Anche a Venezia, come in altre città italiane, fino all’inizio del 1800 le cacce dei tori erano una grande occasione di festa e suscitavano entusiasmo e passione. Nel 1844, lo storico veneziano Michele Battagia scriveva: “nel numero dei nostri popolari sollazzi e spettacoli, la caccia del toro fu certamente sopra ogni altro il più frequente e più caro”.
Breve storia della tauromachia
Gli affreschi di Cnosso del XV sec. a.C. testimoniano che a Creta, già in epoca minoica, si praticavano lotte con i tori, molto popolari anche presso i Romani. Nel Medioevo, le cacce erano feste di piazza, analoghe ai giochi plebei spagnoli, poi sostituiti dalla corrida, in origine praticata dai soli nobili. Le giostre si tenevano a Roma (si veda di Gaddini A., La corrida a Roma, in Eurocarni n. 2/2018, pag. 122), a Siena, a Macerata, a Todi, a Terni, mentre a Napoli gli spagnoli organizzavano vere e proprie corride.
La tauromachia a Venezia
Secondo Filiasi (1796), i Veneti antichi celebravano feste con sacrifici di bovini, le buthysiae, forse antenate delle cacce veneziane. L’origine di queste ultime risale al 1162, quando i veneziani catturarono Ulrico, patriarca di Aquileia, e dodici canonici. Come riscatto imposero un tributo annuale, da pagarsi a Carnevale, di un toro e dodici maiali, abbattuti in una festa pubblica, in piazzetta San Marco, il giovedì grasso. In seguito le cacce divennero soprattutto una lotta tra cani e tori. La contessa Orsini di Rosenberg, nella lettera “Del soggiorno dei Conti del Nord in Venezia”, fa un racconto conciso ed efficace della caccia del 24 gennaio 1782 in piazza San Marco: “Comparvero nell’arena i Tori, i Cani, e quantità di valorosi atleti a quadriglie, vestiti alla foggia di varie nazioni. Il combattimento, assai meno pericoloso di quello che s’usa in Ispagna, consiste unicamente nella destrezza di coloro a’ quali è affidata la custodia del Toro; egli è trattenuto con due funi lunghissime passate tra le corna, e maneggiate opportunamente da uno o due uomini; allorché il Toro morsicato dal Cane all’orecchio vuol far uso della propria forza, i tiratori con una scossa improvvisa lo costringono a cambiar direzione, e rendono di lui sforzi inutili. Chi non fosse pratico in cosiffatto esercizio potrebbe facilmente essere strascinato, calpestato, e guasto dall’animale. V’ha regole, v’ha un’arte precisa per questa faccenda”. Le cacce erano uno spettacolo violento e pericoloso, la folla invadeva il campo, rischiando la vita “per boria di dimostrare coraggio e abilità nel sottrarsi alle furie degli animali”. I frequenti incidenti spinsero più volte le autorità civili e religiose a proibire le cacce, salvo poi revocare il bando per la grande pressione popolare. La bolla “De Salute Gregis Dominici” del 1567, di papa Pio V, scomunicava partecipanti e spettatori e negava la sepoltura in terra consacrata alle vittime. L’abate Giambattista Roberti di Bassano del Grappa, nelle sue “Annotazioni sopra la umanità del secolo decimottavo” del 1781, caldeggiava l’abolizione delle cacce: “avanzo dei divertimenti barbarici, che a mio giudizio non fa onore all’educazione di un popolo, insultar per diletto il più benefico degli animali, provocando all’ira con ogni ludibrio la sua mansuetudine fra una ciurma di truci sgherri, e di paltoni, accannegiandolo, e punzecchiandolo, e sopraffacendolo doloroso, mugghiante, insanguinato”. Il divieto venne nel 1802 dal governo austriaco, cinque anni dopo il trattato di Campoformido, che decretò la fine della Repubblica di Venezia. Per qualche anno le cacce continuarono a Murano e sulla terraferma, ma furono definitivamente vietate dal Regno Italico napoleonico (1805-1814). Anche le “battagliole” combattute sui ponti tra le fazioni dei Nicolotti (sestieri di S. Croce, S. Polo e Cannaregio) e dei Castellani (sestieri di Castello, San Marco e Dorsoduro) furono proibite nel 1705, come anche la loro rappresentazione pittorica.
