Il progresso tecnologico nel settore alimentare ci ha abituati, in questi ultimi decenni, a importanti e continue innovazioni nel campo della conservazione dei prodotti, legate soprattutto allo sviluppo della Grande Distribuzione Organizzata e alle mutate esigenze dei consumatori.
Il settore delle carni ha visto i metodi di conservazione più antichi, quali lessiccazione, la salagione e laffumicamento, via via affiancati o superati dallinscatolamento, dalla refrigerazione e, più di recente, dal condizionamento sottovuoto o in atmosfera modificata (o protettiva, come attualmente denominata), basati rispettivamente sullesclusione e sulla riduzione dellossigeno allinterno delle confezioni: metodi tecnologici, praticati con macchinari oggi alla portata della maggior parte delle imprese, resi possibili da nuovi materiali divenuti disponibili negli ultimi decenni, tra cui le materie plastiche con le quali vengono prodotti contenitori ed involucri rigidi e flessibili.
Nel particolare settore dei prodotti di salumeria si è passati dalluso esclusivo dei metodi conservativi tradizionali, basati essenzialmente sul sale e sui processi fermentativi della stagionatura, allazione degli additivi, fino alluso degli stessi procedimenti di eliminazione o riduzione dellossigeno, molto praticati soprattutto per consentire una conservazione sufficientemente lunga dei prodotti già sezionati o affettati da presentare al consumatore.
Ma il percorso tecnologico è stato lungo e tuttaltro che facile.
Loccasione per tornare indietro di un secolo ci viene data ancora dal manuale dal titolo Conservazione delle sostanze alimentari, di Franceschi e Venturoli, dato alle stampe a Milano nel 1907 da Ulrico Hoepli, editore-libraio della Real Casa. Una piccola opera, ma certamente ricca di informazioni sullepoca pionieristica delle tecnologie alimentari, già recentemente citata su Eurocarni e Il Pesce, che stimola qualche approfondimento.
Una pietra miliare della storia della conservazione degli alimenti è senza dubbio rappresentata dal metodo Appert, ideato alla fine del XVIII secolo e applicato nei primi anni del XIX (la prima fabbrica di conserve fu aperta a Massy, in Francia, nel 1802) da Nicolas-François Appert, cuoco e pasticciere francese (1750-1841): metodo basato sullesposizione al calore e sullesclusione dal contatto con laria degli alimenti trattati, sperimentato in origine su materie liquide introdotte in bottiglie di vetro tappate con sughero e portate ad ebollizione. Grazie alla sua intuizione, descritta nellopera Lart de conserver pendant plusieurs années toutes les substances animales et végétales, pubblicata a Parigi nel 1810, lAppert doveva vincere un premio di 12.000 franchi messo in palio da Napoleone per chi avesse risolto il problema della conservazione delle derrate nelle campagne militari.
Ma torniamo al nostro manuale e leggiamone integralmente alcuni passi, peraltro interessanti per il linguaggio dellepoca.
Ora come sotto 0° ogni fermentazione è arrestata, così dai 100° ai 120° non avviene perché a questa temperatura, oltreché i germi sono uccisi, si coagulano i principii albuminoidi che rappresentano un elemento azotato che serve a nutrire il fermento, si rendono insolubili e trasformansi in una modificazione più difficilmente decomponibile. Da ciò le pratiche che anche nelluso domestico si usano per conservare le vivande, come la scottatura della carne, del brodo, del latte.
A questa premessa segue unaccurata descrizione della procedura, evidentemente già frutto delle successive applicazioni a noi conosciute che videro lutilizzo di contenitori di latta ad opera dellinglese Peter Durand, appropriatosi del metodo alla caduta dellimpero francese per avviare una produzione industriale nel 1814, finalizzata almeno inizialmente alla fornitura di carni e zuppe di verdura alla Reale Marina britannica.
In pratica il metodo Appert consiste nel mettere in appositi recipienti di metallo o di gres gli alimenti che si vogliono conservare, nel chiuderli ermeticamente, eppoi nellimmergere il recipiente in acqua scaldata gradatamente fino allebollizione, al qual grado si mantiene, dai 30 ai 60 minuti, secondo il volume del recipiente. Fatta questa operazione laria non può più penetrare nella scatola, e quella che già vi si trova è privata dogni germe fermentativo.
