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Sapori dal mondo

Innovative or traditional terrine

of Baverez Blanco J.

La terrine, un classico delle festività natalizie francesi, è spesso presente quando sulle tavole si ricevono gli amici anche durante l’anno. Richiede un po’ di lavoro ma gli occhi e il palato rimangono incantati! Verso l’inizio del ’400 questo termine designava, nel nord della Francia, una marmitta di terracotta con coperchio a tronco di cono. Permetteva di cucinare sulle braci ma anche di conservare la pasta da lievitare.
Nel 1684, Madame de Sévigné usò questo termine non più per indicare il recipiente ma il piatto caldo che conteneva, segnalando alla figlia le locande della posta, fra Amboise, Saumur e Angers, la zona dei castelli della Loira, dove poter assaggiare tale pietanza. La terrina godeva allora di un gran prestigio e il Marchese di Louvois, nel suo castello di Meudon, la servì al Delfino e al fratello di Luigi XIV nel 1690, a fianco ad altre dodici entrées in gran parte di selvaggina. Il famoso Massialot la inserì con un’apposita ricetta nel suo “Le cuisinier royal et bourgeois”. Nel 1724, questo volume venne ristampato con alcune aggiunte e tradotto in italiano, a Bologna, con il titolo “Il cuoco reale e cittadino”. Il traduttore parla di una bastardella, cioè di un tegame basso di terracotta con coperchio e manici, senza precisare se la portata veniva servita a tavola tal quale. Lo era probabilmente — com’è tutt’ora — nelle case borghesi, mentre nel servizio regale era senz’altro trasferita in recipienti d’argento o di porcellana.
Nel 1766 venne pubblicato “Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” in cui troviamo una ricetta di “terrina alla paesana” molto semplice, di stufato di manzo e pancetta di maiale cotto sopra la cenere, sgrassata e servita calda. L’importante, in questo caso, è sigillare bene il coperchio con la pasta, lasciandovi solo un minuscolo forellino di sfiato per impedire al vapore e al profumo di disperdersi.

La terrine si declinava in diverse varianti: alta o bassa, costosa o economica, calda o fredda. In effetti, divenne poco a poco un metodo per conservare la carne che poteva essere spedita anche da una regione all’altra, persino verso Spagna e Inghilterra.
Nel 1803, Grimod de la Reynière, primo giornalista gastronomico, ne consigliava l’acquisto nel negozio di Corcelet. Il Sud-ovest della Francia, l’Aquitania, era zona di produzione di terrines molto famosa, ricca di pernici ma anche di anatre e oche, oltre che di tartufo nero.
Di fronte alla domanda crescente del prodotto e alla progressiva scomparsa delle pernici, la terrine si fece sempre di più con il fegato grasso intero e spesso con il tartufo, trasformandosi quindi un piatto particolarmente pregiato.
Nell’Ottocento venne conosciuta in Italia nella versione di terrina fredda. “Il re dei cuochi” curato da G. Nelli nel 1868 ne dava questa definizione: “Si chiamano terrine le composizioni di pasticcio freddo cotte in vasi di terra verniciata capaci di resistere al caldo del forno. Esse si preparano indifferentemente con pollame, selvaggina e fegato grasso”.

Le terrine potevano trovarsi in salumeria o in casa in occasione di pranzi conviviali.
L’uso del termine terrine era quindi in auge sia per i piatti caldi che freddi. Nel 1904 la casa editrice Hoepli pubblicò il manuale “Il Gastronomo moderno” di Emilio Borgarello, nel quale si parlava della “terrina, di stampo prettamente francese (la parola deriva da terra), significa anche scodella”. Nel testo si fa riferimento a spezzatino di vitello o d’agnello in terrina, cioè in recipiente sigillato — e questo vale per qualsiasi brasato, salmì o pasticcio — ma resta un termine di alta gastronomia.
Più tardi, il famoso Georges Auguste Escoffier denominò terrina il pâté senza crosta, preferibilmente di volatili, avvolto nello strutto o coperto di gelatina se servito freddo. La cottura doveva avvenire a bagnomaria nel forno e doveva arricchirsi secondo fantasia di tartufi, nocciole, ginepro... Oggi è una pietanza che si può mangiare con gli occhi sui banchi di tutti i salumieri francesi.
Tutte le terrine sono quindi a base carnea. In Italia entrano nelle usanze delle case con la divulgazione di ricettari professionali semplificati. Le troviamo ne “La cucina pratica professionale” di Mario Borrini e nel “Carnacina” curato da Mario Veronesi nel 1961. Le numerose ristampe di questo volume hanno garantito vita al termine, se non all’esecuzione delle ricette stesse a livello casalingo. Lui ne cita tre: terrina di coniglio alla Luigi Veronelli, terrina di vitello all’inglese, terrina di lepre del cacciatore.
Una nuova rivoluzione ebbe luogo negli anni ’80: la terrina non era più di sola carne ma anche di pesce, di verdure e di frutti. Nel “Larousse gastronomique” del 1984 vennero proposte queste nuove ricette (nuove per modo di dire dato che alcune, come la terrina di sogliola, erano già citata nel 1748 ne “Les dons de Comus”!).
Il termine terrina divenne proprio sinonimo di pasticcio, preparato fatto con la pirofila, il forno e magari un abbassatore di temperatura. Il risultato è comunque sempre gustoso, sia che si utilizzi la carne o altri ingredienti più delicati, dai frutti alla gelatina al miele.

L’ultima edizione del “Larousse gastronomique” del 1996 registra queste nuove tendenze proponendo tre ricette tradizionali (coniglio, anatra, vitello), due di pesce (luccio e sardine) tre di ortaggi e formaggi (ortaggi e tartufi, porri e formaggio, carciofi e Beaufort).
Essendo una tradizione solida, non si corre nessun pericolo nel lasciare la massima libertà alla fantasia culinaria, alla varietà compositiva e alle sorprese innovative per preparazioni fredde, tiepide o calde.


Josette Baverez Blanco



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