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Sono 180 grammi, lascio?

Pecore, cani, maiali, come noi

of Papalato G.

Immagina un maiale gigante libero nel cielo di Londra. Immagina che atterri sui campi di una fattoria nel bel mezzo della campagna inglese, spaventando tutti gli animali, per poi venire recuperato e infine agganciato ad un ancoraggio per terminare l’artwork di una tra le copertine più iconografiche degli ultimi decenni e di quelli a venire. È Algie, che fluttua tra i quattro camini della Battersea Power Station, ex centrale elettrica della riva sud del Tamigi, mentre sullo sfondo un tramonto turneriano incombe scuro su Londra.

Chi scrive non è un grande estimatore dei Pink Floyd, per usare un eufemismo. Sono stati formativi, certo, ma rimango molto legato solo al primo periodo del gruppo, quello originale nato grazie al genio di Syd Barrett. Le fasi successive, la progressiva dittatura di Waters prima e la autoreferenziale gestione a firma Gilmour poi, non fanno per me. Questo non significa che non si possa discutere per ore dell’importanza di diversi album della compagine inglese, scritti e prodotti nel corso di oltre due decenni, durante i quali si sono appunto avvicendate le due leadership.

Li vidi anche live nel 1994 a Modena e anche Algie era lì. Prima metà degli anni ’90, personalmente formativi si diceva. Non suonarono però nemmeno un brano da “Animals”, un disco ostico e spiazzante uscito nel loro decennio più prolifico, iniziato nel 1970 con “Atom Earth Mother”, pubblicato in mezzo a tre album che rappresentano quanto di più identificabile esista con la band londinese, che finisce di conseguenza per essere ingiustamente considerato minore.

Se non mi piacciono “quei Pink Floyd”… perché ho questo disco? Orwelliano, spiazzante, sprezzante, è il capitolo finale di una trilogia sul genere umano iniziata solo quattro anni prima con “The Dark Side of the Moon”. L’adattamento allo stile de “La Fattoria degli Animali” di due brani non inclusi poi nel precedente “Wish you were here” che diventano “Sheeps” e “Dogs” sono la base per un disco estremamente concreto. Le pecore siamo noi, il popolo che accetta tutto, anche quello che non dovrebbe. I cani sono gli arrivisti aggressivi, mentre i maiali di “Pigs (three different ones)” sono tre ben definiti tipi di politici.

Cinque brani in quaranta minuti, quattro a firma Waters, uno di Gilmour. Pigs on the Wing (part one) è un’anomalia perché è un pezzo breve, perché è fatto solo di chitarra e voce e perché è una canzone d’amore. Waters la scrisse per la moglie e, prima di questa occasione, l’ultima volta in cui aveva suonato un’acustica era stata per If, all’interno di “Atom Heart Mother”.

Il resto del lato A è occupato da un unico brano, Dogs, lungo più di 17 minuti. Gilmour entra con un giro ricorsivo di accordi, salendo di volume prima di cantare. È importantissimo il contributo del synth di Wright che ripropone i suoni già centrali nel precedente Wish you were here, dialogando perfettamente con la chitarra affilata all’interno di una ritmica secca e minimale tenuta dalla batteria di Mason.

C’è spazio anche per il latrato dei cani, sovrainciso e caricato di eco in una lunga suite nella quale la componente strumentale è predominante, laddove le denunce e il cinismo di Waters disegnano destini tragici di chi arriva a uccidere per soddisfare il proprio folle bisogno di potere. Un’oscura narrazione all’interno della quale un assolo di Gilmour ciclicamente risplende, illumina e pulisce come fosse una luce ad illuminare per qualche secondo un campo buio.

Il destino dei cani è segnato da loro stessi. Finiranno a morire malati in qualche paese tropicale, in completa solitudine; oppure saranno trovati morti al telefono, o affogati, trascinati sottacqua dal peso dalla “pietra”, simbolo dell’accumulo delle loro colpe per i loro comportamenti inumani.

È tempo di girare facciata. Il lato B si apre con un grugnito di maiali ottenuti applicando una talk box alle quattro corde elettrice, su cui entra un giro di hammond che ricorda per accordi certi preludi di Bach. È su questo tema che germoglia un assolo di basso, seguito dagli accordi di una chitarra ritmica che aprono e chiudono e quasi introducono la batteria assieme alla voce di Waters.

Pigs (three different ones) è un’irriverente, canzonatoria e, soprattutto, spietata denuncia contro coloro che fanno i propri interessi alle spalle degli altri. Maiali che, riprendendo la specifica del titolo, sono raccontati in tre strofe, ognuna delle quali rappresenta una determinata categoria politica. Il rivolgersi direttamente con un epiteto e la grottesca alternanza di alcuni versi cantati in modo marcatamente enfatico ed altri quasi sussurrati, è funzionale a dipingere lo squallore e la tristezza di tre individui che corrispondono senza particolari dubbi a tre famosi personaggi politici contemporanei alla produzione dell’album.

