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Made in Italy, il Governo cerca di tutelarlo con un Disegno di Legge

of Guidi G.


Il primo semestre del 2023 segna un dato molto positivo sull’export dell’agroalimentare italiano. Con quasi 32 miliardi di euro, si registra una crescita dell’8,6%, il doppio delle esportazioni nazionali complessive. Un successo che mostra quanto il cibo made in Italy sia apprezzato, anche fuori dai confini nazionali. Un interesse che va coltivato e mantenuto nel tempo, come valore e patrimonio tra i più grandi che il Paese possa vantare.
Un brand la cui importanza è oggi all’attenzione del Governo che, dopo averlo inserito anche nel nome del dicastero precedentemente conosciuto solo come Ministero dello Sviluppo economico, lo promuove in un disegno di legge. Dall’imprenditoria femminile alla giornata del made in Italy, dai brevetti al fondo nazionale di sostegno, dalla proprietà industriale a filiere come legno, nautica, tessile, ceramica: tutto questo è contenuto nella proposta legislativa che ha lo scopo di rilanciare il Paese.
Oltre all’istituzione del liceo del made in Italy, per favorire il passaggio di conoscenze tra generazioni, viene istituito un programma di trasferimento delle competenze generazionali nelle imprese private, da svolgere attraverso il tutoraggio da parte di un lavoratore pensionato ad un giovane neoassunto a tempo indeterminato. E ancora: ampia attenzione alle imprese culturali e turistiche e all’agroalimentare.
Un articolo è dedicato alla pasta e un altro all’istituzione di un fondo di supporto al riconoscimento delle Indicazioni Geografiche non agroalimentari. Un altro è per la protezione nel mondo delle IG agricole e alimentari e per la blockchain per la tracciabilità delle filiere.
Un investimento di 50 milioni di euro sarà realizzato a favore del settore fieristico ed è prevista la regolazione del commercio elettronico e del metaverso.
Il NutrInform Battery viene promosso come sistema di etichettatura per le indicazioni nutrizionali dei prodotti alimentari, ma sono previsti anche interventi a favore della valorizzazione della biodiversità, delle pratiche tradizionali e del paesaggio rurale, del miglioramento genetico e dei distretti del prodotto tipico italiano.
Un contrassegno ufficiale potrà essere richiesto dai ristoranti italiani sparsi nel mondo e verrà attribuito a quegli esercizi che garantiscono un’offerta gastronomica realmente conforme alle migliori tradizioni nostrane. Anche la lotta alla contraffazione è all’attenzione del Governo e, tra le varie cose, aumenteranno le sanzioni per chi acquista o vende merce contraffatta, che saranno estese anche a chi detiene per la vendita prodotti industriali con segni mendaci. Previste altresì azioni specifiche per gli uffici inquirenti e formazione specialistica dei magistrati.
Viene introdotto un contrassegno ufficiale di attestazione dell’origine italiana delle merci, ma anche attività di ricognizione e mappatura dei prodotti industriali e artigianali tipici già oggetto di forme di riconoscimento o tutela, ovvero per le quali la reputazione e la qualità sono fortemente legate al territorio. Le misure sono state predisposte in modo da essere coerenti con il principio di sostenibilità ambientale, la transizione digitale, l’inclusione sociale, la valorizzazione del lavoro femminile e giovanile e con il principio di non discriminazione tra le imprese.
È un disegno di legge complesso, introdotto con lo scopo di riacquisire quella capacità produttiva e quel saper fare che ha reso l’industria del Belpaese famosa nel mondo. Il tentativo, forse tardivo, è di recuperare quell’italianità che, declinata in moltissime produzioni, stile, qualità, artigianalità, design, da sempre ci caratterizza e che tuttora permane come patrimonio immateriale di inestimabile valore.
