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Pollo da laboratorio e non solo

of Corona S.


Ad oggi sono oltre 200.000 le firme raccolte dalla nota confederazione del comparto agricolo allo scopo di promuovere una legge per il divieto di produzione, uso e commercializzazione del cibo sintetico. Una corsa contro il tempo, considerato che già quest’anno potrebbero essere presentate ad Efsa e Commissione europea le prime richieste di autorizzazione all’immissione nel mercato. La contrarietà appare diffusa. A sposare la causa del no sono infatti sindaci, pediatri, addetti ai lavori come Filiera Italia, Campagna Amica, World Farmers Markets Coalition, World Farmers Organization, Farm Europe e in cima alla lista, assieme alla premier Giorgia Meloni, il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida e altri ministri e sottosegretari, parlamentari nazionali ed europei, personalità della cultura dello sport e dello spettacolo, rappresentanti istituzionali di regioni e province, imprenditori e persino il clero con numerosi vescovi.
Il cibo creato in laboratorio non solo genera dubbi sui risvolti in termini di sicurezza, ma è visto come una minaccia concreta per il futuro della cultura alimentare nazionale e dell’intera filiera del made in Italy, a vantaggio di multinazionali e colossi dell’hi-tech che sul settore hanno fortemente scommesso, mettendo a correre risorse e mezzi.
Un interesse, questo, che appare quantomeno anomalo agli occhi di chi opera nel mondo agroalimentare. E infatti non lo manda a dire Ettore Prandini, numero uno di Coldiretti, che chiosa: «c’è una precisa strategia delle multinazionali, che con abili operazioni di marketing puntano a modificare stili alimentari naturali fondati su qualità e tradizione. Siamo pronti a dare battaglia poiché quello del cibo Frankenstein è un futuro da cui non ci faremo mangiare».
Ed è proprio dal palco del XX forum dell’Agricoltura che il neoministro Lollobrigida ha dichiarato la sua totale contrarietà ad una produzione il cui sviluppo sembra invece stare molto a cuore alla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen.
Che a Bruxelles fossero fermamente convinti che tra le cause del cambiamento climatico e dell’inquinamento ci fossero gli allevamenti era evidente ad una prima lettura del Farm to Fork. Ma che si pensasse di risolvere il problema con il cibo sintetico, beh, questa è una sorpresa. Eppure non ci sono più dubbi: non solo l’entusiasmo non viene nascosto, ma si lavora per incoraggiare quel filone, anche favorendo contributi e finanziamenti.
Eppure l’impegno dei privati non manca: le imprese del settore della carne sintetica sono passate da 600 milioni di dollari di investimenti nel 2018 a 4,5 miliardi nel 2021. E anche grazie ai 25 miliardi dedicati in comunicazione, si prevede che gli investimenti entro il 2035 raggiungeranno la ragguardevole somma di 300 miliardi di fatturato (il 22% delle proteine complessive prodotte al mondo).

Cosa sono la carne vegetale e la carne sintetica
Sarebbe però opportuno fare un passo indietro e chiarire meglio di cosa parliamo perché, se da una parte abbiamo la combinazione di materie prime vegetali per restituire la consistenza e il sapore della carne vera, dall’altra c’è invece la clonazione di cellule estratte da animali vivi che vengono poi fatte riprodurre per ottenere gli stessi tessuti in vitro.
Per la prima volta negli Stati Uniti questa seconda tipologia è stata autorizzata per il consumo umano. A darne l’annuncio proprio la Food and Drug Administration (Fda), avendo approvato un prodotto grazie ad un bioreattore. Una vicenda che oggettivamente apre la strada verso ulteriori intraprese in questo senso e che non si limiteranno agli USA, ma potrebbero rapidamente diffondersi nel resto del mondo, Europa compresa.
Si tratta di processi produttivi differenti a cui, infatti, si attribuiscono nomi diversi: la prima, carne vegetale (in quanto derivata da piante); la seconda, carne sintetica, in quanto sviluppata in laboratorio. Entrambi i processi sono frutto di evoluzioni naturali di una o più sostanze, sebbene una parte dell’opinione pubblica veda la carne vegetale più genuina e salubre di quella sintetica.
Oltre alla carne, alle uova e al miele, la ricerca si sta dedicando anche al pesce, ma la sua diffusione in commercio appare ancora remota. Il siero di partenza ha infatti costi molto elevati e l’alternativa vegetale non è da meno.
Le questioni con cui fare i conti sono innumerevoli. Non è solo un fatto etico, di processo e di costo. Ci sono fattori che, al momento, rendono le produzioni poco sostenibili, sebbene la tecnologia stia permettendo di affinare sapori e profumi, tarare la commercializzazione, ragionare sugli investimenti necessari e valutare meglio l’impatto allo scaffale.
Chi dà per scontato che questi prodotti possano arrivare senza ostacolo alcuno sulle nostre tavole, non fa i conti con la resistenza del mercato. La petizione di Coldiretti giunge infatti in concomitanza con la diffusione dei risultati di uno studio del Censis che mostra un deciso rifiuto per l’84% degli Italiani. Un no secco al cibo sintetico che tocca trasversalmente, a prescindere dalle classi di età, titolo di studio, genere, area di residenza e reddito.

