Una delle caratteristiche più evidenti dei bovini Chianini è il mantello bianco porcellana che, assieme alla loro conformazione armoniosa, li fa ammirare anche da chi non è pratico di zootecnia. È possibile che questa caratteristica somatica abbia a che fare con l’origine stessa della razza, e cioè che derivi da una selezione operata dagli Etruschi e dagli antichi Romani per ottenere animali bianchi destinati ai sacrifici, configurando un’attitudine produttiva “sacra”. Questa ipotesi trova conferma nelle testimonianze degli autori latini e in un esame attento delle modalità con cui si svolgevano i sacrifici nel mondo romano.
L’allevamento bovino a Roma
L’allevamento bovino nell’Italia romana era dedicato a produrre buoi da lavoro impiegati, spesso insieme alle vacche, nei campi e nel trasporto su carri, e quindi fondamentali per l’approvvigionamento di derrate alimentari e di tutte le altre merci. I cavalli, invece, erano usati in prevalenza come animali da sella, per l’alto costo di mantenimento, e le razze presenti in epoca romana avevano scarsa attitudine alla trazione (Morley). L’allevamento bovino era basato su vacche nutrici, allevate spesso su pascoli pubblici, molto usati dai piccoli proprietari (Gabba); le vitelle erano adibite alla rimonta e i vitelli erano per lo più castrati e addestrati al lavoro. Anche i buoi svernavano al pascolo, nei periodi di inattività, che erano però piuttosto brevi, dato che le lavorazioni, anche a causa degli attrezzi poco efficienti, dovevano essere ripetute più volte sullo stesso campo (Kolendo).
Con il crescere della popolazione i pascoli pubblici divennero insufficienti e dapprima fu imposto su di essi un carico massimo di cento capi bovini per allevatore, con le leggi Licinie Sestie del 367 a.C. (Grenier), e poi furono sempre più destinati alle colture, generando tensioni tra allevatori ed agricoltori. Nacquero le prime guerre d’espansione dei Romani, contro Albalonga e contro i Sabini, per appropriarsi di nuovi pascoli ed iniziò anche la transumanza verso le montagne, sfruttando i tratturi, chiamati calles (Grenier). A Roma non esistevano razze bovine ad attitudine da latte: la loro produzione era destinata allo svezzamento dei vitelli, dato anche lo scarso consumo di latte fresco — considerato un uso da barbari — mentre i formaggi più diffusi erano di pecora o di capra.
Anche l’allevamento per la produzione della carne non era previsto: l’enorme importanza dei bovini da lavoro per l’economia romana si traduceva in una sacralità che li rendeva intoccabili, tanto che la loro uccisione nei primi secoli di Roma costava la pena di morte o l’esilio, mentre gli ovicaprini, i suini e gli avicoli potevano essere allevati per la carne.
L’abbattimento dei bovini era però lecito all’interno di riti sacrificali: la vittima, trasferita in ambito sacro con l’immolatio sull’altare, era trattata ritualmente, e con la profanatio tornava in ambito profano (Santini), così la sua carne poteva essere consumata dagli offerenti o venduta. È probabile poi che al tabù che proteggeva i bovini sfuggissero le vacche e i buoi a fine carriera, che Catone (2, 5-7) raccomandava di vendere. L’uso del sacrificio come unica possibilità di deroga dal rispetto assoluto del bue da lavoro si trova anche presso altri popoli del bacino del Mediterraneo, in area siro-palestinese (Milano) o presso i Greci (Lissarrague e Schmitt Pantel, Van Straten), tra i quali un invito a casa di amici poteva essere indifferentemente definito “a cena” oppure “ai sacrifici” o “ad una vittima” (Georgoudi).
I sacrifici a Roma
Le notizie sui sacrifici dei Romani sono scarse e spesso poco dettagliate, mentre per gli Etruschi le informazioni sono ancora minori. Sappiamo però che per i Romani i riti religiosi pubblici (sacra publica), in occasione di feste religiose o civili, erano a spese della collettività, e spesso comprendevano sacrifici, eseguiti per propiziare azioni da compiere (guerre o insediamento di cariche pubbliche), per festeggiare vittorie in guerra (i trionfi) o per placare gli dei per qualche atto ritenuto offensivo nei loro confronti. I sacrifici avvenivano anche all’interno di riti privati (sacra privata), per festeggiare eventi lieti e ricorrenze o per adempiere a dei voti e le relative spese erano sostenute da cittadini o famiglie.
