Korobu è una parola giapponese che significa scomparire, perdersi, precipitare giù, ma anche abiurare una religione per convertirsi ad un’altra come narrato in Silence di Martin Scorsese. Ambientato nel Giappone del XVII secolo, questo film narra delle persecuzioni dei cristiani da parte dei buddisti; i primi venivano costretti a fare korobu, appunto, ossia ad abiurare la fede originaria. Un atto che richiede determinazione e forza.
Il montone che arde stagliandosi su una città, nel cielo grigio della nuvolosa copertina dell’esordio della band dal nome nipponico ma di base a Bologna, da sempre rappresenta appunto forza, sfida e tenacia. Giappone, montone e forza che si incontrano nel Jingisukan (ジンギス カン, Gengis Khan), un piatto preparato su una griglia la cui forma tradizionalmente è quella dell’elmo di un soldato mongolo. Particolarmente apprezzato nel nord dell’isola di Hokkaido, nonostante la sua atipicità all’interno della cucina giapponese, dove questa carne è poco utilizzata.
Ha origine nel 1918 quando, in seguito al piano del governo per realizzare un gregge di almeno un milione di agnelli, furono istituiti cinque allevamenti dislocati lungo il Paese. Solo quelli di Hokkaido (Takikawa e Tsukisamu) non vennero chiusi e questo portò gli abitanti a nutrirsi di ciò che allevavano in principio solo per la lana.
Storia e artificio si confondono unendo la passione per la carne di montone del popolo mongolo (fino ad allora non presente nella cucina giapponese) al fatto che i loro soldati usassero i caschi per cuocerla. Ecco quindi spiegata la forma convessa e incisa della griglia e il nome del piatto.
Lo Jingisukan, con altri nomi, si trova nella cucina di Taiwan, Tailandia e Cina. Conviviale, la carne che può essere semplice o marinata, viene servita a fette agli ospiti, poi incoraggiati a grigliarla da soli, insieme a varie verdure come cipolle, cavoli, porri o peperoni. Due tentate invasioni, guerre, rapporti di forza che diventano (anche) cultura. Alzarsi dopo essere caduti, dare forma a una rinascita con la memoria di ciò che è andato perso: “Fading | Building” è come un tazebao a 33 giri al minuto.
Nati a Bologna nel 2019, pochi mesi prima della pandemia, i tre Korobu sono Gianlorenzo “Giallo” De Sanctis (voce, basso, sintetizzatori), già Buzz Aldrin e Husband, assieme ad Alessandro Rinaldi (chitarre e synth) e Christian Battiferro (batteria e percussioni elettroniche) che vengono dal post rock di My Own Parasite e hanno firmato la colonna sonora del film Una notte di Toni D’Angelo. Hanno registrato utilizzando preamplificatori microfonici vintage della trasmissione nazionale della DDR (RFZ), microfoni a nastro e dinamici, in un percorso creativo in continuo movimento, dove le certezze si annullano per poi ritornare alimentate dalla ricerca, cambiando forma fino a quella definitiva.
Approcci diversi, brani costruiti e dissolti più volte, rielaborati, trasformati, incarnati in altre strutture e melodie, fino ad arrivare ad una sintesi che hanno riconosciuto come rappresentativa della loro identità. Eterogeneità stilistica e di strumentazione, il desiderio di sorprendere persino loro stessi. Un disco dove le influenze di Talking Heads, Liars, Can, Silver Apple, Beatles, Liquid Liquid sono presenze mai invadenti, suggestioni da cui farsi ispirare.
Il loop da cui parte Weird Voices è analogico che diventa digitale, una matrice da cui si apre una dinamica rotonda e meccanica, bassi che rimbalzano su pareti di synth. La voce riverberata segue il disegno circolare e si fa raddoppiare, distendendosi senza perdere tensione e cantando il fallimento, l’incapacità di affrontare le proprie battaglie con la certezza che a vincere saranno i demoni interiori.
Il singolo Roads (il video in stop motion di Ericailcane, autore anche della copertina, è emblematico nel narrare la tematica dell’effetto dei processi produttivi sul sociale, con un topo che rinuncia/utilizza una mandorla per bloccare/sabotare un macchinario) non è solo un magnetico brano Dub, perché si nutre di Kraut in una struttura ritmica che sembrano un susseguirsi di serrature ermetiche che si aprono in successione.
Dropped Pleasure prende la ritualità fin qui sentita e la amplifica portandola ad espandersi in più, come un movimento inclusivo. La ritmica progressiva moltiplicata di arpeggiatori arriva al ritornello già carica di groove, esaltandosi senza debordare. Brano empatico di rara potenza comunicativa. Get Lost ci porta a Sud, quasi una bossa, danza esotica e straniante, sbiadita di incertezza dove anche echi lounge e sixties si intrecciano assieme a una voce più calda e vocalizzi che sembrano lamenti lontani.
Tongue on Tongue è un abbraccio, il contatto cercato e raggiunto, perfetto pop con richiami 80’s che entra subito in confidenza, una ricostruzione. Even Today è più scura, inquieta, la parte elettronica più manifesta, una marzialità con frammenti gabber, le voci filtrate, un treno che sembra sbuffare sul finale lisergico.
Retro futuristica Interstellar, suona anche come un omaggio ai Daft Punk mentre viaggia irregolare tra slanci analogici e stazioni digitali. Viaggio che si concretizza nella conclusiva e funkeggiante On The Edge. Echi di The Rapture, un nucleo melodico che non si smarrisce, ritmi che rallentano quasi a scomparire, poi si riflettono come su file di specchi senza deformarsi, replicandosi, stratificandosi, strutturandosi.
Scomparire e costruire, Korobu hanno inciso un album coraggioso e bellissimo. In quest’epoca consumistica dove solo se vinci sei qualcuno altrimenti sei un incapace, rivendicano l’esperienza del fallimento come parte dell’essere umano utile anche per crescere. Un valore attraverso cui prendere consapevolezza di se stessi, imparando dalle proprie debolezze e scoprendo le proprie qualità. Un disco nato proprio da questo processo, arrivando ad essere uno degli esordi più preziosi e necessari.
Giovanni Papalato
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