Le ragioni dei favorevoli e dei contrari

Al di là dell’opinione diffusa al momento, le valutazioni vanno fatte ad ampio spettro. Quanto sono salubri questi prodotti? Inoltre, si può davvero pensare che non abbiano impatto alcuno sui nostri ecosistemi? O che tale impatto sia davvero inferiore a quello della produzione agricola e della zootecnia? E, andando su questioni più squisitamente politiche e quindi di opportunità, non c’è il pericolo che — soprattutto sul breve e medio periodo — la filiera del cibo sintetico resti appannaggio di poche lobby, con tutti i rischi che ne possono derivare?
L’ipotesi più attendibile è che a lungo andare queste produzioni arrivino ad avere un prezzo di mercato molto basso e così diventino straordinariamente appetibili, soprattutto per le classi meno abbienti, che sarebbero costrette a fare delle scelte obbligate, guidate unicamente dal portafoglio.
Le paure sono comprensibili e legittime, perché altrettante sono le incognite. Ma allo stesso tempo è plausibile credere che queste produzioni trovino, col tempo, un loro spazio. Di fronte ai grandi temi che hanno anche implicazioni etiche, si formano spesso le opinioni in maniera preconcetta, dando seguito a delle storture sul piano pratico. Si pensi a cosa è accaduto con gli OGM. L’alzata di scudi contro questa tipologia di produzioni ha portato ad un divieto della loro coltivazione in Italia, ma possono essere importati e consumati, con tutte le conseguenze che questo fatto implica in termini di competitività per il nostro sistema agricolo e zootecnico.
Se il mondo andrà nella direzione della produzione e del consumo della carne sintetica, sarà comunque difficile impedirne la diffusione. Considerato inoltre che su questi temi a decidere è l’Europa, l’Italia può certo far valere il suo peso, ma non è detto che riesca nell’intento.
D’altronde, anche i sostenitori della carne sintetica — seppur ancora pochi — portano degli argomenti a sostegno della loro tesi. Tra questi, il fatto che i bioreattori siano sistemi utilizzati da decenni per una pluralità di composti, non ultimi farmaci salvavita come l’insulina. In più presentano standard di sicurezza elevatissimi e la loro pericolosità non sarebbe superiore a quella di altri impianti.
Sul fronte dell’impatto ambientale, invece, il tema più diffuso è che agricoltura e allevamento abbiano ricadute importanti. Non c’è da stupirsi, considerata la campagna denigratoria che è stata fatta negli ultimi anni contro la carne. Ma si porta questo elemento come assunto indiscutibile, dimenticando che anche i bireattori hanno un certo impatto e non è dato sapere se, a parità di produzione, la carne sintetica sia più o meno inquinante.
Per difendere una certa linea si è arrivati ad attribuire all’agricoltura colpe gravi da ricondurre ai rilasci di residui o all’utilizzo di sostanze nocive. Ma ci si dimentica della irrinunciabile necessità di produrre per sfamare il pianeta e del fatto che ci sono molti modi di fare agricoltura e zootecnia, con effetti e conseguenze anche molto diverse tra loro.
La campagna mediatica contro la carne, stranamente iniziata solo a qualche anno dalla produzione in scala di quella sintetica, trova un contraltare nella Dichiarazione di Dublino, un documento che dà voce sul tema alla comunità scientifica. Lo scorso ottobre, l’Autorità irlandese per l’agricoltura e lo sviluppo alimentare ha infatti ospitato un evento internazionale intitolato “Il ruolo nella società della carne: cosa dice la scienza”. Gli esiti del simposio evidenziano il ruolo fondamentale degli animali d’allevamento nel mantenimento di un flusso circolare in agricoltura, riciclando le grandi quantità di biomassa non commestibile generata come sottoprodotti durante la produzione di alimenti per la dieta umana e convertendo le proteine di alta qualità. Il consumo regolare di alimenti di origine animale, nell’ambito di una dieta equilibrata, è vantaggioso per gli esseri umani, in particolare per quelli con bisogni elevati, come i bambini e gli adolescenti, le donne in gravidanza, in allattamento e in età riproduttiva e gli anziani.