Le vittime (hostiae) potevano essere piante coltivate, oggetti inanimati come focacce, dolci, fiori, incenso e anche denaro, ma di frequente erano animali domestici, e i più pregiati, bovini, ovicaprini e suini, erano detti victimae (Prescendi). Sia i sacrifici pubblici che quelli privati erano seguiti da banchetti o distribuzioni di cibo (Scheid, 1988); il grande storico tedesco Theodor Mommsen nel 1843 definì i riti sacrificali della religione romana come “uno sconcertante miscuglio di cose sacre e di banchetti”. In essi si consumava ciò che era stato sacrificato, dividendo simbolicamente il pasto con la divinità, che aveva il pasto per prima (Scheid, 1988), per mezzo della combustione sul fuoco.
Nei sacrifici offerti a divinità infernali, invece, la vittima era completamente arsa nel fuoco, con il cosiddetto olocausto, per non spartire il pasto con gli dei inferi.
Se la vittima era un animale, alla divinità erano attribuite le parti vitali, gli exta, fegato, cuore, polmoni, omento e cistifellea; le restanti interiora (viscera) spettavano agli offerenti (Santini) e la parte più materiale, la carne, era destinata al resto dei partecipanti (Scheid, 1984). La spartizione era basata su criteri gerarchici, privilegiando senatori, sacerdoti, magistrati, anche se, al contrario dell’antica Grecia, non è chiaro a chi spettassero le singole parti.
I cittadini comuni che partecipavano al banchetto fruivano di porzioni ridotte e dovevano pagare una quota, a meno che qualche benefattore non offrisse al popolo il pasto (Scheid, 1988).
Caratteristiche del bovino
da sacrificio
Il bovino da sacrificare andava offerto ad un dio, quindi doveva essere del tutto privo di difetti, sano e non ferito e non doveva essere stato utilizzato in precedenza per il lavoro (Goette); quindi, prima dell’immolazione, era sottoposto alla probatio, una vero e proprio esame morfologico e funzionale che determinava l’esclusione dal sacrificio ad esempio se la coda non raggiungeva i garretti o se l’animale zoppicava (Plinio, VIII, 183). La castrazione non era considerata una menomazione, ma la creazione di un terzo genere sessuale, con valore proprio (Capdeville).
Per alcuni sacrifici era però previsto che la vittima fosse un toro in grado di procreare, e quindi la probatio consisteva nella palpazione dei testicoli (Goette). Dopo l’abbattimento l’aruspice (haruspex), un assistente del sacrificatore, spesso di origine etrusca, esaminava le viscere (exta) sia crude, sia lessate (Santini), secondo l’antica disciplina etrusca dell’aruspicina, introdotta a Roma durante l’egemonia dei Tarquini ed assimilata dai Romani come altri usi e consuetudini etruschi, ma praticata anche dai Babilonesi e in Anatolia, Siria e Palestina.
Ogni eventuale anomalia rendeva nullo il rito e imponeva di immolare una nuova vittima in sostituzione di quella scartata (Capdeville) fino a trovarne una priva di difetti, che potesse ottenere la litatio, cioè il gradimento degli dei. La vittima doveva dare il consenso all’abbattimento abbassando la testa, quando la si aspergeva d’acqua (Prescendi), ma spesso era forzata a farlo con la corda con la quale era legata.
Il rifiuto o la fuga della vittima, impediva il sacrificio ed imponeva la cattura e l’uccisione dell’animale ribelle. Va sottolineato che gli Etruschi e i Romani sacrificavano anche animali espressamente per trarne auspici (hostiae consultatoriae; Bloch, 1987a).
Il mancato ottenimento della litatio era un segno della cattiva disposizione degli dei verso il sacrificante. Ci è giunto il testo di maledizioni che auguravano “possa non essere in grado di sacrificare”, ossia possa non ottenere la litatio, prova dell’ira divina che non poteva essere placata dal bersaglio della maledizione per l’impossibilità di eseguire il sacrificio (Versnel).
Per quanto riguarda la qualità della carne degli animali da sacrificare, il filosofo neoplatonico Porfirio (2, 25) accusava i Romani di occuparsi, nella scelta degli animali, più del proprio piacere che non di quello degli dei, il che sembra normale visto che i consumatori finali della carne erano gli umani. Quindi si può ipotizzare che esistesse anche una selezione basata sulla qualità della carne, limitata però agli animali sacrificati in giovane età e non ai buoi e alle vacche a fine carriera, la cui carne aveva basso prezzo e veniva consumata solo dopo bollitura prolungata.
