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La carne in tavola

Lo spiedo bresciano

of Manicardi N.


Originario del territorio bresciano, ma diffuso anche nelle province di Bergamo, Verona, Mantova e Cremona, lo spiedo è conosciuto fin dal Medioevo, quando la cacciagione era per i nobili la fonte principale di sostentamento oltre che di divertimento. Allora era formato soltanto da piccoli volatili inframmezzati da sottili fette di lonza o coppa di maiale, salate e arrotolate. Successivamente, sia per la crescente carenza di uccelli e di attività venatoria che per la diversa sensibilità e legislazione in materia, sono subentrate altre carni, prediligendo quella degli animali da cortile: maiale (lonza o coppa e costolette), pollo, anatra e altri avicoli (cosce, petto o ali), coniglio (tranne testa e interiora), faraona e capretto, tagliate a cubi irregolari e alternate a fette di patate e foglie di salvia. L’utilizzo degli uccelli da cacciagione è interdetto per tutti i locali pubblici e i ristoranti.
Le carni usate nella ricetta tradizionale devono essere fresche per garantire la morbidezza del prodotto finale e di produzione italiana. Altri ingredienti previsti dalla ricetta originale sono il burro, preferibilmente nostrano e con almeno l’80% di grasso, e il sale fino di origine non marina.
Con l’introduzione degli animali da cortile il piatto è diventato tipico delle famiglie contadine e poi, in senso lato, delle famiglie di queste zone che tuttora lo considerano il piatto domenicale o del dì di festa per eccellenza, simbolo di tradizione e convivialità anche perché richiede tempi lunghi di preparazione e di cottura che, a loro volta, costituiscono il polo d’interesse collettivo dell’intera giornata. Immancabili le patate a fette e le foglie di salvia alternate ai pezzi di carne e l’abbondante burro con cui si ammorbidisce e si condisce.
Nel marzo 2011, per far conoscere e promuovere lo spiedo bresciano salvaguardandone l’autenticità, è stata riconosciuta in modo ufficiale la tipicità della ricetta a Denominazione Comunale, legata ai paesi di Serle (nella bassa Valle Sabbia, che può essere definita la capitale del piatto) e Gussago (in Franciacorta) a cui, a inizio 2021, si è aggiunto Toscolano-Maderno. È stato inoltre istituito il portale www.ilverospiedo.it. Rimangono però vive e sempre attuali anche le diverse varianti di zona, legate alle particolarità del territorio e alle tradizioni familiari per cui, ad esempio, nelle alte valli bresciane è frequente il caso che, al posto del burro, venga utilizzato lardo di maiale o, nelle zone di lago, olio d’oliva.
La spiedatura inizia con i pezzi di carne (“prese”, di circa 70-80 grammi l’una) infilzati su lunghi spiedi (“schidoni” o “bracoi”) e alternati a foglie di salvia e patate a fette di circa 1 cm. Gli schidoni sono montati a raggiera su di una struttura intorno ad un perno centrale che consente la rotazione costante (una volta solo manuale, oggi anche elettrificata). Questa spiedatura può essere montata all’interno di un girarrosto in ferro/acciaio o all’aperto presso un camino o barbecue dove viene lasciata riposare per una notte per far sgocciolare il sangue residuo all’interno della carne rendendola più asciutta e idonea alla cottura. La cottura, a fuoco lento, dura dalle 4 alle 6 ore. Seppure oggi sono spesso utilizzati anche girarrosti elettrici, la ricetta originale vuole braci di legni — preferibilmente aromatici e in grado di ardere a lungo come il ginepro, il frassino, la roverella, il nocciolo e il faggio, mentre è da evitare il castagno —, a circa 15-20 cm dalla carne. È ammesso l’uso di carbone vegetale, purché non rilasci gas che possono alterare il gusto della carne.
Dopo una prima fase di cottura a secco di circa mezz’ora, il girarrosto viene continuamente alimentato con braci vive e la carne unta dall’alto facendovi fondere sopra del burro ad intervalli regolari di 45 minuti fino al termine della cottura, operazione fondamentale per mantenere la carne morbida ed evitarne le bruciature. A circa 1 ora dall’inizio della cottura avviene la prima e unica salatura, con abbondante sale fino. Man mano che il burro si riversa sullo spiedo, cade sul fondo del girarrosto e da qui viene fatto gocciolare in una apposita terrina, riciclandolo durante tutta la durata della cottura. Quando si sta per terminare si interrompono le unzioni con il burro ed è usanza, 15 minuti prima del termine, immettere braci particolarmente ardenti per ottenere la superficie croccante delle carni e far asciugare il burro residuo ancora presente sulla superficie finché non forma la caratteristica “schiumetta”.
Le carni devono risultare di colore marrone/rossastro molto carico con la superficie brillante, la crosta esterna secca e l’interno morbido ma assolutamente non unto. Ogni singola verga è poi smontata dal girarrosto, quindi si sfilano a mano i pezzi versandoli in grosse pirofile di ceramica o, meglio, di acciaio cosicché i pezzi posizionati sotto al mucchio di prese non si raffreddano (lo spiedo va servito in tavola rigorosamente caldo). La vaschetta va posizionata al centro del tavolo e ogni ospite preleva i pezzi che vuole mangiare scegliendoli tra quelli disponibili.
Lo spiedo bresciano viene consumato con la polenta e l’intingolo costituito dal burro fuso versato su di essa creandovi un piccolo invaso per poterlo contenere. I vini adatti ad accompagnare sono i rossi dal gusto corposo, preferibilmente sempre del territorio.


Nunzia Manicardi



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