Un disegno di legge che vorrebbe rivoluzionare lo stato delle cose, ma che potrebbe, nella sua applicazione, scontrarsi con una realtà che non ne consente piena attuazione. Al di là delle enunciazioni dei primi articoli, infatti, il ddl assomiglia ad un agglomerato poco armonioso di disposizioni diverse.
È evidente la volontà di rilanciare un’economia e un’identità in affanno, sfruttando il brand più importante per il Belpaese, ma il Governo è costretto a farlo con armi spuntate. Non bastasse, molti dei problemi che si tenta di affrontare con questo provvedimento non nascono da una carenza normativa, perché hanno già una loro disciplina europea. Pertanto, una sovrapposizione, lungi dall’essere utile, potrebbe generare confusione.
Ciò che però non convince pienamente è il significato di made in Italy, termine che, peraltro, fa partire l’operazione in difetto, considerato che — pur essendo di uso comune da decenni — è un’accezione inglese proposta proprio da chi, correttamente, ritiene prioritario riappropriarsi della propria lingua, oltre che della propria identità. Il decreto non dà infatti definizione alcuna né dimade in Italy né del prodotto italiano autentico. Pertanto la domanda nasce spontanea: cosa si può davvero considerare locale in un Paese che importa la stragrande maggioranza delle materie prime, siano esse alimentari o meno?
In un Paese la cui forza risiede principalmente sulla capacità di trasformare materie prime e di creare oggetti unici? In un Paese la cui ricchezza risiede proprio nella differenza di linguaggio, cucina, storia, tradizioni, cultura, costumi, da regione a regione, anzi, da zona a zona? E che quindi difficilmente può incasellare in rigidi schemi qualunque cosa ne sia espressione ancorché manifatturiera?
La mancata definizione di prodotto made in Italy si sarebbe potuta perdonare se il decreto fosse stato chiaro nei contenuti, indicando una direzione univoca e risoluta sugli obiettivi. Ma questo non è. E alcuni passaggi, molti, forse troppi, appaiono forzati, indebolendo la proposta nel suo complesso.
Che peculiarità avrebbe per esempio il programma didattico del liceo del made in Italy che già non sia previsto per istituti similari? E cosa ci fanno l’imprenditoria femminile, i mutui a tasso agevolato, i brevetti e la pasta nello stesso decreto?
Siamo sicuri che non si tratti di temi che andrebbero considerati singolarmente e disciplinati ognuno con un provvedimento dedicato? Si toccano molte, troppe questioni, attribuendo risorse (poche per la verità) che rischiano di disperdersi, inutilmente, in mille rivoli.
Il ragionamento di fondo — che si può solo intravedere — è che sia made in Italy tutto ciò che viene fatto con materia o materiale italiano e che viene lavorato nel Belpaese. Ma se questo è il concetto, ci si muove forse troppo tardi. Perché le produzioni che rispondono a questi due criteri si possono ormai contare sulle dita di una mano.
Quando quindi un prodotto, anche non alimentare, si può considerare italiano e quando no? È una deriva pericolosa quella che si può prendere adottando criteri molti rigidi. Perché, vista la scarsità della maggior parte delle materie prime nel nostro Paese, vista un’artigianalità e un’industria sempre meno attive, viste le tradizioni che si stanno perdendo nel tempo e sempre più ibridate da usanze altrui, un made in Italy fatto interamente da Italiani, in Italia e con materie prime italiane, è difficile da trovare. Molto difficile.