Lo scrittore cristiano del II-III secolo d.C. Tertulliano (30, 6) scherniva i pagani perché a suo dire offrivano alle loro divinità dei buoi talmente vecchi da chiedere solo di morire, ma questa potrebbe essere una situazione legata solo agli ultimi secoli dell’impero romano e comunque rientrava evidentemente nella polemica dei cristiani contro i pagani.
Di solito alle divinità si sacrificavano vittime del loro stesso sesso, a seconda dei casi tori, buoi, vacche e giovenche gravide o vuote. L’età e le dimensioni delle vittime variavano anche a seconda dell’importanza della divinità e del sacrificio (Cicerone II, 29): il toro, definito da Virgilio (II, 146-148) la più grande tra le vittime, era riservato alle divinità più importanti, mentre i vitelli e le specie di taglia minore, come ovini, caprini, suini e avicoli, vittime più “povere”, erano riservate a divinità minori o ai sacrifici privati dei meno abbienti, visto che un cittadino comune non poteva permettersi di comprare troppo spesso un toro o un bue (Capdeville).
Giovenale nelle Satire (XII, 11-14), volendo festeggiare il ritorno di un amico scampato ad un naufragio, lamenta di poter sacrificare alla Triade Capitolina solo due agnelli ed un vitello e di non essere abbastanza ricco da poter offrire un toro, che vorrebbe talmente grande da essere rallentato per la sua stessa mole e tanto alto da richiedere per abbatterlo un officiante di alta statura.
Le dimensioni dei bovini italiani non erano trascurabili: per Varrone (II, 5) la preferenza di essi come animali da sacrificio era dovuta alla loro mole. L’autore latino Columella (VI, I, 2) descrive i bovini umbri come grandissimi e bianchi (vastos et albos), mentre per Arbogast et al. i bovini romani erano di taglia superiore a quelli della Gallia, come provato dall’aumento di altezza al garrese intervenuto con l’occupazione romana, misurato sui resti bovini di varie epoche trovati in Francia. Questo era dovuto sia a fattori genetici, sia alla più efficace selezione operata dai Romani, la cui civiltà era tecnologicamente più avanzata di quella gallica.
Anche la natura argillosa di molti terreni italiani incideva sulla scelta: Columella raccomandava esplicitamente di investire in buoi robusti ed aratri pesanti, per ottenere raccolti più abbondanti (Morley). Kron, infine, ritiene che l’Italia meridionale disponesse di animali più grandi di quelli del resto d’Italia, forse anche grazie all’influenza greca.
Colore del bovino da sacrificare
Il colore del mantello delle vittime era diverso a seconda della divinità alla quale erano sacrificate: a molte divinità celesti si immolava un animale bianco, per quelle legate al fuoco la vittima doveva essere rossa, mentre per gli dei infernali o legati alla notte si abbatteva una vittima a mantello nero.
I sacrifici con bovini bianchi furono introdotti in Italia dal re Numa Pompilio, originario della regione umbro-sabina (Alderson). Tra i sacrifici più importanti, c’erano i solenni Suovetaurilia, citati da Livio (I, 44) già a proposito del re Servio Tullio (VI sec. a.C.), e destinati a Giove, Giunone, Minerva o Marte, che prevedevano il sacrificio di tre animali bianchi, un verro (sus), un ariete (oves) ed un toro (taurus). Le numerose raffigurazioni scultoree di questi riti mostrano imponenti tori adornati da fasce sul dorso (dorsualia) condotti al sacrificio. Anche i trionfi dopo una guerra vittoriosa prevedevano il sacrificio di un toro bianco sul Campidoglio e Ovidio (Fasti, I, 719-720) parla di una bianca vittima immolata sull’altare della pace. Nei sacrifici a Giove anche il cappello del sacerdote doveva essere bianco, ottenuto dalla pelle degli animali sacrificati (Goette).
Un toro bianco era sacrificato durante le Feriae latinae, istituite dall’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, presso il Tempio di Giove Laziale sul Monte Albano, l’attuale Monte Cavo (Livio, XLI, 16); la carne della vittima era poi spartita simbolicamente tra i popoli delle 47 città latine (Dionigi di Alicarnasso, IV, 49). Lo scrittore cristiano Arnobio (II. 68, 1) nel III secolo, in polemica con i pagani, rinfaccia loro l’abbandono della prescrizione religiosa del sacrificio del toro bianco nelle Feriae latinae, presa con decisione del Senato, autorità laica, che aveva ammesso al sacrificio anche tori rossicci.