I protagonisti delle cacce veneziane
I tori. Come a Roma, le cacce in realtà coinvolgevano buoi e, più di rado, tori e vacche. Per coerenza con la letteratura che ne parla, comunque, nel testo si parlerà di “tori”. Ne erano impiegati fino a 12 per ogni caccia ordinaria e fino a 24 per quelle più importanti, entrando in campo uno o due per volta; nelle feste maggiori ne entravano anche 4 nello stesso tempo. I cortesani o “caporioni della festa” organizzavano le cacce; dovevano essere solvibili, rispettati in città ed abili ad organizzare; un carattere rissoso era d’aiuto. Spesso erano macellai. Il Cigogna li definisce: “uomini di spirito, di coraggio, col zecchino sempre in saccoccia”, mentre per Carlo Gozzi “sapevano come si fa a poco spendere e a molto godere”. Vestivano in braghe corte di velluto, tabarro scarlatto e cappello a tre venti, ossia a tricorno. I tiratori controllavano i tori e li facevano entrare in lizza, tirandoli con corde, dette anch’esse tiratori, oppure cai, legate alle corna. Di solito per ogni toro c’erano due tiratori, di cui uno poteva essere di sesso femminile; se ce n’era uno solo, si diceva “el tira el toro a un cao solo”. Vestivano calzoni corti di velluto nero e giacchetta bianca, scarlatta o di drappo di tessuto a fiori, con tricorno o berretta rossa per i Castellani, nera per i Nicolotti. Il giorno prima della caccia, al Partìo de la Carne, il mattatoio comunale a San Giobbe, a Cannaregio, i tiratori sceglievano gli animali, pagando uno zecchino d’oro per il deterioramento dell’animale. Il Magistrato alle Beccarie poteva accordare uno dei biglietti di esenzione dal tributo, dati dai cortesani in proporzione al numero delle cacce. I tiratori erano di solito gondolieri, bottegai e peateri, ossia i conduttori delle peate, le grosse barche da carico. Capitava che dei gentiluomini si cimentassero come tiratori, mascherati alla Barona, cioè da Pantalone, Brighella, Arlecchino o altro, per non essere riconosciuti, in coppia con un becher (macellaio) in camiciotto bianco merlettato “per loro sicurezza e decoro”. Il capocaccia era il responsabile dell’organizzazione della festa e ne disponeva l’avvio, dato con uno squillo di tromba, e le entrate e le uscite di uomini e animali. I cani erano molossi, addestrati nei macelli, fin da piccoli, ad azzannare le orecchie dei tori, esercitandosi su quelli abbattuti. Se il cane, afferrata l’orecchia, vi restava attaccato, nonostante il toro cercasse di scrollarlo via, era applaudito, mentre se azzannava la gola era fischiato. Se però il toro riusciva a lanciarlo in aria, spesso lo incornava e lo uccideva, e in questo caso era il toro ad essere oggetto di ovazioni.
I cavacani introducevano nell’arena il cane, spesso chiuso in gabbia fino all’occorrenza, lo aizzavano ad azzannare le orecchie del toro e poi, per consentire ad un altro cane di attaccare, si occupavano di staccarlo (cavarlo), trascinandolo per le zampe posteriori, stringendogli le fauci o, in casi estremi, comprimendogli i testicoli o mordendolo alla base della coda. Addestrare cani da toro era una passione, specialmente praticata dai macellai, ma anche una fonte di reddito, perché in alcune cacce gli animali più valorosi ricevevano premi in denaro.
Le scalinate o scalinae erano gradinate montate nel campo, con posti di vario prezzo, completate da palizzate di contenimento. Erano soggette alla verifica di periti, per ordine del Magistrato dei Provveditori di Comun, e il Consiglio dei Dieci imponeva l’identificazione preventiva dei marangoni, i carpentieri responsabili degli allestimenti. Nonostante ciò, a volte le scalinae cedevano, causando morti e feriti, come nel caso dell’ultima caccia del 22 febbraio 1802, in campo Santo Stefano, che determinò la sospensione degli spettacoli. Quel giorno un toro slegato (molao) cercò di scavalcare la staccionata che lo separava dal pubblico, dal lato di palazzo Morosini, provocando un movimento di folla che fece crollare parte della tribuna. Il crollo e il panico causarono morti e feriti, tra cui donne e bambini, coinvolgendo anche chi si era nascosto sotto le tribune per vedere lo spettacolo dalle fessure, senza pagare il biglietto. L’occasione per le cacce con committenti privati era di celebrare l’elezione a cariche pubbliche o matrimoni, con conseguente sfoggio di ricchezza, che testimoniasse l’onore della famiglia. Si tenevano però anche cacce di piccola portata e a basso costo, per festeggiamenti locali e ricorrenze di famiglia, a beneficio di parenti e vicini.
