Tradizionalista, autarchica e ruspante: la cucina friulana è connotata da questi tre aggettivi che la rendono impermeabile alle mode. Un lusso che si può permettere grazie all’abbondanza e all’eccellenza degli ingredienti autoctoni che ne fanno un’oasi gastronomica autosufficiente e per giunta ricca.
Nelle valli inserite nel comprensorio montuoso soprastante l’alta pianura pordenonese, tra Val Tramontina e Val Cellina, si produce con gusto un salume straordinario: la Pitina IGP, che vanta l’essere stato il primo presidio Slow Food della regione. Traccia di una cucina di “recupero”, la pitina nasce per soddisfare l’esigenza di conservare carni ovicaprine o di selvaggina nei mesi più freddi dell’anno.
Il territorio dove trova origine è stato storicamente contrassegnato da povertà, emigrazione e da un’economia di sopravvivenza, nella quale la carne era un bene prezioso. Erano rarissimi gli allevamenti di maiali, un lusso che in queste valli non ci si poteva permettere. L’unica provvista di proteine animali erano gli ovini. Quando si feriva un camoscio o un capriolo, o si macellava una pecora o una capra per raggiunti limiti di età, si doveva trovare il modo di non sprecare nulla. Ed ecco che l’ingegno dei nostri avi ha trovato il modo di farne qualcosa di unico al mondo.
Nel caso della pitina, le carni che non venivano consumate subito e, più in generale, le parti meno pregiate venivano sgrossate, ripulite delle componenti adipose e dai tendini, sminuzzate finemente nella pestadoria, un ceppo di legno incavato, con un pesante coltello chiamato manarin. Si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato e spezie (talvolta lasciate macerare nel vino), poi si impastava il tutto fino ad ottenere un composto uniforme. A questo punto si formavano piccole polpettine (pitine) che venivano passate nella farina di mais fino ad ottenere una panatura uniforme e si lasciavano affumicare sulla mensola del camino (fogher o fogolar). Col passare dei giorni l’impasto si asciugava e, per consumarlo, era necessario ammorbidirlo nel brodo di polenta.
I primi produttori dei quali è rimasta testimonianza sono stati gli abitanti delle frazioni di Inglagna e Frassaneit, nel comune di Tramonti di Sopra. Intervistando anziani emigrati negli Stati Uniti si è potuto affermare con certezza che la preparazione e il consumo di questo antico prodotto erano largamente diffusi all’inizio dell’800 in Val Tramontina e nelle vallate limitrofe. La scarsità di documentazione scritta viene spiegata dai ricercatori col fatto che la pitina non era utilizzata come merce di scambio e, quindi, non si è trovata nessuna scrittura contabile. Era un prodotto riservato al popolo, che difficilmente usciva dalla stretta cerchia familiare, lontano dai consumi dei nobili o dei benestanti.
Col trascorrere del tempo, la ricetta si è tramandata di generazione in generazione, adattandosi al gusto contemporaneo. Oggi le forme che si trovano in commercio hanno un sapore più gentile grazie all’aggiunta di grasso suino. La materia prima ammessa nel Disciplinare di produzione comprende le carni ovine, caprine, di capriolo, daino, cervo e camoscio.
Oltre alla versione tradizionale, si possono trovare in commercio anche due varianti: la “Peta” e la “Petuccia”. La prima si distingue per le dimensioni più grandi, la seconda per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto: quelle ammesse sono ginepro, kümmel o finocchio selvatico, semi di finocchio e achillea moscata.
L’affumicatura è un momento cruciale per la riuscita del salume. Il fumo è prodotto dalla combustione di legno di faggio, carpine o pochi altri alberi da frutto. In questa fase le “polpettine” rimangono a riposo per circa 12 ore a temperature non superiori ai 30 °C. Al termine, la carne affumicata subisce un processo di asciugatura, con lo scopo di favorire l’essiccamento e la diffusione della concia nella massa carnosa. Tale fase ha una durata compresa tra i 2 e gli 8 giorni, computati a partire dall’ora di inizio asciugatura, nel corso dei quali il prodotto viene mantenuto in ambienti a temperatura compresa tra 10 e 18 °C e umidità variabili tra 50 e 85%.
La produzione del Presidio si conclude con la stagionatura, che avviene in ambienti muniti di aperture verso l’esterno per consentire ventilazione che ricambio dell’aria. Può essere venduta non prima che siano trascorsi 30 giorni dall’inizio della lavorazione, intesa come data di impasto. Si mangia spesso cruda a fettine, ma è ottima anche cucinata. Può essere scottata nell’aceto e servita con la polenta, rosolata nel burro e cipolla e aggiunta nel minestrone di patate, o ancora al cao, cioè cotta nel latte di vacca appena munto.
Questa singolare e antica preparazione ha risposto perfettamente alla necessità di conservare il più a lungo possibile la poca carne disponibile, oltre a contribuire all’evoluzione delle tecniche di conservazione comuni a tutto l’arco alpino e all’area del Nord Europa, tra cui l’affumicatura e la stabilizzazione con l’aggiunta del grasso di suino. Grazie al coinvolgimento dei ristoratori locali e l’allargamento del mercato, la pitina ha evitato la scomparsa e rimane uno dei prodotti più affascinanti nel panorama gastronomico nazionale.
Chiara Papotti
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