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Speciale pasta

La pasta nel mondo delle Indicazioni Geografiche

of Corona S.


È stato un anno difficile il 2020. È stato l’anno che ha messo in discussione i fattori alla base dei sistemi di produzione, distribuzione e consumo, ma in cui i prodotti a denominazione hanno retto e confermato, semmai ce se fosse stato bisogno, il ruolo fondamentale che rivestono nei confronti dei territori, grazie al lavoro svolto da oltre 200.000 operatori e 286 Consorzi di tutela dei comparti cibo e vino.
L’analisi Ismea-Qualivita (si veda l’articolo a pagina 32) rileva che i prodotti DOP e IGP, nel 2020, hanno raggiunto i 16,6 miliardi di euro di valore alla produzione, pari al 19% del fatturato totale dell’agroalimentare italiano, e un export da 9,5 miliardi di euro, corrispondente al 20% delle esportazioni nazionali di settore.
A fine 2021 si contano nel mondo, complessivamente, 3.249 DOP, IGP ed STG, di cui 3.043 registrate nei Paesi europei, a cui si aggiungono le 206 produzioni riconosciute in 15 Paesi extracomunitari.
In questo contesto il Belpaese conferma il primato mondiale per numero di prodotti certificati con 841 Indicazioni Geografiche. Di queste, solo 5 fanno capo alla classe delle paste alimentari.
La prima ad ottenere il riconoscimento è stata quella di Gragnano, che tuttora registra i maggiori numeri e che, grazie anche alla IGP, sembra destinata a confermare il suo primato in Italia e nel mondo. A seguire, nel 2013, è stata la volta dei Maccheroncini di Campofilone, e nel 2016, anno evidentemente molto fortunato, il riconoscimento è arrivato prima ai Cappellacci di Zucca Ferraresi e poi, in perfetta sincronia e nello stesso numero della Gazzetta Ufficiale, ai Pizzoccheri della Valtellina e ai Culurgionis d’Ogliastra (foto sotto).
Si tratta unicamente di IGP, in parte perché per i prodotti trasformati, soprattutto per quelli molto elaborati come le paste ripiene, l’Indicazione Geografica Protetta meglio risponde alla complessità dei processi. Ma anche perché talvolta, la mancanza di materia prima locale impedisce di optare con serenità e certezza verso la Denominazione ad Origine Protetta.




In ogni caso, la pasta è la testimonianza del fatto che il Belpaese non vanta solo ottime materie prime, ma trova nella trasformazione la maggiore espressione della competenza e l’estro nazionali in fatto di cibo. Non si spiegherebbe altrimenti come siamo diventati leader e maestri nel lavorare prodotti che, per questioni climatiche e oggettive, non sono mai stati coltivati né in Italia, né nel Vecchio Continente.
I dati su cibo e vino IG sono lusinghieri da ogni punto di vista e confermano che la qualità premia. Le ricadute sul territorio sono evidenti, quelle dirette, quanto quelle indirette. In Italia un euro su cinque dell’agroalimentare italiano proviene da prodotti DOP e IGP. Un dato in calo rispetto al 2019, ma più che comprensibile nell’anno peggiore della storia recente. Un elemento che conferma comunque la capacità di tenuta di un sistema diffuso ovunque.
La Dop Economy vale il 19% del fatturato complessivo del settore agroalimentare nazionale, grazie soprattutto al contributo delle grandi produzioni certificate, ma non mancano elementi che evidenziano un forte dinamismo del sistema delle Indicazioni Geografiche “minori” e più recenti. Il comparto agroalimentare DOP e IGP vale 7,3 miliardi di euro alla produzione e il vitivinicolo imbottigliato raggiunge i 9,3 miliardi di euro.
Dall’indagine Ismea-Qualivita emerge che le paste alimentari contavano nel 2019 un valore alla produzione di 205 milioni di euro, giunti poi a 250 nel 2020, segnando un incremento del 17%. Il valore al consumo è invece passato da 287 nel 2019 a 336 nel 2020, anche qui con un +17%. è chiaro che il 2020 e il 2021 siano stati due anni particolari, ma i consumi di pasta, in generale, compresa quella a denominazione, hanno retto in maniera decisa l’impatto della pandemia.
Tutte le IG della pasta stanno registrando una fase di crescita, sebbene l’incidenza di quella di Gragnano rispetto alle altre 4 sia netta. Con 240 milioni di euro di valore alla produzione, è Gragnano il nono prodotto del comparto Cibo IG.
In fatto di export, le paste a denominazione, sempre secondo il Rapporto succitato, sono passate da un valore di 148 nel 2019 a 201 nel 2020, segnando un incremento del 35,7%.
Le paste a denominazione sono al momento solo 5, come detto, ma sono diversi i produttori e i territori che vogliono scommettere sulla propria specialità locale, nella convinzione che l’Indicazione Geografica non sia solo un modo per dare una marcia in più ad un prodotto, ma anche la strada per garantirne la tutela e per proteggere il consumatore da imitazioni di inferiore qualità. È certamente lo scopo dei produttori del Tortello maremmano, della Pasta di Sicilia e dell’Agnolotto Piemontese, che alla causa stanno lavorando alacremente. Ma anche dei sardi che, dopo l’ottenimento della IGP per i Culurgionis d’Ogliastra, hanno ritenuto opportuno presentare la richiesta anche per le Sebadas di Sardegna, da qualche tempo al vaglio del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
La IG consente al prodotto di entrare ufficialmente nell’Olimpo delle eccellenze mondiali. Si tratta del massimo riconoscimento per una specialità alimentare, sia essa DOP o IGP. Lega indissolubilmente il prodotto al territorio, ne certifica lo standard di produzione e, essendo uno strumento che in realtà nasce a tutela del consumatore e non del produttore, è un biglietto da visita eccezionale per i mercati. Ottenerlo è un fatto importante che conferisce grande prestigio per chi produce e vende, ma anche per le comunità che ne vantano l’origine.




