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Le fiere nel post pandemia

of Corona S.


Il peggio sembra oramai alle spalle, anche per chi opera nel settore. Il Covid ha messo a dura prova un mondo attorno al quale gravitavano e tuttora ruotano decine di migliaia di imprese e operatori. Sono stati anni difficili, in cui, dopo alcuni inutili tentativi di realizzare gli eventi con le necessarie precauzioni, ci si è dovuti arrendere al fatto che nulla era possibile se non con rischi enormi, sia sul piano sanitario che su quello economico.
Inizialmente abbiamo assistito a rinvii di qualche mese, nell’incredulità di dover davvero annullare iniziative storiche che, in passato, solo la guerra era stata capace di fermare.
Poi il sistema si è dovuto piegare all’idea che una manifestazione fieristica dall’esito incerto o che si rischiava di dover cancellare all’ultimo momento poteva generare persino più danni di un evento stralciato dai programmi già sul nascere.
Potevano esserci forse modalità per realizzarli ugualmente certi eventi, ma era troppo dispendioso progettare un protocollo di distanziamento sociale da applicare proprio laddove il successo dell’iniziativa si misura in presenza di pubblico.
Una fiera poco partecipata, per sua natura, non ha senso. I danni economici e di immagine che possono invece derivare da una cancellazione dopo che la macchina organizzativa si è messa in moto possono essere enormi, tanto più che riguardano operatori di diversi settori, imprese di ogni genere.
Un’intera filiera è coinvolta quando si organizzano eventi fieristici: cooperative specializzate nei montaggi, imprese di pulizie, facchinaggio, trasporto, noleggio allestimenti, service audio, video e luci, l’accoglienza, le stesse società che gestiscono le fiere, quelle che or­ganizzano i programmi collaterali. Un mondo intero si muove a monte e a valle di un evento fieristico. Non che il concetto fosse sfuggente, ma c’è voluta una pandemia perché ce ne rendessimo davvero conto.
La fiera era e tuttora resta, nonostante la presenza di strumenti alternativi, uno dei modi migliori per lanciare e far conoscere nuovi prodotti, trovare nuovi clienti, intessere e fortificare relazioni, per migliorare l’immagine dell’azienda. Non si va più in fiera solo per chiudere contratti, ma per porre le basi per sottoscriverne di nuovi e consolidare rapporti già avviati. “Essere presenti in fiera” significa dare un segnale inequivocabile al mercato, ai propri clienti, ai propri competitors.
Non a caso le fiere sono uno dei principali strumenti di comunicazione per il 75% delle imprese industriali e per l’88,5% delle piccole e medie imprese.
Svolgono un importante ruolo di promozione e diffusione dell’innovazione, in quanto test di marketing per nuovi prodotti e, col tempo, si sta meglio definendo la relazione con la comunicazione on-line, poiché si tratta di due strumenti che si ibridano reciprocamente, in una correlazione che li vede complementari e non alternativi.
Quello delle fiere è un format impossibile da sostituire completamente con l’equivalente modello digitale, soprattutto per quanto riguarda il comparto agroalimentare, dove l’aspetto visivo e di degustazione sono fondamentali.
L’Italia è il secondo mercato fieristico in Europa. Si tratta di un sistema che, al netto dell’indotto, coinvolge ogni anno 200.000 espositori, 20 milioni di visitatori, un volume d’affari per 60 miliardi di euro e per le imprese che vi partecipano il 50% delle contrattazioni sulle esportazioni (dati AEFI – Associazione Esposizioni e Fiere italiane).
Le manifestazioni fieristiche quanto gli eventi minori sono fondamentali per il nostro Paese, che si tratti di iniziative B2C o B2B.
L’Italia si trova al quarto posto nel mondo per superficie impiegata. Secondo i dati rilevati dall’UFI, la consistenza della nostra struttura espositiva nel 2020 era di 2.361.690 metri quadrati coperti. Più precisamente, in Italia erano 45 i quartieri con più di 5.000 metri quadri espositivi, così suddivisi: 7 quelli che ne avevano più di 100.000; 22 tra 20.000 e 100.000 e 16 con meno di 20.000 metri quadrati.
