Leggi Gallo Nero e pensi subito allo storico marchio adottato per il vino Chianti Classico dal Consorzio che ne raggruppa i produttori. Leggenda vuole che nel Medioevo, teatro di sanguinose battaglie tra Firenze e Siena, in guerra per decidere la proprietà del prezioso e strategico territorio, queste decisero di regolare la questione con un singolare arbitrato, affidando la definizione del confine ad una prova tra due cavalieri. Uno coi colori di Firenze ed uno coi colori di Siena, il confine fiorentino-senese sarebbe stato fissato nel punto dove i due rivali si fossero incontrati, partendo dalle rispettive città al canto del gallo. Se i Senesi scelsero un gallo bianco e lo nutrirono oltre misura, pensando che all’alba questo avrebbe cantato più forte, i Fiorentini scelsero un gallo nero che, al contrario, tennero a digiuno. Il giorno della prova quest’ultimo, morso dalla fame, cominciò a cantare prima ancora che il sole sorgesse, mentre quello senese, sazio, rimase addormentato. E così, mentre il cavaliere fiorentino si mise subito al galoppo, il pari senese dovette aspettare ancora molto tempo, prolungando il momento dell’incontro tra i due e portandolo a soli 12 km dalle mura di Siena, così che la Repubblica Fiorentina poté annettersi tutto il Chianti.
Leggende campanilistiche a parte, il Gallo Nero nacque come simbolo della Lega del Chianti, una sorta di giurisdizione militare creata dalla Repubblica del Marzocco nel 1384 in funzione anti-senese, comprendente gli attuali comuni di Castellina in Chianti, Gaiole in Chianti e Radda in Chianti. Nel 1716 il Granduca di Toscana Cosimo III emise un bando che decretava che i vini prodotti a Castellina, Gajole e Radda potessero chiamarsi vini del Chianti, delimitando quindi la zona vinicola fino ad includere circa i 3/5 del Comune di Greve.
Se invece, come sulla copertina di “Ritual De Lo Habitual”, leggiamo “Galina Negra”, il pensiero non può che andare all’Ayam Cemani, animale completamente nero non solo nel piumaggio, avendo anche becco, occhi, carne, ossa e perfino gli organi interni del colore acromatico. Caratteristiche capaci di caratterizzare la razza in maniera unica e renderla perfetta per suggestioni gothic e antichi rituali, oltre ad ispirare la realizzazione di abiti di alta moda e progetti d’arte.
Importata in Europa solamente nel 1998 dall’allevatore olandese Jan Steverink e, nel corso dei due anni successivi, introdotta anche in Italia, aveva fino a poco tempo fa un costo d’acquisto veramente elevato nel nostro continente, andando dai 200 dollari per un pulcino appena nato fino ai 5.000 dollari per un esemplare adulto che rispettasse perfettamente gli standard di razza.
Oggi le galline Cemani sono estremamente diffuse in Occidente e anche da noi il loro prezzo è in linea con quello di altre di razza pura. In Asia, invece, è ancora utilizzata in cerimonie e rituali di medicina tradizionale e questo incide sul costo che rimane altissimo. Chiaramente parlando di “gallina dai poteri magici”, come ci si riferisce in Indonesia, siamo nell’ambito di suggestioni e credenze che hanno radici molto antiche e che oggi sono mutate in tradizioni.
Diverse sono le teorie sulle origini della razza Cemani, tra queste quella che la lega alla piana di Kedu, nella regione di Temanggung, nell’area centrale dell’Isola di Giava, tanto che li viene anche chiamata Ayam Kedu (pollo di Kedu): all’asceta Ki Agung Makukuhan, durante la meditazione nei pressi di una tomba sacra, venne sussurrato all’orecchio che, per curare la malattia del figlio, avrebbe dovuto ricorrere ad un esemplare di Cemani. Lo fece e, constatatane la guarigione, la gallina divenne un simbolo sacro. Anche per questo motivo la Cemani è presente nella “Ruwatan Cerimony”, che si svolge per liberare da maledizioni e per il risanamento dalle malattie indotte da rituali “santet”(magia nera in Indonesia).
Nonostante molti indichino la sua provenienza sia da Giava che da Sumatra, un’analisi scientifica stabilisce che i due gruppi abbiano una differente linea di sangue e che quindi non discendano da un unico progenitore comune.
