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Alimentazione

Il pavone in tavola

di Ballarini G.

Basta pronunciare la parola pavone per evocare favolosi pranzi d’antichi romani o rinascimentali. Il pavone è oggi scomparso dalla cucina e dalla gastronomia, per riapparire sulle tavole soltanto quando si vuole riprodurre una situazione ormai definitivamente superata, come avviene per l’abbigliamento del passato oggi fatto risuscitare al più per carnevale. Ma perché il pavone ha fallito?

«Abemus in cena pullum, piscem, pernam, paonem» è inciso su di un’epigrafe marmorea custodita nei Musei Capitolini di Roma. Su questa insegna di taverna romana vi sono inoltre due simboli: un cuore (buon’accoglienza) ed una ruota (assistenza ai viaggiatori). Viene anche vantata una cucina d’alto livello perché accanto al pollo ed al pesce è pubblicizzato il prosciutto e, soprattutto, il pavone. Quest’animale era stato per lungo tempo sconosciuto ai romani e nonostante fosse sacro a Giunone, quando i Galli tentarono di entrare nel Campidoglio, dove c’era il tempio della Dea, lo trovarono custodito da altri e più umili uccelli sacri, le oche, adatte all’ambiente acquitrinoso che attorniava Roma, e capaci di fornire non solo una buona guardia, ma anche penne per le frecce ed una carne grassa che all’epoca era molto apprezzata. I pavoni, sacri a Giunone, non erano ancora arrivati a Roma.

Il pavone (Pavo cristatus ) o pavone indiano è originario dell’Asia, dove vive anche il Pavo muticus o pavone verde (con le sottospecie spicifer, M. imperator e M. muticus); tra le due specie in cattività vi è ibridazione, non allo stato naturale, anche per la diversa distribuzione areale. Il Pavo cristatus è presente in tutta l’India, mentre il Pavo muticus occupa il Borneo e l’isola di Sumatra dell’estremo oriente. Esiste anche un pavone africano (Afropavo congensis) di recente scoperta (1936) e di un diverso genere. Il pavone indiano in India si trova dal livello del mare a 1.000 metri. Il pavone è poligamo e vive in gruppi più o meno grandi; onnivoro, si nutre soprattutto di frutti, semi, insetti e piccoli vertebrati; la femmina depone da quattro ad otto uova che cova per 28 giorni.

Il pavone fa parte delle leggende e delle rappresentazioni artistiche dell’uomo almeno da 3000 anni. Ampiamente diffuso in India, dai Fenici fu introdotto in Egitto ed in Asia Minore; esistono anche precise indicazioni sulla sua presenza presso gli antichi Assiri e Babilonesi. La più antica citazione biblica del pavone è nel Primo Libro dei Re (10,22) quando si dice importato dalle navi di Hiram che venivano da Tarsi, assieme ad oro, argento, avorio e scimmie: un fatto comprensibile se si accetta che queste merci venissero dall’India, o da zone che avevano commerci con l’India. In Europa il pavone fu largamente introdotto dall’esercito d’Alessandro Magno. I Greci ed i Romani lo utilizzarono anche come alimento, presentandolo in tavola adornato del suo piumaggio. Accolto anche dalla simbologia cristiana (immagine della risurrezione di Cristo) da Roma si diffuse in Francia, Inghilterra ed in tutte le altre parti d’Europa.

Il pavone, considerato una meraviglia della natura, fu allevato nei recinti dei templi e nei giardini dei ricchi ed ancora oggi ha una certa diffusione ornamentale. A Roma arrivò dalla Grecia e per diverso tempo si ritenne originario di Samo, perché le monete di quest’isola ne portavano l’effige; è probabile che il pavone passasse soltanto da quest’isola, nella sua espansione dall’oriente all’occidente. Sembra che il primo ad introdurre a Roma i pavoni, ma soprattutto ad allevarli in gran numero, sia stato Marco Ausidio Lacone, che con tale attività avrebbe guadagnato sessantamila sesterzi. Vincenzo Tanara riporta che Antifane dice di averne visto vendere una coppia a mille dramme; Varrone riferisce che un uovo si vendeva a cinque denari e Anassandro, secondo Ateneo, vendendo un paio di pavoni ricavò una somma sufficiente per comprare una bellissima statua. Alessandro Magno aveva ordinato ai suoi soldati di non uccidere i pavoni, mentre l’imperatore Romano Tiberio condannò a morte un soldato che ne aveva rubato uno. I Romani usarono cibarsene ed il primo a mettere in tavola il pavone a Roma sembra sia stato Ortensio, anche perché questi animali gli avevano rovinato tutto l’orto, tanto che nel secolo XVII Tanara poeta: L’aver d’Ortensio l’orto lacerato / fummi di gloria dolce, e morte amara, / che col gusto placai l’animo irato / a che non mi giovò beltà preclara.

Vitellio prediligeva le cervella di pavone e le chiamava celata di Minerva perché si riteneva che il cervello dei volatili accrescesse e giovasse al cervello umano, in modo migliore di quello degli animali quadrupedi, perché meno molle. Eliogabalo prediligeva le lingue di pavone oltre che di fenicotteri; Caligola voleva che gli fossero sacrificati pavoni e Muleasso infine, re di Tunisi, mangiava il pavone ripieno con tanti odori e aromi da costare cento scudi e da lasciare impregnato d’odore il vicinato per due giorni.

Pavo muticus imperator.