La produzione di carne è spesso considerata come una delle principali cause del cambiamento climatico per le emissioni di metano biogenico, ma dal vertice è invece emerso che questa è una valutazione riduttiva e semplicistica, a cui si è giunti utilizzando parametri parziali. I progressi nelle scienze animali e nelle tecnologie correlate stanno inoltre migliorando le prestazioni degli animali da reddito, relativamente a tutti gli aspetti menzionati.
Va detto che il consumo di suolo per la produzione di carne sintetica è sensibilmente inferiore rispetto a quella oggi impiegata dagli allevamenti. Il cibo artificiale può essere prodotto in superfici molto più modeste e magari in spazi già parzialmente compromessi dal punto di vista ambientale. Ma questo è uno degli aspetti che va sempre valutato in termini di impatto complessivo.
E sempre per stare in tema di inquinamento e smaltimento rifiuti, i sostenitori della carne sintetica non perdono occasione di sottolineare che il cibo realizzato in laboratorio sia completamente edibile, mentre nel caso della carne vera gli scarti di lavorazione e poi di consumo siano in percentuale notevole. A questo proposito verrebbe però da rispondere con il trito e ritrito detto nostrano secondo cui del maiale non si butta via niente. Adagio peraltro valido per molti animali e sempreverde anche con le nuove consuetudini industriali, che per ragioni economiche, e non solo, tendono a sfruttare tutto di un capo di bestiame, anche quando quell’uso non è in cucina, come accadeva un tempo.
È vero, solo per fare un esempio, che la pelle del bovino deve essere smaltita. Ma di quella pelle, che rappresenta una parte non edibile, si possono produrre oggetti e accessori, facendole così acquisire nuova vita. Nel caso della carne sintetica, gli accessori citati non si potrebbero realizzare se non autonomamente, in maniera artificiale e generando un ulteriore costo ambientale.
E ancora, chi vuole l’introduzione del cibo sintetico negli scaffali dei nostri supermercati, lo fa anche in ragione del diritto di una maggior scelta. Il principio è legittimo e condivisibile, ma solo in assenza di ombre sulla ricaduta in termini di salute umana. Lo si pretende, a maggior ragione, alla luce della guerra che negli ultimi anni è stata condotta, di volta in volta, contro diverse tipologie di prodotti alimentari, che pure da millenni fanno parte della nostra cultura gastronomica o che, semplicemente, sono la risposta ad un bisogno primario di nutrizione.
Dai cereali alla carne, passando per gli zuccheri, il vino e molto altro ancora, sembra che lo sport nazionale — anzi, internazionale — sia diventato criminalizzare questo o quell’altro cibo. La speranza è che nel nome della libertà non si apra la strada ad un sistema produttivo chiuso e in mano a pochissimi nel mondo, che potrebbero così condizionare il destino dell’umanità, per il soddisfacimento di un mero interesse personale.
Qualunque cosa si decida di fare in ambito legislativo a livello europeo e nazionale, una cosa riteniamo legittimo pretendere: non la si chiami carne. In quell’Unione Europea che ha fatto delle denominazioni argomento degno di una produzione normativa senza uguali e in una Italia in cui si viene pesantemente sanzionati per un banale equivoco sull’indicazione del nome di un alimento, non si possono attribuire termini impropri ed equivoci che generano confusione nel consumatore.
Chi produce ha l’obbligo di essere chiaro sulle informazioni che presenta al mercato e chi compra ha diritto di acquistare con serenità e senza dubbi di sorta.


Sebastiano Corona



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