Per quanto estremamente ornamentale e sicuramente poco familiare al consumo, il gusto della carne di pollo Cemani è saporito tanto quello di altre razze “normali”. Tende ad avere una consistenza più morbida una volta cotta, rendendola più facile da tagliare.
Se qualcuno potrebbe sorprendersi scoprendo che la carne rimane nera anche quando viene cotta, si ritiene che questo ricco pigmento contribuisca a renderla ancora più gustosa. Certamente si può cucinare come ogni altro pollo, essendo buona fritta come al forno, ma prepararla con latte di cocco e verdure è una combinazione appetitosa e cromaticamente intrigante. Grazie alla sua tenerezza è ottima per zuppe e curry.
La carne di Ayam Cemani è ricca di ferro, prevenendo l’anemia e favorendo la crescita di emoglobina, oltre a minerali che prevengono la formazione di coaguli di sangue, riducendo così il rischio di problemi cardiaci. Ricca di vitamine B1, B2, B6 B12, oltre a carnosina, anserina e creatina in misura più alta di altre razze avicole. Contiene sostanze nutritive come collagene, prolina e lisina, ognuna delle quali è propedeutica alla riduzione di cicatrici e rigenerazione dei tessuti e la vitamina E, funzionale ai processi di guarigione. Dotata di un buon numero di antiossidanti, importanti per ridurre i radicali liberi, limitare l’infiammazione e inibire l’ossidazione, ha una quantità standard di acidi grassi funzionali alla regolazione della funzione genetica. Insomma, come spesso accade, ciò che viene elevato a magico, che ha un origine ancestrale in cui si confondono sacro e profano, ha una radice nel concreto, dimostrata dalla scienza attraverso strumenti di verifica che l’uomo sviluppa nel tempo.
I “poteri” di guarigione del Cemani sono frutto di caratteristiche organolettiche che adesso possiamo spiegare, ma che hanno contribuito nei secoli a radicarsi in leggende e rituali che hanno formato etnie e popoli e ispirato opere artistiche di ogni genere, finendo anche sulla copertina del terzo album della band losangelina Jane’s Addiction.
Avevano esordito solo tre anni prima, nel 1988, in maniera decisamente singolare con un live omonimo, seguito a distanza di un anno da “Nothing Shocking”, questa volta regolarmente inciso in studio. Arrivano al terzo disco carichi di aspettative e attraverso diversi cliché legati alla turbolenta coesistenza di diverse personalità condizionate da abusi di sostanze e sregolatezze di ogni genere. Si scioglieranno per tornare insieme dopo tredici anni, ma saranno un gruppo diverso e senza l’urgenza che rende un disco valevole di essere ascoltato e celebrato.
“Señores y señoras Nosotros tenemos más influencia con sus hijos que tú tiene, pero los queremos Creado y regado de Los Angeles, Juana’s Adicción” (“Signore e signori, abbiamo più influenza sui vostri figli di voi, ma li amiamo. Creato e diffuso da Los Angeles, Jane’s Addiction”): inizia così, con un annuncio che è una dichiarazione, STOP, tutto di corsa, dalla voce nasale e riverberata a guidare giù a capofitto come in un dowhill il resto della band. La batteria picchia a fare strada, basso e chitarra si urlano in faccia distorti prima di macinare in attesa di scoppiare di nuovo, placarsi in un momento di ascetico mantra perfetto per poi deflagrare con ancora più potenza prima di fermarsi definitivamente.
No One Leaving balla un funky su un basso suonato a cinque dita, ma in un attimo tutto si arrampica fino a raggiungere la vetta da cui urlare e poi placarsi: un minuto esatto e poi si ricomincia daccapo, ma una volta risaliti invece di rallentare si spazza tutto con un assolo di chitarra che suona blues e metal, in una commistione tanto improbabile quanto perfetta. Perry Farrell si inserisce per guidare un dialogo surreale di botta e risposta con gli strumenti tanto naturale che sembra di vederlo oltre a sentirlo. Un intro Dub dove tutto sembra narcotizzato e che riporta ai Residents si dissolve quando una linea di basso, così densa e ruvida da poterla toccare, apre all’ennesima corsa, stavolta più potente col peso dato dalla elettrica di Dave Navarro che attraversa a quote differenti lo spazio del brano segnandolo.