La descrizione dei nostri autori passa alle modifiche apportate al metodo dal Fastier, che sostituì prima al bagno-maria semplice il bagno-maria a sal comune o con zucchero, cosicché la temperatura potesse superare i 100°, innalzando cioè il punto di ebollizione dellacqua; poi nel coperchio della scatola praticò un foro per dar sfogo allaria ed al vapore che si svolge durante il riscaldamento e solo quando laria ne è uscita prima che la scatola si raffreddi, la chiuse con una goccia di saldatura.
G. B. Franceschi, G. Venturoli
Conservazione delle sostanze alimentari
Hoepli, Milano, 1907 IV edizione, pp 231
Il metodo originario fu applicato a carni semicotte (venivano messe nei contenitori a tre quarti di cottura), che venivano introdotte in iscatole di latta o in altri recipienti impermeabili ed incapaci di rendere alla carne dè principi nocivi (oggi abbiamo leggi che regolamentano i materiali destinati al contatto con gli alimenti) insieme a brodo e salamoia; portando ad ebollizione la scatola, la dilatazione del contenuto provocava una convessità del coperchio della stessa, che sarebbe dovuta scomparire con il raffreddamento e la cui permanenza sarebbe invece stata indice di cattiva riuscita delloperazione.
Veniva anche citato un metodo empirico di verifica del prodotto finito, basato sullesposizione per qualche tempo delle scatole già trattate in ambiente riscaldato a 30° e sul controllo delleventuale rigonfiamento dovuto a sviluppo di gas: in assenza di rigonfiamento poteva essere affermata la garanzia di lunga durata la quale può anche essere da 10 a 20 anni. Una procedura certo ben lontana da quelle attualmente basate sullapplicazione preventiva del sistema HACCP al processo produttivo e su accurate prove di laboratorio!
Nel testo vengono anche rilevati alcuni inconvenienti in ordine ad aspetti qualitativi (perdita del buon sapore caratteristico dovuto alla lunga conservazione), al rapido deterioramento dopo lapertura, agli alti costi di preparazione e allingombro notevole delle scatole nonché alla limitata utilizzabilità del prodotto in cucina a causa del suo stato di avanzata cottura.
Le modifiche apportate dal Fastier nel 1839 innalzavano la temperatura del bagno-maria a 110° e prevedevano, come si è visto, la realizzazione di un forellino nel coperchio, dal quale usciva laria durante il riscaldamento e che, ad uscita completata, veniva chiuso con una goccia di stagno fuso.
Interessante anche una breve elencazione dei metodi di chiusura delle scatole di latta con i relativi coperchi: la saldatura meccanica mediante unapposita macchina, che rappresentava evidentemente uno degli ultimi ritrovati tecnologici del momento; oppure il più economico metodo dellincastonatura o aggraffatura, con compressione delle due parti di latta mediante una macchina in grado di imprimere un movimento rotatorio molto rapido, collintermezzo di una sostanza malleabile che riempie tutti gli interstizi, questa sostanza è formata da una miscela di caoutchout, di ossido di ferro e di fibre di canepa. Questultimo metodo era considerato incompatibile con limmissione nel recipiente di olio, in grado di sciogliere la parte gommosa della miscela.
Lulteriore evoluzione doveva portare allabbandono della soluzione salina utilizzata dal Fastier e allinnalzamento della temperatura fino a 120° mediante laumento della pressione in autoclave, come ipotizzato da Raymond Chevalier-Appert (fisico, nipote di Appert, che brevettò lautoclave nel 1852); viene poi citato il perfezionamento del sistema messo in atto nel 1854 da Martin de Lignac, il quale introdusse carni ancora crude, insieme a brodo concentrato degrassato, in scatole metalliche di grandi dimensioni (20 kg), trattate in autoclave e poi trafitte ad una ad una con una punta di ferro per scacciare laria e sigillate con una goccia di saldatura. Pare che la qualità fosse migliore e che la carne fosse meglio utilizzabile in cucina, data la sua cottura non troppo spinta. Fu così che il metodo venne adottato da varie nazioni per approvvigionamenti degli eserciti. Ed in effetti questo è stato per un secolo e mezzo lutilizzo più frequente del metodo. Sono numerosi ancor oggi coloro che affermano di aver consumato, sotto le armi, scatole di carne prodotte da decenni: non sappiamo se si tratti di mito o realtà.
