Contenuto all’interno delle cavità ossee, il ruolo del midollo è quello di produrre globuli rossi e bianchi, ma a noi interessa relativamente. Negli animali macellati, il “midollo giallo”, con interessante ed eterogeneo utilizzo gastronomico, si trova nelle ossa lunghe (come femori e stinchi), mentre nelle ossa spugnose e nelle epifisi si trova il “midollo rosso”, più semplicemente utilizzabile per insaporire il brodo.
In macelleria è facile trovare ossa lunghe, ma questo non significa che si possa automaticamente ricavarne in quantità perché non tutto il segmento contiene lo stesso spessore e alcune parti non ne sono praticamente custodi. Per quanto una carcassa animale ne contenga, la maggior parte non può esserne estratta.
È un alimento estremamente grasso e calorico, ma per compromettere l’equilibrio nutrizionale di una dieta, considerando che una porzione media è tra i 10 e i 20 grammi, bisogna davvero abusarne. Se il colesterolo è abbondante, è comunque ricco di grassi che hanno la funzione di abbassarlo. I carboidrati sono assenti e le proteine sono poche, ma è importante la grande varietà vitaminica oltre alla presenza di ferro emico e zinco.
Il gusto delicato e la consistenza solubile del midollo di vitello lo rendono il più utilizzato in cucina. Ne vengono consumati due tipi: il filone midollo della colonna vertebrale e quello presente nello stinco o garretto. Quest’ultimo se affettato diventa ossobuco, mentre il primo si può trovare in piatti ricchi di altre frattaglie come nella Finanziera piemontese assieme a creste di gallo e animelle o nel fritto misto di carne di più regioni.
Mio babbo era goloso di ossibuchi e io invece da bambino non ne ero invogliato per nulla (imparerò con gli anni ad avere sempre meno inibizioni), chissà se avrebbe preferito o meno il modo moderno di tagliare l’osso per il lungo e rosolarlo in forno, succulento e profumato, senza carne attorno.
Nel banco frigo della macelleria gli ossibuchi e gli stinchi interi sono un bel vedere rispetto ai femori spuntati e spolpati, ma, vista la semplicità della loro cottura, disposti in maniera armonica sarebbero un invito a cui difficilmente si potrebbe resistere.
Il midollo non è quindi solo ossobuco, bensì un ingrediente interessante nella cucina contemporanea e protagonista in tante ricette antiche e rappresentative, veri e propri simboli, come il Risotto alla milanese. Il grande Pellegrino Artusi, nella seconda delle tre ricette che riserva a questo piatto, sottolinea come sia “più grave allo stomaco, ma più saporito” grazie ad un soffritto di 40 grammi sia midollo che di burro (per 500 grammi di riso). Quindi veniva usato all’inizio della preparazione, mentre al giorno d’oggi viene utilizzato in fase di mantecatura, rendendo la pietanza più delicata e digeribile.
Ogni occasione per mangiare midollo è da cogliere al volo! Scendendo dall’Emilia-Romagna fino nelle Marche, si può aggiungere all’impasto dei passatelli, pietanza trasversale, sia in brodo che “asciutta”. Tra le pagine de “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiar bene” del grande gastronomo romagnolo, leggiamo che gli ingredienti sono il pangrattato, il parmigiano, le uova, la noce moscata e scorza di limone ma “il midollo serve per renderli più teneri, e non è necessario scioglierlo al fuoco: basta sticciarlo e disfarlo colla lama di un coltello”, semplice no?
Non è così semplice invece il secondo album per un artista, soprattutto se il debutto viene celebrato dai critici e le aspettative si fanno enormi. Così “Actor”, il seguito di “Marry Me” ha una composizione piuttosto particolare: terrorizzata dall’eventualità di avere un “blocco dello scrittore”, St Vincent (pseudonimo di Anne Clark) ha guardato tutti film di Disney e Woody Allen in continuazione per giorni, senza audio, scrivendo colonne sonore per le sue scene preferite. Le ha arrangiate con Garage Band (software per creare musica sviluppato dalla Apple e idealmente rivolto all’utente occasionale senza saper suonare alcuno strumento), ha in seguito scritto i testi e inciso le voci.
Il disco è prodotto assieme a John Congleton (ex leader dei Paper Chase) e, oltre a ribadire i plausi della critica, ottenne anche un discreto successo commerciale aprendo di fatto la carriera della artista di Tulsa (Oklahoma) ma newyorchese di adozione.
Polistrumentista prima nei Polyphonic Spree e poi nella band di Sufjan Stevens, St Vincent, nata nei primi anni Ottanta, ha scelto il suo pseudonimo in riferimento al “Saint Vincent’s Catholic Medical Center”, luogo dove il poeta gallese Dylan Thomas morì nel 1953. Le canzoni di “Actor” sono principalmente cantate dal punto di vista di donne che si sentono soffocate nelle loro vite sicure e ordinate, un concetto espresso perfettamente anche dalla copertina, una foto che potrebbe trovarsi in un catalogo di manichini o di bambole. La bellezza dei suoi lineamenti di porcellana e i grandi occhi spalancati raccontano questo disagio attraverso l’espressione vuota e impersonale, un artificio ancora più esplicito grazie ad una inquadratura stretta e alla luce piatta.
Dentro i solchi i protagonisti si muovono preoccupandosi del giudizio dei vicini e degli estranei, cercando di sfuggire alla noia, tentando di sfogare o quietare la loro rabbia fino a desiderare di scomparire in una nuova identità.