Ain’t No Right è una consapevole negazione di una California idealizzata dai Beach Boys, che senza mezze misure riduce tutto a dolore e piacere. Obvious arriva epica e pacifica su lastre sonore che si sovrappongono e si distribuiscono, sommandosi e potenziandosi senza disperdersi. Un crescendo armonioso e solenne che abbraccia anche pianoforte e synth, si fa melodie arabe e poi energia new wave.
Arriva il momento di chiudere il lato A, il vinile ha uno spazio limitato, un cane abbaia e il basso di Eric Avery torna a essere il motore della band, mentre l’eccellenza di Stephen Perkins prende la forma di una ritmica perfetta per sensibilità: fondamentale, ma quasi discreta pur essendone vitale, picchiando pelli e casse come respirando, i piatti proprio quando è il momento. Caught Been Stealin è la voce unica in vocali stese in mezzo ai wah wah, “un equilibrio di eccessi di rara bellezza” pensi per un secondo mentre balli.
Girando il lato il disco continua, ma cambia luce aprendosi con Three Days e i suoi dieci minuti. È un brano che, per dinamica e struttura, riesce a essere molteplice e vera nell’eterogeneità stilistica, dove la psichedelia è un nome utile ma non esaustivo per chiamare questo viaggio. Spoken Word sotto traccia e indagine sonora fino a definirsi e strutturarsi, poi pochi secondi dopo il terzo minuto il basso la rigenera per farla liberare in un assolo di elettrica esemplare per quegli anni Novanta così legati ai Settanta ma emancipati grazie alla loro identitaria ed effimera giovinezza. Tribalismo e noise, mischiarsi in un confronto lisergico, tutto in un fluido inno di autodeterminazione e fotografia bellissima di perfetta irregolarità che si chiude in una frammentazione di evviva inarticolati e assoli come urla, consapevole di essere parte di chi l’ha ascoltata.
Astratta e straniante Then She Did… prende corpo in un crescendo che dall’epico lascia presto spazio ad un drammatico sfasciarsi di archi per poi in un crescendo che dall’epico lascia presto spazio ad un drammatico sfasciarsi di archi per poi quietarsi e animarsi di nuovo in un disarmonico quanto necessario finale.
Of Course potrebbe spiazzare, ma non lo fa, inserendosi nella eterogenea uniformità del disco. Salmodiante e percorsa da un violino che riempie di melodie klezmer, nenia a tempo di valzer si dondola tra ricordi e simbolismi. Ci pensa Classic Girl, il brano che chiude il disco, a sorprendere e pacificare, forte di una bellezza intensa e antica. Lenta e semi acustica, scalcia di vita ed entusiasmo, circolare senza il peso della ridondanza: una canzone d’amore.
Ritual De Lo Habitual sarà l’ultimo album di Jane’s Addiction per molti anni a venire. Perry Farrel, subito dopo, inventa il “Lollapalooza”, festival itinerante di musica alternativa, assieme ad realtà non strettamente musicali in linea con l’identità dell’evento.
Torneranno dopo diverse esperienze soliste e con altre band nel 2003 e poi ancora nel 2011, ogni volta senza Avery al basso. Questo, assieme al concetto raramente smentito che le reunion non hanno quasi mai ragione di essere, dà la misura di quanto lo scarto tra la prima parte della loro discografia e le altre sia sensibile.
Ma tornando a questo disco, celebriamolo come è giusto che sia, capace di anticipare quell melting pot stilistico che avrebbe fatto la fortuna di altri artisti e case discografiche. Sonici precursori indisciplinati e geniali, disadattati e quindi destinati ad implodere, hanno inciso in maniera indelebile il segno che ha connotato chi lo ha riconosciuto. Spavaldi edonisti, affascinanti stregoni che mischiano sacro e profano sulla copertina e dentro le canzoni come nella vita, illuminano il passaggio tra gli anni Ottanta e i Novanta fotografando come in una polaroid ciò che agitando si mostrerà in seguito.
Il mainstream ricorda oggi altri nomi, dimenticando chi tra catarsi, meraviglia e potenza ha celebrato l’effimero.
Giovanni Papalato
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