Dopo questo excursus sulle diverse varianti del metodo Appert applicate alle carni, che abbiamo voluto approfondire e integrare con altre informazioni, ecco che viene presentata dai nostri due antichi scienziati lapplicazione dello stesso a prosciutto e mortadella.
Questultima in particolare, e può non essere un caso, catalizza lattenzione dei due assistenti dellUniversità di Bologna, città nella quale il delizioso salume ha la sua culla. Per farci unidea pratica di queste preparazioni — affermano gli autori — ci siamo recati di persona in varie fabbriche di Bologna, dove ci vennero fornite le occorrenti notizie. Sapemmo in primo luogo che per ottenere perfetta mortadella occorrono maiali dellEmilia e della Romagna, uccisi in età di perfetta maturanza e nella stagione adatta al nostro clima, cioè dallottobre al febbraio. Ed ancora: Rispetto alla conservazione, questa viene assicurata da tre principali processi, cioè quello del sale, quello del fuoco e quello del fumo. Avuti questi tre elementi, la mortadella deve, per mettersi in condizioni dessere affettata per le scatole, raggiungere una stagionatura non mai inferiore a tre mesi, ciocché si ottiene tenendo i prodotti appesi al soffitto ad una distanza di 1 o 2 centimetri luno dallaltro in un luogo bene aerato.
Per applicare il metodo Appert alla mortadella occorreva innanzi tutto eliminare uno strato esterno di due o tre millimetri, allo scopo di allontanare la camicia di muffa formatasi durante la stagionatura nonostante laffumicamento, per proseguire poi con le altre fasi della preparazione.
Laffettamento di eseguisce con apposita macchina, e subito dopo le fette vengono poste nelle scatole, evitando che restino anche pochi istanti esposte allazione dellaria. Il contatto diretto con il metallo veniva evitato rivestendo linterno delle scatole con una carta speciale. Ed eccoci al trattamento. Riempite le scatole, vengono chiuse ermeticamente. Indi ad una ad una sono sottoposte alla pressione di una macchinetta che agisce immersa nellacqua tiepida, e ciò allo scopo di riconoscere se vi fosse nella scatola la benché minima apertura. Vengono in seguito le scatole stesse perforate in un angolo del coperchio, eppoi immerse in una caldaia scaldata a 85° (80° in estate), avendo riguardo di non oltrepassare questo grado per evitare la fusione del grasso che contiene la mortadella. Si fa soggiornare la scatola da 3 a 5 minuti, secondo la grandezza, nel bagno, avvertendo che lacqua non invada il foro. Trascorso questo tempo si chiude il foro con una goccia di stagno, e levata la scatola dallacqua si lascia raffreddare. Così si destina alla conservazione che riesce sempre perfetta.
Ecco così un prodotto ai nostri occhi insolito al pari del linguaggio usato per descriverne la preparazione, ma che ci dà unidea degli importanti tentativi condotti a cavallo dei secoli XIX e XX dai tecnologi alimentari di allora: tentativi basati su intuizioni e pratiche empiriche che si rifacevano alle cognizioni microbiologiche del tempo.
Mentre la carne in scatola ha avuto successo fino ai giorni nostri, grazie al miglioramento dei materiali e delle tecniche di lavorazione e trattamento, la mortadella, così come il prosciutto (che poteva essere inscatolato con le stesse modalità), non è oggi reperibile sugli scaffali dei supermercati, soppiantata da confezioni realizzate in modo più consono alle nostre attuali esigenze. Ma la storia è storia.
Marco Cappelli
Bibliografia
Per abbonarti a una nostra Rivista o acquistare la copia di un Annuario