Origine della razza
La nascita della razza è fatta risalire al 1600, quando gli allevatori romagnoli iniziarono a sostituire i bovini da lavoro pezzati rossi e fromentini locali con quelli grigi di ceppo podolico, pugliesi e maremmani, provenienti soprattutto dal Ferrarese. La resistenza del bestiame da lavoro podolico emiliano era nota. Nel 1681 Giacomo Agostinetti consigliava agli agricoltori veneti di impiegare i buoi “ferraresi”, migliori di quelli locali e più resistenti al caldo durante l’aratura, anche se più costosi, mentre nel 1688 Fabio Allegri descriveva le vacche “pugliesi” che vivevano nella macchia, nei pressi della costa ferrarese, “dove stanno, come selvaggie giorno e notte, sempre alla foresta e sempre esposte all’ingiurie dei caldi e dei freddi”, richiedendo solo poche integrazioni di fieno. La sostituzione completa del vecchio bestiame con quello podolico risale probabilmente a inizio Ottocento. L’agronomo reggiano Filippo Re, nel 1805, lodava, tra gli altri, i buoi “bolognesi”, come erano anche chiamati i romagnoli, vista la loro ampia diffusione nella pianura felsinea. Nel 1846 l’agronomo tedesco August von Weckherlin descriveva la razza bolognese “preziosa pei suoi grandi bovi, eccellenti nel tiro e per l’ingrassamento”. Tra il 1850 e il 1880, in Romagna e nelle regioni circostanti si diffusero tori chianini e loro incroci con maremmana, marchigiana e pugliese, detti “cornetti”, che inizialmente ebbero grande successo sui mercati, soprattutto per il basso prezzo, ma che poi si rivelarono poco adatti all’ambiente perché non abbastanza rustici, e furono quindi abbandonati. Luigi Biffi scriveva nel 1880 “alcuni tentarono di incrociare le bovine bolognesi con tori della Val di Chiana, ma essendosi ciò fatto in ristrettissime proporzioni non si formò un’altra vera sotto razza da prendere in esame”. Per ricostituire il tipo romagnolo podolico originario, a partire dal 1874 furono importate dal Polesine “le più belle sopranne”, oltre a riproduttori di razza Reggiana (Bettini). Ancora Biffi scriveva “la razza impropriamente detta romagnola deriva dalla antica razza podolica, riprodotta dall’accoppiamento delle vacche bolognesi con tori del Polesine”. Il bestiame romagnolo fu quindi sottoposto ad un’intensa opera di miglioramento, a partire dal vecchio “bue-cavallo”, animale da lavoro disarmonico e con arti troppo lunghi, e si differenziò progressivamente dal Pugliese del Veneto e dal Marchigiano, più influenzato dal Chianino. Dalla montagna ed alta collina, dove si allevava la varietà “montanara” o “biracco” (Calzolari), molto simile alla Maremmana, e presente fino ai primi anni ‘60, il bestiame variava gradualmente fino alla pianura, dove dominava il tipo “gentile”, meno rustico, seppure molto resistente, e con grande potenza motrice e capacità di ingrassamento. Nella pianura bolognese questi animali, molto potenti, soddisfacevano le esigenze dell’agricoltura della zona, orientata su colture industriali da rinnovo (canapa, barbabietola, tabacco), che richiedevano arature profonde, eseguite da pariglie di 6-7 e anche 8 buoi. La selezione ebbe inizialmente maggiore cura e migliori risultati nel Riminese e nel Cesenate e, in misura minore, nel Forlivese e nell’Imolese, mentre nel Ravennate l’attenzione era più che altro concentrata alla bonifica idraulica. Il risultato finale fu un bovino con equilibrio tra le due attitudini, carne e lavoro, con ottime caratteristiche di accrescimento e produzione di carne. Alla mostra di Firenze del 1904 un gruppo di romagnoli diede una resa del 65,3% (Bettini). Anche nelle zone collinari e montuose si ebbe un miglioramento: Moroni, nel 1913, notava che la mole degli animali era notevolmente aumentata e che entrando in una vecchia stalla si osservava quasi sempre che le poste erano troppo corte, tanto da far commentare agli allevatori che “una volta non usavano buoi grandi come ora”.
Nel Forlivese e nel Faentino gli animali da lavoro a fine carriera erano ingrassati per 50-80 giorni per ottenere i cosiddetti buoi pasquali, apprezzatissimi sul mercato di Milano dove contendevano clienti ai bovini piemontesi. I buoi romagnoli sfruttavano la caratteristica di ingrassare rapidamente dopo l’inverno passato in condizioni critiche di alimentazione, anche in età avanzata, ed esausti dal lavoro prestato, trasformando la razione, spesso povera in una resa al macello non trascurabile (Farina). A partire dal 1896 la razza si diffuse ampiamente anche nel Ferrarese (Bonfiglioli), dove servivano animali rustici, robusti e di grossa taglia per le difficili condizioni ambientali delle terre bonificate, dando anche un reddito aggiuntivo soddisfacente con la produzione di carne. Il latte prodotto era destinato all’alimentazione dei vitelli, ma in alcuni allevamenti le vacche davano un reddito aggiuntivo, fornendo il latte per produrre lo squacquerone, il noto formaggio romagnolo a pasta molle (Sbrozzi, 1924).
