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Pasta

Passatelli in brodo di cappone

of Papotti C.


“Si chiamano passatelli — scriveva Pellegrino Artusi nel 1891 — perché prendono la forma loro speciale passando a forza dai buchi di un ferro appositamente, poche essendo le famiglie in Romagna che non l’abbiano, per la ragione che questa minestra vi è tenuta in buon conto”. Da allora nelle cucine delle azdore (termine della tradizione locale per indicare le massaie, regine della casa) si continuano a preparare una sorta di vermicelli color dell’oro, ottenuti da tre ingredienti principali: uova, pane grattugiato e formaggio grana.
Pietra miliare dei giorni di festa, i passatelli sono il simbolo di una terra verace, che ha saputo trasformare una pietanza dalle umili origini in un piatto raffinato, amato da tutti.
Per l’impasto dei passatelli, oltre al pane raffermo, al formaggio e alle uova fresche di giornata, si aggiungono: un pizzico di sale, una spolverata di noce moscata e una scorzetta di limone grattugiata a piacere. Sulla spianatoia si mette a fontana il pane e il formaggio, al centro si rompono le uova e si aggiunge il resto degli ingredienti. Tradizione vuole che l’impasto venga lavorato a mano, con una buona dose di energia, dalle infaticabili artigiane.
Una volta ottenuta una palla dalla consistenza omogenea è necessario lasciarla riposare in frigorifero per almeno 6-7 ore, perché il pane grattugiato abbia modo di ammorbidirsi e legare con tutti gli ingredienti. Le donne romagnole si tramandano di famiglia in famiglia la ricetta e il tipico ferro dai buchi leggermente più grossi di uno schiacciapatate. Per ottenere i passatelli è necessario far scorrere con forza sull’impasto il ferro a due manici, facendo un movimento simile a quello di una sfogliatura e il gioco è fatto.
Per le feste vengono serviti, secondo la tradizione, nel brodo di cappone preparato con manzo, sedano, carota, cipolla, una patata e un pomodoro sbucciato. La cottura è molto veloce, bastano un paio di minuti, finché vengono a galla. In Romagna il culto del brodo viene da lontano e ha un qualcosa di poetico; nel ricettario artusiano sull’Arte del mangiar bene il cappone viene descritto come: “rimminchionito animale che, per sua bontà, si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini”.
Una volta si sacrificava il cappone più grasso, per cucinare il brodo in cui affogare i passatelli; oggi, invece, si aggiungono comunemente anche altri tagli di manzo, di più facile reperibilità, come il “cappello del prete” (il taglio ricavato dal quarto anteriore del bovino). Il risultato è sorprendente, tanto che la cosa più difficile, davanti ai passatelli in brodo, è quella di resistere alla tentazione di un bis.
Una variante sempre più diffusa sulle tavole romagnole è la versione asciutta dei passatelli. Sulla costa è facile trovarli nei ristoranti conditi con sughi di pesce fresco, mentre nell’entroterra si possono degustare con i funghi porcini, con salsiccia e radicchio o mantecati con un buon taleggio. Una infinità di ricette, ma tutte di solida ispirazione stagionale. Cucinati in casa, soprattutto, per le grandi occasioni come le feste religiose, si possono altrimenti trovare tutto l’anno in vendita nelle poche botteghe artigiane, rimaste legate ad antiche consuetudini gastronomiche. Vasta è, però, l’offerta industriale dei passatelli, negli ultimi anni si è ampliata anche la reperibilità on-line, ma chi ha assaporato la tradizione giura di voler rimanere fedele alle mani esperte delle donne tenaci di Romagna.
A far scuola di passatelli, infatti, non è stata solo l’opera di Pellegrino Artusi, ma anche e soprattutto l’amore delle azdore per la famiglia. Con l’immancabile sapienza femminile, coi discorsi della casa, sui figli, sul raccolto e sul cortile le donne di casa facevano un rigoroso lavoro di squadra intorno alla tavola: una si occupava della preparazione del pane, una grattugiava il formaggio, un’altra lavorava l’impasto e un’altra ancora lo passava con il ferro.
Tra un gesto e l’altro prendevano così forma i passatelli, minestra dall’indiscusso temperamento, quasi lo avessero assorbito dal carattere delle azdore di Forlimpopoli, di Forlì, di Cesena e Bertinoro. Oggi sono rimaste in poche, ma chi ha ancora la fortuna di entrare nelle loro cucine, può comprendere che ogni loro gesto, ogni sorriso o discorso (rigorosamente nel dialetto locale), contribuisce a dare sapore e profumo alle spianate di passatelli.
Il ferro originale (“e fér”) è cosa ormai rara da trovare e quelli rimasti passano indenni di madre in figlia (oggi in commercio sono tutti fabbricati in acciaio inox). C’è chi, addirittura, da vero appassionato, va a caccia di tesori nei mercatini di antiquariato per trovare quelli ormai dismessi. In alcuni ristoranti della Romagna si possono vedere appesi alle pareti come cimeli che accendono la fantasia e la curiosità degli ospiti buongustai, rendendogli ancora più gradevoli i passatelli in brodo di cappone, simbolo di festa e convivialità familiare.


Chiara Papotti



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