La prima strofa nasconde, sotto accuse ad imprenditori senza scrupoli, collegamenti all’allora primo ministro James Callaghan. La seconda parte è invece riferita, nonostante il suo nome non sia esplicitamente riportato, alla leader dell’opposizione, all’epoca Margaret Thatcher. Se l’attacco dapprima è sottile (“good fun with a hand gun”), le accuse diventano decisamente più pesanti quando si parla di lei con “bus stop rat bag” e “fucked up old hag”. La terza strofa cita per nome Mary Whitehouse, un’attivista politica che voleva reintrodurre la censura nelle radio, dipingendola come una persona sessualmente repressa (“house-proud town mouse”). Questo gesto ha contribuito a peggiorare l’immagine che la Whitehouse si era fatta dei Pink Floyd, che li riteneva promotori dell’uso di droghe fin dagli esordi. Al tempo accadde anche che alcuni, non conoscendo il contesto politico britannico, interpretarono il verso “Hey you, Whitehouse” come “Hey you, White House”, arrivando a concludere erroneamente che i Pink Floyd volessero criticare la politica statunitense.

Dopo le prime due strofe, entra la chitarra acustica, con un tema basato sui due accordi iniziali, mentre non smettono di grugnire i maiali.  Si uniscono poi progressivamente gli altri strumenti fino a quando sulla dinamica creatasi entra Gilmour a squarciare con un assolo di elettrica filtrata che rimanda a versi e lamenti animali ottenuti giocando con wah wah e talk box. Placatosi l’assolo, circolarmente si torna al principio attraverso il fraseggio iniziale dell’hammond di Wright a cui si unisce organicamente il basso di Waters. Manca la terza strofa, che Mason introduce come in precedenza. La conclusione è un ritorno corale che supporta un convulso assolo di Gilmour che finisce confluendo nell’agreste apertura del brano successivo, “Sheeps”. Ecco che così la trilogia si completa: le pecore sono il popolo subordinato, servile e malleabile che necessita di un capo branco per sentirsi al sicuro. Attenzione: per quanto meno colpevoli di cani e porci, la critica aspra e decisa di Waters non li risparmia. Non è giustificabile la loro sottomissione, la mancanza di un’autodeterminazione.

Così, attraverso una descrizione accurata e altamente simbolica come dipinta in un quadro, la scena si svolge tra cinguettii di uccelli e un placido belare, col Rhodes di Wright che assume tinte lounge. Ad infrangere questa bucolica atmosfera di apparentemente imperturbabile inconsapevolezza entra il basso che, denso, quasi materico nel suo incidere inesorabile, copre le tastiere e crea una palpabile sensazione di pericolo. È quindi la batteria che taglia idealmente la tela, svelando le tensioni sociali attraverso il dialogo di tutta la band, a ritmo sostenuto. Quando, dopo la seconda strofa, l’intensità si interrompe bruscamente, lo scenario sonoro muta in un inquietante timing di basso e synth, su cui si alternano come in uno scontro diversi assoli.

Un punto cruciale e significativo e, al termine di questi “conflitti” quando una voce filtrata attraverso un vocoder recita una versione decisamente stravolta del Salmo 23 in cui Dio è raffigurato come un macellaio che accudisce le sue pecore con lo scopo di farne cotolette.

La ripresa del cantato coincide con le pecore che si ribellano ai loro sfruttatori, liberandosi dal controllo dei cani. Ma è una vittoria che non significa assolutamente emancipazione.

Così, esattamente come nel romanzo di Orwell, alcune pecore dichiarano la morte dei cani intimando però alle altre di “restare nelle loro case e fare ciò che viene detto loro”, assumendone lo stesso ruolo con l’aggravante di venire dallo stesso contesto.

Nulla è davvero cambiato. Non si sfugge alla naturale indole alla sottomissione propria del popolo.

Quindi, nonostante questo fondamentale inciso, la tonalità del brano passa in maggiore, con una progressione di accordi che ricorda una parata, prima di tornare al principio del brano.

È tristemente immutata la natura di subordinazione, nonostante le lotte, i sacrifici, le consapevolezze. Ora il cinguettio assieme al belare ha un peso completamente diverso rispetto all’inizio. La tela è ridipinta, il quadro ha decisamente un’altra lettura. Waters decide di chiudere il disco con la seconda parte di Pigs on the Wing. Se nella prima descrive cosa succederebbe se lui e la moglie non si curassero vicendevolmente, in questa dichiara che ognuno dei due è consapevole dell’amore reciproco, asserendo che finalmente hanno trovato un rifugio dalle meschinità della società, qui rappresentata appunto dai “porci in volo”.

“Animals” è un disco che giudica, che osserva dall’esterno, dall’alto. Il netto contrasto tra l’intimità familiare e la società vista come altro da sé sono il segno di un distacco, di un disagio. I Pink Floyd sono una band che dieci anni prima era nata nella cultura alternativa, sperimentando e poi rappresentando la psichedelia. Ora, nel 1977, l’Inghilterra è la patria europea del punk ed è tutto stravolto. I quattro sono diventati per i giovani un emblema di rock visto come un simulacro inutilmente ingombrante.

John Lydon, all’epoca Johnny Rotten, voce dei Sex Pistols, incarnava e celebrava tutto questo, indossando una t-shirt su cui era stampato “I HATE” sotto cui aveva scritto a pennarello “PINK FLOYD”.

Per quanto abbia venduto molto e sia amato dalla critica musicale di ieri come da quella contemporanea, “Animals” non ha mai raggiunto la popolarità dei lavori precedenti e successivi di cui sopra. È nella sua natura, è politico, diretto, polemico, antagonista. Una reazione, un disco ostile e spietato. Gli animali possono assomigliarci più di quanto non vogliamo o è il contrario?

Giovanni Papalato



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