I campi sono le piazze veneziane, quasi del tutto chiuse da fabbricati, su cui si affaccia la parrocchia. Sui campi si svolgevano la maggior parte delle cacce, a volte in due campi nello stesso giorno, più di frequente su quelli di S. Maria Formosa, S. Polo, S. Margherita, S. Stefano, S. Giovanni di Bragora, S. Giacomo dall’Orio, S. Giacomo di Rialto, S. Barnaba, S. Agnese e S. Geremia, oltre all’arzere di S. Nicolò e alle corti grandi della Giudecca. Alcuni campi erano esplicitamente vietati alle cacce, come recitava una lapide posta nella corte di San Rocco: “In questa corte siano prohibite le caccie dei torri giusto al Decreto dell’eccelso Consiglio di Dieci de dì 18 febraro 1709”. La lapide è riportata nella raccolta di iscrizioni veneziane di Emanuele Antonio Cigogna del 1830, quasi trent’anni dopo la fine delle cacce, ed è lo spunto per un breve ricordo delle tauromachie veneziane.
Come organizzare una caccia
Il cortesan che voleva organizzare una caccia si rivolgeva innanzitutto al parroco competente per territorio, per verificare che la data non fosse in conflitto con feste religiose. Il periodo andava dal primo giorno di carnevale fino all’ultima domenica prima di martedì grasso, di solito nei giorni feriali, eccetto il venerdì, giorno di macellazione, Si chiedeva quindi la licenza, non sempre concessa, del Consiglio dei Dieci, organo di governo della Repubblica, pagando una somma, a titolo di tassa, di cauzione per eventuali danni causati e, casomai, di bustarella. Ottenuti i permessi, una ventina di giorni prima della caccia gli organizzatori fissavano un cavo attraverso il campo prescelto e vi sospendevano l’insegna dello spettacolo, il festone, un grande pallone o una decorazione di cerchi metallici, intersecati e decorati con cordelle di cotone rosso e bianco avvolte a spira. Dai cerchi pendevano catenelle di “oro canterino”, così detto perché tintinnava al vento. Il luccichio e il tintinnio attiravano lo sguardo dei passanti in alto, sul festone, dove potevano leggere data e luogo della caccia, scritti a caratteri cubitali su dei cartigli. L’annuncio della caccia, con l’esposizione del festone, scatenava manifestazioni di gioia. Quindi le famiglie benestanti invitavano gli amici e quelle meno abbienti affittavano posti sui balconi, anche soppalcandoli con un rialzo provvisorio, il pagiol. Nelle feste grandi c’erano trombe e percussioni e i balconi erano addobbati con tappezzerie, pavesi, tappeti e bandiere. Alle case erano esposti i ritratti dei migliori tiratori del presente e del passato, rappresentati con la fune in mano e il cane da un lato. Si montavano baracche per la vendita di castagne e ciambelle, per friggere le tradizionali fritole, e per spettacoli di burattini.
Svolgimento della caccia
Le cacce iniziavano alle 22:00 dell’epoca, cioè due ore prima del buio, e continuavano fino alle 24:00. La mattina i tori erano portati in barca sul luogo della lotta e condotti al laccio dai tiratori per un giro dell’arena. A volte, per farli diventare “indemoniati”, si legavano petardi alle loro corna, che però potevano “congelare” l’animale, che si immobilizzava e non rispondeva più agli stimoli. Seguiva il primo lancio o molada o salto del bovino, contro il quale erano sciolti i cani, uno dopo l’altro, uno per toro. All’inizio il cane era aizzato tenendolo al laccio a due metri, poi lo si lanciava all’attacco, ma di rado riusciva a mordere l’orecchio al primo assalto, perché il toro si difendeva con le corna, o cercava di sbalzare il mastino con un colpo di collo, o cercava la fuga.