In Europa sono in atto grandi investimenti per ampliare i quartieri fieristici, implementarne l’accessibilità, creare infrastrutture digitali e migliorare l’accoglienza. Tuttavia, le fiere tendono ad esprimere l’economia e la vitalità dei luoghi che le ospitano, pertanto un grande sforzo nel senso dello sviluppo degli eventi di questa tipologia e delle relative strutture è in atto soprattutto nei nuovi mercati come Cina, India, Russia e Turchia, dove si registrano incrementi importanti della superficie espositiva complessiva e si affidano alle organizzazioni fieristiche ambiziosi obiettivi di sviluppo territoriale, in generale.
Anche Aefi e Prometeia hanno recentemente sottolineano in uno studio ad hoc che l’impatto del sistema fieristico italiano è di 22,5 miliardi di euro e 203.000 occupati: un vero e proprio moltiplicatore di business. Ne è ulteriore conferma il fatto che le imprese che partecipano alle fiere crescono del 13% in più di quelle che non lo fanno.
L’ulteriore elemento degno di nota è che il flusso turistico generato da chi, a vario titolo, partecipa ad eventi fieristici è alto spen­dente, richiede servizi qualificati e specializzati ed è disposto a remu­nerarli in maniera soddisfacente. La filiera fieristica crea posti di lavoro che a loro volta generano effetti economici e sociali virtuosi, che si traducono in un valore aggiunto stimato in 10,6 miliardi di euro all’anno di produzione e lo 0,7% del Pil. Effetti macroeconomici aggiuntivi, questi, rispetto al business generato in fiera dalle imprese partecipanti.
«La nostra industria fieristica, come emerge dallo studio Prometeia — ha detto il presidente di Aefi Maurizio Danese — è prima di tutto un incubatore naturale di business per i distretti industriali italiani e poi una leva di indotto ad alto valore aggiunto in favore dei territori. Nel post pandemia il sistema punta al rinnovamento: una fase cruciale per superare la frammentarietà attraverso alleanze strategiche fondate sui prodotti, salvaguardando i territori e il valore aggiunto generato dagli stessi». «La strada verso nuove alleanze è tracciata — ha concluso Danese —, un percorso che vogliamo fare anche attraverso la costituzione di un tavolo con il Governo per l’attuazione di un piano fieristico nazionale condiviso».
La stessa ricerca ha dimostrato che il B2B fieristico Made in Italy è in grado di performare 7 volte meglio rispetto al totale dell’economia italiana (+2% vs +0,3% la crescita media annua del fatturato dal 2012 al 2019). Per la prima volta è stato possibile stimare — grazie ad un’analisi d’impatto condotta su un campione di oltre 25.000 imprese espositrici (responsabili del 13% della produzione nazionale) confrontate con un panel di realtà simili che non partecipano a manifestazioni fieristiche — il vantaggio ottenuto dalle aziende che, fra il 2012 e il 2019, hanno creduto nelle fiere. Questi i risultati: 12,6 punti di crescita cumulata in più nelle vendite e 0,7 punti di marginalità lorda (Ebitda) in più rispetto a chi non ha partecipato.
In questo scenario le aziende del comparto agroalimentare che partecipano alle manifestazioni sono quelle che hanno realizzato le migliori performance in termini di extra-crescita dell’attività (+20,5%). Ma anche nei settori produttivi funzionali di beni intermedi (come la meccanica) si registrano benefici superiori alla media.
Le fiere operano con un moltiplicatore di 2,4. In sintesi, ogni euro di valore aggiunto generato direttamente dal sistema fieristico (da espositori, organizzatori e visitatori), ne produce ulteriori 1,4 nell’economia nazionale. Guardando all’occupazione, i benefici sono solo leggermente inferiori (qui il moltiplicatore è infatti 2,1). Gli effetti moltiplicativi ottenuti sono in linea rispetto a quelli stimati di recente per l’industria fieristica europea, ma superiori a quelli evidenziati per Gran Bretagna e Spagna.
Il comparto va pertanto tutelato e rinnovato. La regola è guardare con fiducia al futuro, lasciandosi alle spalle il recente passato.


Sebastiano Corona



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