L’importanza del bovino a mantello bianco è dimostrata dal fatto che, in sua assenza, si sbiancava un animale con mantello diverso spalmandolo di creta bianca (Giovenale, X 65-66; Lucilio, H113).
Secondo Johnston, i Romani avrebbero esportato bovini bianchi perfino in Inghilterra, dove avrebbero dato origine agli attuali bovini semi-selvatici delle razze Chillingham, Cadzow ed altre.
Va sottolineato che il colore dei bovini da immolare è spesso descritto dagli autori antichi come “candido” o “niveo”, il che sembra escludere che i bovini fossero bianco crema o grigio chiaro, e suggerisce che fossero piuttosto di un bianco puro, come gli attuali Chianini.
Un atto religioso con fortissime implicazioni simboliche era la fondazione di una città, che si svolgeva secondo il “rito etrusco” tracciandone il perimetro con un aratro tirato da un toro e da una vacca, il primo verso l’esterno, a simboleggiare la protezione del maschio contro i pericoli esterni, e la seconda verso l’interno, a simboleggiare la protezione femminile della comunità e della casa. I bovini, che una volta completato il solco venivano sacrificati, dovevano essere entrambi bianchi (Ovidio, Fasti, IV, 825).
Anche nei sacrifici privati spesso la vittima aveva il mantello bianco: è arrivata fino a noi l’iscrizione dello schiavo Felice Asiniano, che scioglieva il voto fatto alla Bona Dea, offrendole una giovenca bianca per aver ridato a lui, che era stato abbandonato dai medici, la luce degli occhi, con un’offerta sacrificale molto dispendiosa per un rito privato (Rüpke).
Come visto Columella descrive i bovini umbri come grandissimi e bianchi, mentre Virgilio (II, 146-148), a proposito del fiume Clitunno, in Umbria, descrive il grande toro bianco utilizzato per i sacrifici per le vittorie militari romane.
Per lo scrittore assisano Properzio (II, 19, 25-26) le acque del Clitunno erano capaci di sbiancare il pelo dei bovini che vi venivano immersi, riprendendo una credenza già presente in Aristotele (V, 6 786a) secondo la quale l’immersione in acque calde rendeva il pelo bianco, mentre quelle fredde lo scurivano; inoltre, gli animali a pelo bianco avrebbero avuto carni più gustose degli altri, sempre per effetto del maggior calore.
Anche al di fuori di Roma, ed in epoche diverse, i bovini bianchi erano considerati eccelse vittime di sacrifici: ad esempio i sacerdoti druidici immolavano bovini bianchi (Alderson); il mito del Minotauro di Creta racconta che la creatura mitologica era nata dall’amore di Pasifae con un toro bianco destinato ad essere sacrificato a Poseidone, come cantato, tra l’altro da Ovidio nell’Ars amandi (I, 290). Il re persiano del VI secolo Yazdgard II, fedele al mazdeismo, celebrò le sue vittorie sui vari popoli con il sacrificio di buoi bianchi (Duchesne-Guillemin).
Quanti bovini servivano
per i sacrifici di Roma?
Non abbiamo dati sul fabbisogno di bovini per i sacrifici a Roma, ma doveva essere piuttosto alto nella città, che in epoca imperiale superava il milione e duecentomila abitanti (Calza e Lugli), e in cui si sommavano le esigenze private di una popolazione così ampia a quelle pubbliche di uno stato con un’enorme estensione territoriale ed un fitto calendario di celebrazioni religiose e civili. Per Scheid (2011), i bovini macellati nel corso dei sacrifici potevano addirittura bastare a coprire il fabbisogno di carne bovina di Roma, almeno nei mesi con molte solennità pubbliche. Infatti la carne proveniente dai sacrifici non era sempre consumata nei banchetti e per Scheid (1985) poteva essere venduta nelle macellerie, dato che le pelli delle vittime erano oggetto di commercio. Isenberg è dello stesso avviso, citando il brano della Lettera di San Paolo ai Corinzi (X: 28) che invita i Cristiani ad astenersi dal mangiare carne proveniente da animali immolati dai pagani sugli altari.