I tiratori allentavano le corde dando lazo ai cai, consentendo al toro molao di muoversi e caricare. La loro abilità consisteva nel manovrare il toro con le corde, facendolo girare a loro piacimento o cadere in ginocchio. La caduta del toro si otteneva con un violento strattone alla corda, dato al momento giusto, quando il toro era in salto o aveva le zampe anteriori sospese. Se però lo strappo era dato al momento sbagliato, era il tirador a cadere, tra lo scherno dei presenti. Dopo tre o quattro molae di corda, il toro era ritirato dall’arena (andar zo de la festa) ed era portato sotto le finestre delle noviza, moglie o fidanzata di uno dei tiratori, alla quale veniva dedicato, con acrobazie ed esibizioni ancora più spericolate. A volte anche la prima molada, fatta con il toro fresco, ancora non ferito alle orecchie, avveniva sotto i balconi della noviza. Se l’animale era in cattive condizioni, per le troppe molae subite, il pubblico chiedeva di abbatterlo sul posto e portarlo via in barca: “in burchio quel toro! In burchio!”.
Cacce “di Stato”
Le cacce in grande stile, tenute in piazza San Marco oppure nel cortile di palazzo Ducale e in campo Sant’Anselmo, erano di solito eventi di Stato per accogliere ospiti illustri della Repubblica o in occasione del carnevale. Queste cacce erano spesso organizzate dalle Compagnie della Calza, gruppi di giovani aristocratici che agivano come impresari di spettacoli.
Il poeta Torquato Tasso visse a Venezia in gioventù e nel 1574 assistette alla caccia in onore di Enrico III di Valois, re di Francia e di Polonia, accompagnando il duca di Ferrara ad omaggiare il giovane sovrano. Forse ispirandosi a quello spettacolo, ricorse nella Gerusalemme liberata (canto III, 32) ad una similitudine per Clorinda, in atto di sottrarsi ai cavalieri cristiani: “Tal gran tauro talor ne l’ampio agone, / se volge il corno a i cani ond’è seguito, / s’arretran essi; e s’a fuggir si pone, / ciascun ritorna a seguitarlo ardito. / Clorinda nel fuggir da tergo oppone / alto lo scudo, e ‘l capo è custodito”. Cioè: il cane fugge dal toro che lo minaccia con le corna, ma poi lo aggira per attaccarlo di nuovo. Nel 1638, l’ambasciatore di Francia offrì una festa per la nascita del futuro Luigi XIV, il re Sole, con regate, cacce di tori, moresche (balli figurati simulanti la guerra) e forze d’Ercole, esercizi ginnici acrobatico-allegorici. Joseph Heintz il Giovane (1600-1678) dipinse la caccia dei tori del 1648 a campo San Polo, esposta al Museo Correr di Venezia. Nel 1668 si ricorda la caccia per il granduca di Toscana, e nel 1709 quella in piazza San Marco per il re di Danimarca.
Nel 1717 rimase famosa una caccia a tori sciolti in campo San Geremia, con l’intervento dell’ambasciatore di Spagna, incisa da Domenico Lovisa (1690-1750), al termine della quale il giovane conte Girolamo Savorgnan aveva decapitato, con un sol colpo dello spadone, due tori d’Ungheria, muniti di enormi corna, caratteristiche della razza. Tra le cacce più famose ci fu quella del 16 febbraio 1740 in piazza San Marco in onore di Federico Cristiano, primogenito del re Augusto III di Polonia, dipinta da Antonio Canal, detto il Canaletto (1697-1768), con 48 tori e altrettanti tiratori esperti, divisi in gruppi di dodici, mascherati all’europea, asiatica, africana e americana, e con oltre 50 “bravi” cani, che giostrarono per tre ore davanti a un pubblico venuto anche dalle città vicine.
Nel 1767, sempre in San Marco, coperta di tavole e sabbia mista ad argilla, ci fu una caccia con 120 tori in onore di Carlo Eugenio, duca di Württemberg, e il 24 gennaio 1782, ancora in piazza San Marco, in uno scenografico anfiteatro ovale appositamente costituito, tra musiche, costumi, fuochi d’artificio e carri allegorici, ci fu la caccia, con 72 tori, per i principi ereditari di Russia, il granduca di Moscovia Pavel PetroviÄ Romanov, futuro zar Paolo I, e la moglie Marija Fëdorovna, in viaggio sotto gli pseudonimi “il conte e la contessa di Severny” (i Conti del Nord). La caccia, a cui si riferisce la descrizione della contessa Orsini di Rosenberg riportata poco sopra, fu disegnata da Grandis e incisa da Baratti, la cui opera è esposta al Museo Correr di Venezia. Anche le Chiovere di San Giobbe a Cannaregio, spianate deputate alla stesura, per mezzo di chiodi, del panno inzuppato da infeltrire, erano usate per una grande caccia annuale, la festa dei Diedi, con cento tori legati, offerti, insieme ad una cena, dalla famiglia di beccai Cavagnis alla famiglia nobile Diedo di San Lorenzo.