La struttura dei suoi testi è costituita da brevi e chiare espressioni che si alternano a momenti autoironici e di humour dissacrante in reazione a specifici episodi di conflitto o rivelazione. Se la voce raramente si allontana da toni e ritmi calmi e compiacenti, le parti di chitarra descrivono davvero il respiro di un disco tra ansie e catarsi emotive. La tracklist letta in sequenza racconta un concept come una pièce teatrale, in cui entrano in scena prima i personaggi, poi si svolgono le situazioni: The Strangers, Save Me from What I Want, The Neighbors, Actor Out of Work, Black Rainbow, Laughing With a Mouth of Blood, Marrow, The Bed, The Party, Just the Same But Brand New, The Sequel.
Si comincia con un musical arioso e sereno su una cassa a più di cento battiti al minuto, dove, ad ogni frase, il coro continua a promettere di “Dipingere il buco nero più nero” fino a quando le chitarre deflagrano annientando il muro di calma apparente. Poi un’acustica emerge e, per qualche secondo, da sola affianca la battuta, per poi tornare ad indossare la maschera e impugnare il pennello.
La richiesta di Save Me From What I Want, che prende il titolo da uno degli aforismi più noti di Jenny Holzer, è una supplica che si può toccare con mano, costante preghiera del disagio mentre gli archi accudiscono eterei in un contrasto esemplare che si arricchisce di soluzioni in progressione.
Estranei che credono di conoscerti, pronti a giudicarti, The Neighbors danzano un valzer che sembra uscire da certi film della Hollywood dei 50’s, ma c’è qualcosa di sinistro a partite dalle dita che schioccano e l’handclapping fuori tempo. Allora i passi della danza si fanno confusi, tutto sembra girare vorticosamente su sé stesso, sei al centro e non è liberatorio, sembra prenderti in giro il motivo suonato dalla chitarra distorta.
Actor Out Of Work potrebbe (dovrebbe?) essere il titolo del disco; comincia con Anne che prende fiato e poi corre su curve perfette: palpitante, caustica ma soprattutto contagiosa grazie ad una melodia fluida che scorre in mezzo ad una distorsione soffice.
Ha la forma di una nenia tragica “Black Rainbow”, nemesi dichiarata di una serenità ormai perduta e che, nel crescendo Disney (qui non ispirazione ma citazione), arriva al culmine per rimanere appesa nell’oscurità.
Un ponte ideale tra la St Vincent del 2009 e quella che verrà è rappresentato da Laughing With A Mouth Full Of Blood al centro esatto dell’album e musicalmente articolato nella misura perfetta per mostrare e nascondersi ad ogni ascolto in un intreccio di chitarre e melodia seduttiva. Sono a confronto e in dialogo tra loro il dolore del passato e l’incertezza del futuro: c’è spazio solo per la disperazione. Abita così i personaggi in maniera magistrale, con un empatia che le permette di capire le persone ritratte e poterle raccontare risultando credibile.
Isterica e robotica, marziale: Marrow è ispirata dalla scena in cui Dorothy è al cospetto del Mago di Oz per la prima volta ma racconta di attacchi d’ansia attraverso le chitarre deformate dalla distorsione che arrivano senza preavviso. Come un attacco di panico, risposta biologica al disagio acuto che non puoi controllare, inviato dal sistema nervoso (parzialmente centrato nella colonna vertebrale, collegato al midollo osseo) al resto del tuo corpo. Vorresti essere abbastanza forte da affrontare l’angoscia che ha causato l’attacco (Vorrei avere una mente gentile e una spina dorsale fatta di ferro). Allora ecco la richiesta di aiuto, per nulla scontata, di essere aiutati, riparati.
The Bed rallenta e si ferma su un vento orchestrale e desolante, mentre una ninna nanna ossessiva racconta un tragico gioco tra bambino e i genitori, la pistola accanto al letto per un indicente fatale nella sicurezza dell’intimità domestica.
Verbosa, The Party nasce minimale piano-basso-batteria e cresce verso un finale corale, bandistico, sbattendo dentro l’ansia di chi si trova catapultato in una situazione di socialità forzata. I pensieri cercano di uscire dalla confusione nel migliore dei modi possibili, poi ci si blocca quando la paura di fare errori vince sulla fiducia.
Gli incastri narrativi tra musica e parole sono ancora una volta mirabili per come danno forma a certi disagi, come Just The Same But Brand New, prima classica ballata che suona rassicurante tra piano, archi e fiati, poi muta trasfigurandosi in una crudele mareggiata emotiva: l’apparenza cambia ma dentro si replica un copione immutabile.
Il finale è chitarra acustica e luce, come una lampadina che oscilla nel buio illuminando a intervalli random, un folk visionario che si interrompe e tradisce il suo nome: The Sequel. Una condanna più che una promessa, un mito di Prometeo contemporaneo e urbano, una solitudine diffusa ma non condivisa.
Undici quadri espressionisti dipinti con grottesche orchestre Disney, distorsioni come scosse improvvise oppure come trame trattenute, controtempi spezzati che compongono un mosaico su cui lo sguardo empatico ordina alla voce di narrare usando un tono comprensibile e piacevole perché non sia fraintesa.
“Actor” è un disco che non si nasconde, che si fa più definito e concreto del precedente “Marry Me” e si apre a quello che verrà nei dischi successivi a partire da “Strange Mercy” due anni dopo. Qui costruisce una architettura dettagliata e perfetta, poi le dà fuoco. “Actor” è finzione e autoillusione, fingere che ce la fai e il suo contrario, sfuggire il confronto e subire il giudizio, maledirlo e ricercarlo.
È soprattutto il disco che non permette più di ignorare il talento e la tecnica di Anne Clark, che ha scelto di chiamarsi St Vincent e arrivare dritta fino al midollo di chi la ascolta.
Giovanni Papalato
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