, si fa forte la sensazione di aver assistito ad un concerto o, meglio, di averne fatto parte. Lo senti nel tuo baricentro che non riesce a stare fermo seguendo istintivamente il basso che sale e scende, correndo veloce accanto alla cassa della batteria. Il brano sembra chiedere l’ultimo scatto a chi ascolta, una intensa richiesta di condivisone dell’entusiasmo che lungo tutto il disco non ha mai avuto la pretesa di essere qualcosa di diverso da ciò che è.
Allora che posto ha un disco come questo “We met at sea” nella colonna sonora della nostra vita? Un effimero e divertente compagno di viaggio, che asseconda in serenità, che non chiede più di quello che stai vivendo, magari mentre coi finestrini abbassati guidi tra le strade di campagna verso un’osteria per mangiare un piccione arrostito e berti un buon rosso poco strutturato sì, ma con una gran beva.
Giovanni Papalato
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