Focus Food
Tuttavia, per stare sull’esame dei contenuti della norma, meritano un’attenzione particolare i numerosi articoli dedicati all’agroalimentare. Trattare questo tema, già fortemente normato e oggi principalmente appannaggio del legislatore europeo, non solo non è d’aiuto agli operatori, ma potrebbe generare confusione.
Il passaggio sull’estensione delle IG ai prodotti non alimentari è trattato in maniera semplicistica, considerato che si tratta di una normativa già ampiamente sviscerata ad altri livelli e, rispetto alla quale, qualunque ulteriore passaggio rischia di essere inopportuno e dannoso. Trattare il tema della pasta, ad esempio, che sottostà già a regole molto rigide, sembra il tentativo malriuscito di porre un punto fermo su questioni più ideologiche che pratiche.
L’istituzione di una “Commissione tecnica che effettua indagini e redige linee guida che identificano le lavorazioni di particolare qualità, anche allo scopo di consentire ai produttori di darne corretta e pertinente evidenza pubblicitaria nell’etichettatura” è un’operazione davvero difficile da comprendere. Qualunque produttore che lo voglia, se le informazioni sono veritiere e supportate da elementi oggettivi, può in etichetta già oggi mettere in evidenza elementi qualitativi. Semmai, invece, ci si dovrebbe preoccupare di altri aspetti come la carenza di cereali e di grano in particolare, in Italia e in Europa, e il fatto che una politica agricola miope, negli ultimi decenni, ci abbia impoverito anche su quel fronte.
In fatto di pasta — ma, a dirla tutta, non solo di pasta —, siamo ottimi trasformatori, ma poveri di materia prima locale. Pertanto i migliori propositi di realizzare prodotti italiani dall’inizio alla fine si infrangono di fronte alla carenza di materia prima nazionale o regionale. Un problema che nessuna Commissione potrà superare, ma che invece andrebbe affrontato sul campo e, in questo senso, il termine non ha un significato solo figurato.
L’articolo sulla certificazione di qualità della ristorazione italiana all’estero a primo acchito sembra persino utopistico, sebbene si comprenda pienamente l’esigenza di fare ordine. Impossibile non tornare con la mente all’indimenticabile scena in cui Checco Zalone, nel film Quo vado?, smonta l’insegna di un ristorante italiano in una città del Nord Europa che proponeva una disgustosa pasta al sugo, visibilmente immangiabile perché cotta in acqua fredda per “soli” trenta minuti! Il siparietto è divertentissimo e pone l’accento su un problema reale.
Ma in un Paese dove non sempre è facile per il consumatore riuscire a degustare al ristorante un prodotto tipico locale, si può pretendere di entrare nel merito dei menu dei locali esteri, giudicandoli sulla qualità e provenienza dell’offerta per verificare se sia effettivamente conforme alle migliori tradizioni italiane? Monitorare i ristoranti in Italia non è facile, figuriamoci quanto può essere difficoltoso farlo in giro per il mondo!
Siamo certi che quel disciplinare che, ambiziosamente, dovrebbe dettare delle regole ai ristoratori di oltre confine, ancora tutto da scrivere, darà seri problemi a chi dovrà predisporlo. L’Italian sounding è un fenomeno che ci danneggia e che spesso passa attraverso le cucine dei ristoranti all’estero, ma il modo migliore per fronteggiarlo è mettere in grado l’industria nazionale di produrre di più e meglio e di riempire quei vuoti di mercato che altri riescono ad occupare abusivamente con produzioni solo apparentemente tricolori, ma che con l’Italia non hanno nulla a che vedere.
Se da una parte il nostro export è in aumento, nella classifica dei Paesi europei che esportano maggiormente l’Italia resta comunque seconda a diversi Stati, anche ad alcuni che non vantano un patrimonio enogastronomico importante come il nostro, ma che, avendo un’industria forte, nel silenzio dei numeri e senza clamore, ci precedono e ci staccano nettamente. Su questo bisognerebbe riflettere.
Appare di più facile attuazione l’articolo che prevede attività di promozione della cucina italiana all’estero. Tuttavia, due milioni di euro in due anni sono una cifra risibile e, ancora una volta, il rischio che si disperdano le poche risorse in mille rivoli, senza di fatto raggiungere risultato alcuno, è concreto.
Sembra invece avere maggiori possibilità di ricaduta effettiva sul comparto il fondo di supporto al riconoscimento delle certificazioni II.GG. di cui è prevista l’istituzione. Tuttavia, anche in questo caso, le risorse sono limitate e ancora una volta il pericolo è che, una dotazione così esigua, vanifichi il raggiungimento di ogni obiettivo. Non senza spreco di risorse.
In merito alle attività di ricognizione dei prodotti industriali e artigianali tipici non è chiaro se siano ricompresi quelli alimentari. Nel caso lo fossero, non si capisce la finalità dell’azione, considerato che da decenni esiste un elenco ministeriale di PAT che viene rinnovato periodicamente e che, al pari di quanto proposto da questo decreto, non garantisce tutela alcuna.
Nel caso invece in cui il Governo abbia semplicemente voluto anticipare Bruxelles, non ci si spiega perché introdurre una norma che presumibilmente, a breve, dovrà essere stralciata.
Sembra più interessante l’ipotesi di una blockchain per la tracciabilità delle filiere, sebbene si tratti di uno strumento già nella disponibilità delle imprese che vogliono certificare la tracciabilità del proprio prodotto e rendere fruibile questa informazione ai consumatori. La direzione presa sia da parte del mercato sia dall’UE è questa, pertanto non si tratta di una vera e propria novità, come non lo è il passaggio sulla contraffazione.
È nobile il tentativo di porvi fine, ma le norme per contrastarla fanno parte del nostro ordinamento da tempo. Altra cosa è farle rispettare e intervenire in maniera efficace dal punto di vista culturale, sanzionatorio e investigativo, perché un fenomeno di così ampia diffusione sia debellato o almeno ridotto.
Tra le righe del decreto non c’è purtroppo una presa di posizione netta e decisa a difesa del made in Italy, qualunque cosa si intenda con questo termine. Non basta stimolare l’orgoglio nazionale per recuperare danni fatti nei decenni alla nostra economia. Bisogna trattenere le imprese nel Belpaese e invogliarle ad investire qui, ricostruendo le filiere e un tessuto produttivo che nel tempo si è disgregato.
Bisogna ragionare su politiche fiscali che non facciano scappare gli imprenditori o che, peggio, li portino a chiudere, per (s)vendere i marchi a soggetti esteri che delocalizzano la produzione, pur continuando impunemente a sfruttare l’aura di italianità derivata dal nome. L’incentivo maggiore a rivitalizzare la nostra industria, il nostro artigianato e quindi il made in Italy — se anche così lo si intende —, è garantire uno Stato che funziona, infrastrutture all’avanguardia, servizi pubblici e privati efficienti, un apparato amministrativo che non sia da ostacolo ma d’aiuto, una giustizia che si muova in tempi ragionevoli. Così si può ritornare, almeno in parte, ad essere ciò che eravamo.


Guido Guidi



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