Dalle notizie degli autori antichi possiamo constatare che nei sacrifici pubblici in occasione di grandi avvenimenti il numero di bovini abbattuti era veramente notevole. Livio (22, 10, 2-6) racconta che nel III secolo a.C., mentre erano in corso le guerre puniche e quelle galliche, era stato promesso a Giove il sacrificio di 300 buoi, oltre ad un numero imprecisato di buoi bianchi per numerose altre divinità. Nel 168 a.C. Paolo Emilio per il proprio trionfo aveva offerto 120 buoi d’allevamento (Diodoro, XXXI, 8, 12; Plutarco, XXXIII 2), mentre per il trionfo di Cesare nel 46 a.C. i convitati al banchetto erano 200.000 (Scheid, 2011).
Lo storico Flavio Giuseppe racconta che a Gerusalemme, per celebrare la vittoria del futuro imperatore Tito nella guerra giudaica del 70 d.C., fu sacrificata un’immensa quantità di bovini, la cui carne fu poi distribuita ai soldati con un banchetto che durò tre giorni (VII, 16-171). Per il trionfo dell’imperatore Traiano sui Daci furono immolati 132 bovini (Scheid, 2011). Ammiano Marcellino cita un sacrificio ordinato dall’imperatore Giuliano in cui furono abbattuti un centinaio di bovini e molti altri animali di specie più piccole, usati per un banchetto che mise alla prova la resistenza al cibo ed al vino dei soldati (XXII, 12, 6). Secondo lo stesso Ammiano (XXV, 4), l’imperatore Marco Aurelio era solito offrire molti bovini agli dei, tanto che era stato oggetto di una breve poesia satirica, in cui i candidi buoi si lamentavano e prevedevano che in caso di nuove vittorie in guerra dell’imperatore sarebbero stati spacciati. Al fabbisogno della capitale dell’impero va aggiunto anche quello delle altre città, nelle quali si svolgevano comunque riti ufficiali, su scala minore che a Roma, e riti privati, che richiedevano, nei casi più importanti, il sacrificio di bovini. Va, infine, considerato che il fabbisogno in bovini da sacrificio nella città di Roma era aumentato dal fatto che essi erano considerati le vittime ottimali non solo dalla religione tradizionale romana, ma anche da diverse delle numerose nuove religioni introdotte a Roma dall’Oriente in età imperiale, come il culto di Cibele, che prevedeva il taurobolium, uccisione di un toro, e quello di Mitra, rappresentato mentre uccideva un toro (tauroctonia), che appare di colore bianco in molte raffigurazioni pittoriche (come quelle dei mitrei di Marino, Santa Maria Capua Vetere e Santa Prisca a Roma). Alcuni studiosi, però, esprimono dubbi sul fatto che i tori fossero effettivamente sacrificati durante i riti mitriaci, ipotizzando che la tauroctonia fosse solo una rappresentazione simbolica (Turcan).
Da dove venivano
i bovini sacrificati?
Non abbiamo molte notizie sulla provenienza degli animali da sacrificare: la città era un grande centro di consumo di merci, ma non le produceva, e i dintorni non bastavano a fornire le numerose vittime necessarie ai sacrifici. In compenso il resto dell’Italia era poco popolato e le zone troppo lontane dal mercato romano perché valesse lo sforzo o la spesa di coltivarle erano dedicate al pascolo (Morley). All’epoca i trasporti di merci erano molto lenti, incerti e costosi, e avvenivano di preferenza via mare o via fiume, ma il bestiame vivo poteva camminare, anche se lentamente, per lunghe distanze, mentre non sopportava bene il trasporto in nave. Come visto in precedenza in epoca romana era già praticata la transumanza, bovina e ovicaprina, anche su grandi distanze. Quindi il bacino di produzione dei bovini sacrificati a Roma era molto ampio e poteva interessare regioni anche relativamente lontane da Roma.
Ovidio (Fasti, I, 83-84) parla di bovini sacrificati nutriti dall’erba falisca, cioè della zona di Civita Castellana (VT).
Il passo di Giovenale già citato (XII, 11-14) descrive il toro che il poeta sogna di sacrificare, senza poterselo permettere, e cita come indice di qualità il fatto di non essere cresciuto vicino a Roma, ma di provenire dai pascoli umbri del fiume Clitunno, menzionati anche da Virgilio.
Pasquinelli cita un passo dello storico romano del IV secolo Giulio Ossequiente che menziona il trasferimento di animali a Roma per la macellazione da parte dei Latini.
Scheid (2011) ritiene che non ci fossero allevamenti separati per animali ad altaria (da sacrificare) e ad cultrum (da macellare per il mercato) ma che si abbattevano semplicemente i capi con le caratteristiche adatte. Questo è confermato da Virgilio nelle Georgiche (III, 159-160), che parla di scelta tra i vitelli di quelli da destinare alla riproduzione, al lavoro o ai sacrifici sugli altari.
