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Sono 180 grammi, lascio?

We. The pigs

of Papalato G.


Succede sempre così: mancano poche settimane alla fine dell’anno, sono nel pieno della divertente difficoltà di stilare la mia personale classifica dei 30 migliori dischi ed ecco che ne esce uno che, con pochi ascolti, si inserisce a scapito di qualcosa che fino a quel momento ritenevo meritasse certamente una posizione. Questa volta è il debutto, dopo due ep in sei anni, di “We. The Pigs” da Stoccolma.

Oltre a ripensare con piacere a come ho divorato i piatti di Ärtsoppa med fläsk, tradizionale zuppa svedese di piselli spezzati e carne di maiale, mi sono poi fermato a fissare quel punto che separa “Noi” da “I Maiali” e mi sono chiesto il perché di quella separazione a definire una distanza, a circoscrivere. E ho pensato al Linderödssvin, una delle quattro razze suine autoctone della Svezia (le altre sono la Landrace svedese, la Yorkshire svedese, e l’estinta razza maculata Old Swedish per la quale è stata approvata la richiesta di supporto ambientale). Da sempre i suini, selvatici e domestici, sono stati l’elemento dominante nell’alimentazione del Paese scandinavo, presenti in ogni fattoria.

L’opera di conservazione del maiale di Linderöd risale ai primi anni Cinquanta, con la creazione dello zoo di Höör, nel quale furono portati i pochi capi rimasti. Il Linderödssvin viene allevato principalmente per la produzione di carne e la sua alimentazione è costituita essenzialmente da cereali, avena, erba fresca, radici, trifoglio, uova, larve e vermi, mentre quando gela gli viene dato cibo coltivato con metodo bio come patate, mele, e avena. Generalmente nascono sette maiali per ogni figliata: è consuetudine che un verro e due suini siano usati per la conservazione della specie, mentre gli altri sono destinati alla produzione di carne (200 capi all’anno).
A parte e insieme, quindi, come il punto che contraddistingue il nome di questo quintetto che arriva dalla capitale svedese misurandosi sulla lunga distanza nell’omonimo disco dove le chitarre luccicano, mentre batteria e basso elettrico corrono a farsi raggiungere dalla voce fresca di Veronica Nilsson.
Anyway si apre con un arpeggio e si schiude subito in un fragore compatto: ha tutto ciò che serve per essere parte della scena shoegaze svedese che mischia anche irriverenza punk, ma tra i solchi sotto la puntina non c’è solo questo.
Già con Truth Or Dare si entra in territori più codificati verso la matrice stilistica principale, con andamento dreamy e sguardi sulle pedaliere degli effetti, tra distorsioni e larsen.
Quanta meraviglia pop nella ballad Drift or Sleep, che ciondola tra accordi docili anche se amplificati in una nenia che cerca pace tra parole e melodia. Sembra giocare a rimpiattino con l’ascoltatore, nascondendosi per farsi trovare nel refrain che risplende prima di richiudersi come si era aperta.
Spazza via ogni dubbio, dichiarandosi nella sua immediatezza Sounds; arriva diretta a farsi ballare vivida di braccia al cielo, in una ricerca di concretezza nell’articolazione dell’etereo, con chitarre che si sovrappongono in strati di rumore e melodia, in un’armonia di differenze che si sommano nel dialogo.
Come in un oceano in cui nuotare sottacqua, a discapito del titolo, Sharks elabora bene la lezione di maestri del genere come Slowdive. La voce che sembra guidare tutto il resto, in bracciate lente e ampie, per poi staccare e vivere la sospensione prima di una spinta che ci porta verso la superficie diretti ad una luce sotto cui riconoscersi.
Lato diverso e cupezza calma che si affaccia su Goodbye, dove il basso di Kiel Eriksson si carica dì responsabilità e pulsa di post punk. Una sfumatura che si aggiunge alla tavolozza con cui We. The Pigs si esprimono, lontani dall’idea che un solo stile li rappresenti.
New Wave che sfiora il synth pop sempre guidato dal basso stavolta più morbido e seducente in Curtains, si allunga su suggestioni 80’s, senza tradire la natura di chitarre distorte che emergono e si impongono nel finale.
Coglie la sintesi dell’eterogeneità dimostrata fin qui Fuck Your Songs, sporcando il pop e compiacendosi di farlo. Brano che trascina lungo un’irriverenza in cui anche la batteria si abbandona, picchiando svogliata su un pastiche sonoro quasi materico tanto è concentrico di feedback. Estrema e sorprendente invece la psichedelia di Carry, che trattiene il rumore in luogo di una tensione accarezzata e gestita, non trattenuta.
Unico brano in lingua madre, Vi Skriker è un’altra gemma di ipermelodia e chitarre fragorose in cui perdersi senza nemmeno provare a opporre resistenza. Qui, come nel brano successivo, è davvero chiaro come, a distanza di anni e di album, si ritrovino caratteristiche stilistiche che formano un sorta di territorio comune in cui ritrovarsi e riconoscersi come parte di qualcosa.
Patterns che ha il compito di chiudere il disco è il brano più lungo di tutta la tracklist. Un malinconico arpeggio che si muove assieme alla voce come su onde sul bagnasciuga, avanzando e ritraendosi prima di trasformarsi in un crescendo che deflagra lungo i due minuti finali formando un muro di suono costruito da distorsioni e riverberi.
Un disco di canzoni che non si mascherano per sembrare qualcosa di diverso da chi le ha scritte e suonate,”We. The Pigs” si fa amare per la sua naturale emotività. Necessario per chi, come chi scrive, non sa rinunciare alla sensazione emozionarsi per le chitarre anche in questi anni venti così sintetici.
Giovanni Papalato



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