Anche Gabriel Bella (1730-1799) dipinse molte scene di vita veneziana, 69 delle quali sono esposte oggi al Museo della Fondazione Querini Stampalia. Tra di esse le cacce alle Chiovere, nel cortile di palazzo Ducale, in campo San Polo, in Santa Maria Formosa e la caccia tra campo San Bartolomeo e il ponte di Rialto, proibita nel 1743, poi sostituita dalla gara delle carriole, nata nel 1751, come disfida tra i netturbini (cariolanti).
Cacce con tori molai
Una caccia particolare con tori molai, cioè sciolti, era organizzata l’ultima domenica di Carnevale nel cortile di palazzo Ducale, dedicata alle damigelle della Dogaressa incoronata, ossia la moglie del Doge quando era incoronata principessa. In queste cacce si iniziava aizzando un cane, che afferrava il toro, poi entravano due beccai, di cui uno staccava il cane e l’altro, afferrato il toro per le corna, gli saltava sul collo, iniziando una giostra di schivate, usando come riparo le vere dei due pozzi che tuttora si trovano nel cortile. In altre corti di Venezia, nelle cacce ai tori molai si usavano botti piene d’acqua come riparo. Nei portici si montavano barriere di funi, attaccate tutte intorno ai pilastri per difendere gli spettatori dai tori, e gradinate, mentre anche la monumentale Scala dei Giganti era gremita di folla. La caccia finiva con il taglio di tre teste, regalate al cavaliere del Doge; la pelle di un toro decapitato andava al maniscalco del Doge e le interiora all’Ospedale della Pietà. Quel giorno, ad ogni carcerato era data una libbra di bue cotto, una minestra di riso e una caraffa di vino. A Venezia, nel 1500 e 1600, le cacce si tenevano anche inseguendo i tori molai nelle calli, per gioco e per fornire carne alle feste di quartiere. Le cacce avvenivano il giovedì grasso e negli ultimi tre giorni di Carnevale, ma gli incidenti e lo spavento provocato dai tori liberi per le strade spinse nel 1743 il Consiglio dei Dieci a vietarle, anche in seguito alla supplica dei Partitanti e dei Bechèri, secondo cui erano diventate “di sfogo alla crudeltà e al libertinaggio di vagabondi e di sfaccendati, di pabulo ai cani, di arrischiato pericolo alla Nobiltà, alle donne, ai fanciulli, ad ognuno degli abitanti”. I supplicanti lamentavano che in quell’anno avevano dovuto consegnare per svago 149 tori più altri 8 per la caccia a palazzo Ducale. A Venezia si svolgevano anche cacce all’orso. Il cronista Marin Sanudo racconta che, nel 1519, a Santa Maria del Giglio, alla presenza dell’ambasciatore francese, accorse tanta folla da far crollare una tribuna. Nel febbraio 1610 ci fu la caccia per la festa della Candelora, incisa da Giacomo Franco e più tardi ripresa da Gabriel Bella. Alla caccia, che celebrava la vittoria di Francesco Morosini a Creta nel 1668, “vi erano tutti gli orsi della città quali rendevano il chiasso et il bagordo molto curioso et dilettevole”. Spesso le cacce agli orsi si tenevano insieme a quelle ai tori, come quelle nel 1574, per Enrico III di Francia, e nel 1688 a Santa Maria Formosa, alla presenza di Ferdinando III, granduca di Toscana. Le cacce all’orso prevedevano adattamenti dovuti alla maggiore pericolosità dell’animale, come l’assenza dei tiratori, l’orso legato a catena corta ad un palo, i cani legati a un guinzaglio lungo e l’intervento dei cavacani per far mollare la presa all’orso, usando bastoni appiattiti in punta, simili a palette.