Ci sono luoghi dei quali era ignota ai più l’esistenza sino a quando non è giunto il riconoscimento della IG. Gli esempi sono innumerevoli: si pensi a Colonnata, Tropea, Altamura, Zibello, Asiago. Sono solo alcuni comuni divenuti famosi soprattutto a seguito dell’acquisizione del noto logo per uno dei propri prodotti alimentari.
L’iter per l’ottenimento è tutt’altro che semplice e veloce, ma i dati parlano chiaro: ne vale la pena. Ne vale la pena soprattutto se il riconoscimento viene visto dai produttori come un punto di partenza e non d’arrivo, come testimoniato dai Consorzi di tutela.
Nel caso della Pasta di Gragnano i numeri parlano da soli. La grande capacità produttiva, la lunga shelf-life del prodotto che, al contrario del fresco, permette di raggiungere anche mercati molto distanti geograficamente, ma, soprattutto, la consapevolezza diffusa tra i pastifici gragnanesi che la denominazione sia uno strumento formidabile da spendere nei mercati, ha permesso un incremento di produzione, vendita ed esportazione che traina tutta la filiera delle denominazioni nella pasta.
Dal Consorzio di tutela fanno sapere che oggi Gragnano è la prima città in Italia per produzione ed export di pasta secca di semola di grano duro. Nel 2020 sono state prodotte 92.000 tonnellate a marchio IGP, il 30% in più sul 2019, a conferma di un trend consolidato di crescita che, dal 2017, registra un aumento annuo costante di 20.000 tonnellate. Il Consorzio, fondato nel 2003, raggruppa 13 dei 23 pastifici attualmente attivi, ma si tratta di una compagine che rappresenta oltre il 97% in termini di volume prodotto e valore della produzione della Pasta di Gragnano IGP (www.consorziogragnanocittadellapasta.it).
Che il mondo delle Indicazioni Geografiche non sia riservato unicamente a grandi realtà produttive è dimostrato da altri territori, non ultimo quello di Campofilone, un piccolo comune marchigiano dove tutti fanno la pasta. Poco meno di 2.000 abitanti, Campofilone è celebre soprattutto per la preparazione dei Maccheroncini che fanno da traino all’economia dell’intero territorio.
I Cappellacci di Zucca Ferraresi IGP non hanno ancora un Consorzio di tutela, ma non di meno richiamano e incarnano un modello di sviluppo che tiene insieme capacità di conquista di nuovi mercati e valorizzazione del capitale umano. Una ricchezza che, anche grazie alla IGP, crea valore dal punto di vista culturale, sociale ed economico, che si sposa perfettamente con la politica locale che unisce turismo ed enogastronomia e contribuisce a potenziare la domanda di tricolore nel mondo.
Hanno invece costituito il Consorzio di tutela i produttori di Culurgionis d’Ogliastra IGP, che confessano di aver avuto un’enorme visibilità del prodotto a seguito dell’acquisizione della denominazione. Il solo fatto di aver ricevuto il riconoscimento ha portato una tale notorietà al fagottino chiuso a spighetta che il rischio è quello della volgare imitazione di prodotti similari che sfruttano parassitariamente il nome. Ma, come detto, il Consorzio non è un punto d’arrivo, come non lo è la IGP. È invece un punto di partenza.
Lo scopo è quello di estendere la base e ottenere quante più ricadute sul territorio è possibile avere, con uno strumento come la denominazione. Nel 2020 i Culurgionis d’Ogliastra IGP hanno registrato un incremento dell’export del 5% e nel periodo del lockdown è aumentato anche il consumo in generale, nonostante si sia registrato il crollo delle vendite nell’Ho.Re.Ca.
Simile destino per i Pizzoccheri della Valtellina IGP, che dal 2016 hanno visto crescere notevolmente i volumi. Grazie all’IGP la produzione ha infatti raggiunto, nel 2020, quasi due milioni di chili prodotti. Sta dando soddisfazione pure l’export in Europa, soprattutto nei Paesi confinanti, ma anche in Canada, Stati Uniti, Giappone e Nuova Zelanda. Il Consorzio (www.pizzoccheridellavaltellina.eu), al fine di attivare sinergie virtuose, ha aderito al Distretto Agroalimentare di qualità valtellinese e, insieme ai Consorzi del Bitto DOP, Valtellina Casera DOP, Bresaola della Valtellina IGP, Mele della Valtellina IGP e ai vini della Valtellina collabora per la promozione e la valorizzazione dei prodotti di qualità. Anche in questo caso, l’unione fa la forza.


Sebastiano Corona



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