Quindi l’agricoltore allevava i propri buoi da lavoro dai vitelli nati in casa, e vendeva vitelli, giovenche o giovani tori per i sacrifici, selezionando per ottenere bovini bianchi, adatti sia per i sacrifici, sia per il lavoro nei campi, grazie all’abbinamento tra mantello bianco, che respinge i raggi solari, e cute nera, protettiva contro i danni da insolazione.
Nell’Italia romana non mancavano possidenti in grado di fornire un gran numero di bovini; Plinio (XXIII, 135) racconta che un certo Claudio Isidoro, pur avendo perduto molte delle sue ricchezze nelle guerre civili, aveva trasmesso agli eredi, tra le altre ricchezze, anche 3600 pariglie di buoi.
I bovini per i sacrifici erano quindi allevati da privati e acquistati dagli offerenti, privati o pubblici. Per Frayn è probabile che esistessero dei mediatori tra allevatori e committenti di un sacrificio, forse i victimarii negotiatores citati da Plinio (VII, 12.54), coinvolti non solo nell’esecuzione del sacrificio, ma anche nel procacciamento degli animali e nel loro ritiro presso l’azienda, quando gli animali non erano consegnati dagli stessi proprietari (Morley).
La carne proveniente dai sacrifici pubblici, se non consumata nel banchetto, era venduta dai questori ai macellai (Corbier); ancora Frayn riepiloga le varie figure, sacre e profane, coinvolte nelle macellazioni partendo dai lanii che abbattevano gli animali, per passare ai macellarii, che vendevano la carne nei negozi, per finire con i victimarii che erano i tecnici dei sacrifici, di solito schiavi o liberti, incaricati anche dell’accensione dei fuochi per la cottura degli exta, delle viscerae, e delle carni.
Chastagnol cita la corporazione dei boarii, venditori di carne bovina nel Foro Boario, un apposito mercato presso il Tevere, separato da quelli dedicati alla carne suina e ovina. Guarducci (1989) commenta il cippo sepolcrale di un bublarius della via Sacra, una delle vie più eleganti dell’antica Roma, dove si trovavano i negozi delle merci più lussuose, escludendo quindi che il bublarius fosse un mercante di bestiame (di solito chiamato mercator bovarius), ma piuttosto un commerciante di carne bovina proveniente da animali per i sacrifici, merce pregiata e costosa.
Conclusioni
Sappiamo che la città di Roma richiedeva una grande quantità di bovini da sacrificare, che spesso era richiesto che gli animali fossero candidi, di grandi dimensioni, con carne di buona qualità e che arrivavano da un’area piuttosto vasta gravitante su Roma. Questo non può portarci con certezza ad affermare che questi animali fossero gli antenati della razza Chianina, ipotesi già sostenuta da Tito Manlio Bettini nel 1962, ma ci fornisce una mole di indizi per ritenerlo come minimo verosimile.
La razza sarebbe perciò il risultato di una selezione congiunta per l’attitudine lavoro ed i sacrifici, centrata sul colore del mantello e sulle caratteristiche somatiche.
Il concetto di razza in senso zootecnico è molto recente, essendo nato nel settecento e meglio definito nell’Ottocento (Pellegrini) e non appartiene alla cultura latina. Sappiamo però da Virgilio (III, 158), che i vitelli erano marchiati a fuoco con la nota, forse il nome del proprietario, e con il nomen gentis, che probabilmente indicava una linea di sangue, segno di un interesse per la selezione degli animali e per la fissazione di determinati caratteri morfologici e produttivi.
La pratica dei sacrifici nel mondo romano terminò negli ultimi secoli dell’Impero, per le ripetute proibizioni da parte degli imperatori cristiani.
Resta quindi da spiegare come i discendenti degli animali immolati sugli altari abbiano potuto superare i numerosi secoli dalla fine dell’impero romano a fine Ottocento, quando si trovano notizie della razza Chianina, ma conoscendo le ottime prestazioni dei Chianini come animali da lavoro e l’apprezzamento degli allevatori anche per la loro bellezza, si spiega facilmente anche la loro sopravvivenza.
Le moderne tecniche di analisi genetica dei resti animali rinvenuti negli scavi archeologici sarebbero comunque molto utili per confermare sperimentalmente i dati bibliografici.
Andrea Gaddini
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