Altre cacce
In terraferma si usavano cacce con “toretti”, non castrati, molto più pericolosi per i cani, che spesso venivano uccisi, quindi ci si accontentava che afferrassero l’orecchio per essere considerati vincitori. Il toretto, invece, poteva “fare carriera” combattendo in diverse località, compresa Venezia, facendo guadagnare premi in denaro al suo proprietario. Nel gennaio 1783 si tenne in campo San Polo una corrida in stile spagnolo, con due toreri spagnoli presenti in città. Il primo matador fu subito caricato dal toro, si rifugiò sullo steccato che delimitava l’arena, incornato dal toro nelle braghe, tanto da rimanere seminudo, e fu salvato dal pubblico che lo tirò sugli spalti. Il secondo torero riuscì solo a irritare il toro ferendolo al naso, e dovette scappare per sfuggire alla carica. Infine entrò in campo un aspirante torero veneziano, ansioso di fare bella figura davanti al proprio pubblico, ma anziché piantare la spada nel collo del toro, gli affondò l’arma nella natica. Il pubblico uscì dall’arena con il commento dialettale in caso di truffa o raggiro: “Oh che rosto famosissimo!”. Un’altra caccia in stile spagnolo si svolse, con migliore esito, nel 1785 nelle Chiovere a San Giobbe.
I veneziani e i bovini
Il calendario di Venezia era scandito da molte feste, civili, religiose e militari, sempre legate al mare, per il preponderante orientamento della città alla potenza navale. Le cacce dei tori facevano eccezione ma, al contrario delle manifestazioni analoghe di altre città, non nascevano da tensioni tra città e campagna, bensì da rivalità interne alla città, risolte simbolicamente con l’abbattimento del toro. Nonostante il legame con l’entroterra rurale fosse meno saldo che nelle altre città italiane, e nonostante il preponderante consumo di pesce, anche a Venezia si macellavano animali da carne. Sia a fine 1500, sia nell’800 si stima che i bovini abbattuti fossero qualche centinaio al giorno, per la maggior parte provenienti dalla Dalmazia e stabulati in attesa al Lido. Per mancanza di mezzi per la refrigerazione, la macellazione doveva avvenire in città, prima in macelli nella zona di Rialto, poi gli abbattimenti si concentrarono nel mattatoio comunale di San Giobbe. Al contrario che nelle altre città occidentali, a Venezia non ci si spostava a cavallo, dato che calli e ponti stretti e scivolosi potevano far cadere cavalli e cavalieri nei rii e nei canali. Per le stesse ragioni anche i bovini non erano usati per la trazione dei carri. Per questo, a metà del 1600 lo scrittore inglese James Howell lodava la pulizia delle strade veneziane e si meravigliava di poter camminare per la città in calzamaglia di seta senza sporcarsi. La scarsa dimestichezza dei veneziani con i bovini diventava panico quando, sbarcando sul luogo della caccia, i tori cadevano in acqua e fuggivano, o irrompevano in città, ed entravano in contatto con gli abitanti. I passanti cercavano scampo nelle case, nei canali o sulle barche. Il conte di Caylus, archeologo francese, derise i veneziani per la scena a cui aveva assistito, in cui un bovino di un anno, trattenuto da due corde, aveva terrorizzato oltre trenta persone. Lo sbarco dei tori era comunque di per sé uno spettacolo, oltretutto gratuito, anche se da apprezzare da un luogo sicuro.
Poteva accadere che i bovini destinati alle cacce fossero rapiti, abbordando le barche della parrocchia rivale che li trasportavano. A volte le vittime attuavano una rappresaglia, riappropriandosi subito del bestiame. Nel 1664 fu presentata una denuncia al Consiglio dei Dieci secondo cui queste cacce slegale mettevano a rischio l’approvvigionamento di carne in città, oltre a creare insicurezza e malcontento. La rivalità tra i quartieri si manifestava spesso con scorrerie, nelle quali i giovani irrompevano nelle calli della parrocchia vicina, urlando e lanciando sassi contro le persiane chiuse. Per schernire gli abitanti delle parrocchie vicine si usavano anche le cacce dei tori, organizzando i combattimenti al confine con i territori “nemici”, non solo per sfregio, ma anche sperando che qualche toro cercasse la fuga nelle calli dei vicini. Quando i bovini terrorizzati e sanguinanti erano incalzati dai cani e dagli strepiti dei giovani, avevano sul quartiere rivale un effetto dirompente. Il drammaturgo Carlo Gozzi racconta, nel 1780, di simili scorrerie a cui aveva partecipato quarant’anni prima, quando era di stanza a Spalato, in Dalmazia, insieme ad altri commilitoni annoiati. I giovani avevano compiuto una scorribanda notturna per le vie della città, bussando alle porte e lanciando grida agghiaccianti, e avevano tirato fuori dalle stalle 50 cavalli per farli galoppare per la città, spingendo gli abitanti ad affacciarsi terrorizzati, temendo un’incursione turca.
Andrea Gaddini
Bibliografia
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