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Brevi storie di cibo lento a velocità  contemporanea

Ipotensione

of Morabito A.


Estate, non ti aspetto mai. Non succedeva neanche da bambina.
Ti ho sbuffato contro, in passato, debilitata dalla tua temperatura, in bilico tra i lavori che dovevo portare a termine e le poche energie che mi sentivo a disposizione.
Quest’anno non mi oppongo e ti dico bentornata.
Desidero forte lo stato di incoscienza che sai darmi, mi costringi a mollare tutte le attenzioni, le resistenze, le concentrazioni, mi sfibri, accogli i miei pezzi sempre più numerosi. Ed io fluisco e lascio che tutto passi.

Tarda mattinata, immobile, bollente, cicalante. Il bucato appena steso è già secco, evaporato in un soffio. Barcollo per andarlo a raccogliere, strizzo gli occhi al bianco delle lenzuola e al giallo del tavolo di formica. Mi gira un po’ la testa, i movimenti miei son lenti e misurati, come se rischiassi di evaporare pure io. Mi appoggio al davanzale.
Devo bere acqua, non fredda mi ripeto in mente.
Il fico d’india e la Carex nel vaso sono gli unici a loro agio.
Una alla volta le magliette, le mutande, i vestiti chiari di cotone. Nel catino di plastica azzurro.
Rientro in casa, gli occhi accecati, le macchie verdi. Mi appoggio al tavolo da pranzo, il catino con i panni sulla sedia, la finestra del balcone alle mie spalle spalancata.
Le cicale sono in sincrono, per strada il suono della marmitta di un motorino in levare e le tazzine di ceramica del “bar degli assassini” come campanelle.
Devo bere acqua.
Un piede avanti all’altro, gli occhi riprendono piano la profondità di sguardo.
Mi appoggio prima alla parete e poi alla poltrona, alla mensola dell’ingresso per avere lo slancio di entrare in cucina.
Apro lo sportello del nostro nuovo grande frigo, la luce chirurgica, le plastiche si appannano per il contrasto di temperature.
Prendo la bottiglia di acqua gassata, con la mano sinistra la sorreggo, con la destra svito il tappo, indietreggio, mi siedo sullo sgabello alto, un respiro, due sorsi lunghi, spero di non congestionare.
Il frigo ancora aperto, mangio qualcosa o vado a sdraiarmi? È quasi ora di pranzo.
Radicchio amaro, limoni gialli, pomodori mezzi acerbi, pesche noci.
Sfilacci di cavallo.

Parma, Mantova, Salento, Sicilia, Veneto, i luoghi dove consumare carne di cavallo resistono con fierezza. Ma gli sfilacci sono solo padovani, dei piccoli comuni di Legnaro, Ponte San Niccolò e Saonara, come certifica l’Arca del Gusto Slow Food.
Si racconta che un contadino padovano, stracuocendo un pezzo di carne di cavallo al calore e fumo del focolare per cercare di mangiarla, nonostante fosse diventata dura, la pestò fino a sfilacciarla.
Che sia vera questa storia o la derivazione di una tradizione di origine longobarda, al giorno d’oggi gli sfilacci si ricavano dalla carne magrissima della coscia, tagliata a fette sottili e messa a marinare sotto sale per una decina di giorni.
Successivamente viene cotta a vapore e poi affumicata, infine battuta fino a sfilacciarsi.
Anche io mi sento tutta sfilacciata.

Prendo il pomodoro verde appena rossastro e lo taglio a fette sottilissime come carpaccio, aggiungo sopra a spicchi la pesca noce, qualche fogliolina di basilico, condisco con cristalli di sale ed un filo d’olio. Tagliuzzo sottile sottile l’amaro radicchiello verde e lo distribuisco su pomodoro e pesche. Apro la confezione, a pizzichi, distribuisco gli sfilacci sopra le verdure.
In una ciotolina mescolo due cucchiai di succo di limone, un cucchiaio d’olio extravergine, poco sale fino, mezzo cucchiaino di miele e mescolo bene amalgamando gli ingredienti. Irroro l’insalata e distribuisco, prelevandoli dal congelatore, due cucchiaini di polline fresco, con prevalenza di fiori di castagno. Aggiungo il pepe col macinino, lentamente.
Credo che una vicina stia grigliando peperoni, un’altra stia cuocendo del riso basmati. Qualcuno ha la tv accesa, il jingle di una qualche pubblicità, la sigla del notiziario.
Io appoggio il mio piatto sul banco di cucina, mi siedo ancora sullo sgabello alto, inizio a mangiare.
Ho l’ultima lavatrice con i grembiuli da lavoro da caricare.
Fatta questa posso pensare alla valigia delle vacanze.


di Alessia Morabito (illustrazioni di Alessia Serafini)



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