A parte una lunga serie di leggende nate e sviluppatesi attorno al pavone, soprattutto sulla sua bellezza ed abitudini, è interessante ricordare come nel passato si riteneva che la sua carne si putrefacesse più tardi d’ogni altro animale, a causa della sua durezza. Il pavone era cotto né più né meno come i polli, capponi ed altri volatili. Si preferivano i pavoncini di tre mesi d’età e vi era l’uso di presentare il maschio in tavola, soprattutto nei grandi pranzi, cotto in diversi modi, adornato con la coda allargata, la testa ed il collo con le piume ben in mostra. Dopo averlo disossato si preparavano arrosti da presentare in tavola adornati, come già detto, con le penne della coda, nonché la testa ed il collo piumati.

La carne dura e compatta del pavone adulto (arriva all’età di venti anni) serviva anche per preparare insaccati. Il pavone non ebbe mai un grande successo nell’alimentazione umana, per una serie di caratteristiche negative che erano ben note anche nel passato e che Vincenzo Tanara (1658) sintetizza definendolo “distruggitore di tetti, ruinatore d’orti, avido usurpatore delle altrui fatiche” anche se non gli nega la caratteristica di fare buona guardia e di segnalare l’arrivo di qualche forestiero od estraneo e di essere il più bello d’ogni volatile.

È inoltre un cattivo riproduttore, perché le femmine depongono le uova al massimo tre volte l’anno, in un numero cinque, quattro e tre uova. Le tre deposizioni sono possibili soltanto se le uova sono tolte e date da covare a galline, altrimenti si ha una sola figliata, con non più di quattro o cinque pavoncini per anno. Dopo la cova, che dura un mese, i pavoncini erano lasciati alla gallina per tre mesi. A questa età molti pavoncini erano destinati alla tavola; gli altri invece, in gruppi di circa venti, erano dati alla madre per essere condotti al pascolo.

Nella cucina il pavone è più celebrato per la sua apparenza che come reale alimento. Nel suo De Re Coquinaria Marco Gavio, più noto sotto il soprannome d’Apicio (25 a.C. –?) lo cita unitamente a tutti gli altri volatili e soltanto in un titolo, a proposito delle salse con le quali condire le carni di volatili. Ovviamente il pavone non poteva mancare nella celebre cena di Trimalcione, di cui ci riferisce Petronio (I secolo d.C.) e durante la quale ai convitati sono offerte uova di pavone rivestite di pasta frolla; dentro al guscio di queste uova, immerso nel tuorlo pepato, vi è un grasso beccafico. Sparziano ci informa che il piatto preferito da Adriano, e siamo già a qualche secolo dopo Cristo, era il Pentafarmaco (fagiano, prosciutto con pasta, cinghiale e pavone) la cui invenzione si dice fosse d’Elio (Colonio Commodo, figlio adottivo d’Adriano) e derivato da un altro piatto citato peraltro sempre da Sparziano, il Tetrafarmaco (fagiano, maiale, prosciutto e pasticceria).

Nella cucina italiana dal XIV al XIX secolo scarsa è la presenza del pavone, che compare al più nei grandi pranzi. Se ne ha una conferma nelle non frequenti ricette, ma soprattutto per essere queste spesso comuni o soltanto varianti di ricette riguardanti altri volatili. Nel Libro della Cocina d’Anonimo Toscano del Trecento è descritto un “ripieno per pavone” da presentare, quest’ultimo, adornato con le sue penne. Il Maestro Martino Da Como (1450?) destina il pavone alla cottura come arrosto, ma dedica particolare attenzione a come prepararlo “vestito” in modo che sia portato in tavola quasi da parer vivo, con fiamme che escono dal becco, o con quest’ultimo dorato. Messisbugo (1549) nel suo libro Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale cita il pavone accanto ad altri uccelli ed una “Salsa di pavo”, una sorta di sapore. Nel menu delle nozze di Marcantonio Colonna con Orsina Peretti, il trinciante Reale Furosito (Alberti, 1969) prepara «pavoni arrostiti e salsapimentati con granati e limoni sopra, dorati il becco e li piedi, e abbia la coda posticcia e il suo collo ». Romoli (1560), più noto come il Panunto, nel suo libro La singolar Dottrina cita il petto di pavone per fare delle salsicce. Scappi (1570) nella sua Opera (Pranzo del 28 ottobre, Libro Quarto) cita pavoni nostrali arrostiti allo spiedo. Cervio (1581) ne Il Trinciante apre un Primo servizio di credenza con «pavoni bianchi rivestiti ed adornati di perle, coralli e fettucce d’oro et argento, con pendenti all’orecchio e profumi nel pico».

Dopo la scoperta dell’America, l’importanza di quest’uccello diminuì rapidamente. Il tacchino non solo lo sostituì sulle mense, perché era di sapore migliore e più facile da allevare, ma soprattutto perché ebbe modo di espandersi in una misura nella quale il pavone non era riuscito.

Oggi il pavone sopravvive come animale da ornamento, adatto soprattutto per grandi parchi. Qualche volta, come si è già accennato, arriva sulla tavola. Se si usano dei giovani pavoncini possono venire preparati come una normale cacciagione da penna. Se invece si usa un pavone adulto è necessaria una lunga frollatura ed una preparazione come un animale selvatico. La carne ha un sapore dolciastro e lascia abbastanza delusi, se non si usano molte spezie od abbondanti erbe aromatiche. Anche per questi motivi ancor oggi si usa portare il fagiano in tavola adornato con almeno una parte delle sue penne, tanto che può valere il detto “molta apparenza, ma poca sostanza”.

Giovanni Ballarini

Università degli Studi di Parma



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