Esportazione di capi da macello
Dopo la rovinosa sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870-71 la Francia rimase sprovvista di risorse e soprattutto di animali da carne. Questo generò una forte richiesta di animali da macello dagli altri paesi, coperta in modo significativo dalle stalle italiane e in misura rilevante da quelle romagnole. Si verificò quindi una grave perturbazione dei mercati del nostro Paese, sulla quale lo Stato non intervenne, ritenendo che eventuali provvedimenti fossero contrari al principio del libero scambio. Il forte rincaro degli animali da macello generò un marcato calo del consumo interno, che non riprese se non dopo alcuni anni, finita la crisi. La Romagnola si diffuse come animale da macello in Francia, grazie anche all’inaugurazione nel 1871 del tunnel del Frejus, che aveva aperto i traffici di molte merci tra Italia e Francia. I tori e le vacche di razza Romagnola erano inclusi tra quelli studiati al macello di Lione nel 1876 da Cornevin, per i quali rilevava buoni pesi alla macellazione. Per Bartolucci, la “fuga del bestiame” verso la Francia, dal 1870 al 1889, aveva spinto gli agricoltori romagnoli, allettati dagli improvvisi alti guadagni, a trascurare le cure dell’allevamento “per preparare i bovini per la fiera o per il mercato”. I bovini presenti allora erano risultanti dall’incrocio e successivo meticciamento dei cornetti marchigiani, di taglia notevole, chiari, a corna grosse e corte, prodotti dall’unione della razza Chianina con podolici locali, con i romagnoli originari, di piccola taglia, con mantello grigio scuro e a corna lunghe. Moreschi racconta il boom del commercio di bestiame romagnolo da macello: “Per un decennio, cioè dal 1870 al 1880, gli agricoltori delle Romagne, come quelli dell’Emilia tutta, si videro chiedere con insistenza i prodotti delle loro stalle dagli incettatori forestieri, che li pagavano in modo davvero soddisfacente”. Seguì però una stasi: “Più tardi, peraltro, scomparso l’aggio o scemato notevolmente e resi più gravosi i dazi di confine, il commercio di esportazione, specialmente verso la Francia, si arrestò, e gli agricoltori se ne lagnarono”. Bartolucci racconta: “L’esportazione si arrestò di un tratto, e i prezzi del bestiame diminuirono più della metà, dando così un colpo tremendo a tutta l’industria zootecnica romagnola”. All’inizio del ventesimo secolo, l’accresciuto benessere determinò poi un nuovo incremento della domanda interna di carne, con conseguente aumento anche dei prezzi del bestiame. Bennicelli scriveva nel 1914: “mentre alcuni anni fa si poteva acquistare un torello di un anno con seicento lire, adesso ne occorrono più di mille”.
Esportazione di riproduttori
Il periodo di prezzi alti e forte domanda spinse gli allevatori più evoluti ad un ulteriore miglioramento della genetica e dell’organizzazione aziendale, in particolare del razionamento. Una spinta decisiva per il progresso partì dalla grande tenuta (quasi duemila ettari) di Torre San Mauro dei principi Torlonia, a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli), condotta a partire dal 1876 dall’affittuario, l’ing. Leopoldo Tosi. L’azienda era stata amministrata da Ruggero Pascoli, dal 1862 fino al 1867, quando fu assassinato mentre tornava a casa in calesse, come ricordato dal figlio Giovanni nella poesia “La cavalla storna”. Secondo Motti il principio ispiratore di Tosi era “allevare molto e scartare molto”, potendo lavorare su un patrimonio medio aziendale di oltre mille capi bovini. L’accuratezza delle tecniche di allevamento permise al personale dell’azienda di San Mauro di vincere il primo premio della Società protettrice degli animali, nel quadro del Concorso Nazionale di Torino, indetto dalla Società Zootecnica dal 19 al 24 maggio 1900. Tra le altre aziende produttrici di tori molto ricercati c’erano quelle dei fratelli Cacciaguerra, delle Congregazioni di Carità di Cesena e di Rimini, dei fratelli Guerrini, di Focaccia a Gambellara, dove nacque Medoro, uno dei tori più famosi della razza. Oltre alla forte richiesta di animali da macello, crebbe la richiesta di riproduttori romagnoli, anche da regioni lontane. In Russia l’allevatore Konstantin Brodskij, maresciallo della nobiltà per la provincia di Ekaterinoslav (poi Dnipropetrovs’k, oggi Dnipro, in Ucraina), conobbe nel 1886 la razza Romagnola da una rivista torinese di zootecnia, sbarcò a Ravenna, per recarsi all’azienda Torlonia di Torre San Mauro, dove osservò il bestiame e l’organizzazione aziendale. Brodskij acquistò un toro per la sua azienda e successivamente mandò il suo segretario Babushkin per comprare due torelli, due vacche e due vitelli. Il nobile russo raccontò che uno scheletro di bovino romagnolo era esposto presso un museo di Pietrogrado (oggi San Pietroburgo). La Romagnola fu introdotta anche in Libia, in Cirenaica, nel periodo della colonizzazione italiana, a fianco della Modicana e della Sarda, anche per incroci sulle razze locali (Piani). Nel 1900, nell’azienda di Torre San Mauro fu istituito il libro genealogico dei bovini dell’azienda; nel 1906 si costituì il “Primo Sindacato di allevatori della razza bovina Romagnola”, e nel 1921 fu istituito un mercato concorso annuale.
Nel giugno del 1900 furono inviati 20 capi a Parigi, al bois de Vincennes, per partecipare al Concorso universale dei bovini riproduttori, nel quadro dell’Esposizione Universale. I bovini romagnoli vinsero due grandi medaglie d’oro di campionato, due medaglie d’oro (1o premio) e sei medaglie di bronzo.
Hector George, dopo l’Esposizione di Parigi, descrisse la Romagnola come la più definita tra le razze italiane, molto simile alla Grigia ungherese, sebbene più bassa e compatta, mentre le altre sarebbero state più che altro delle popolazioni meticce. George giudicò il treno posteriore della Romagnola molto più simile al tipo giurassico dell’Europa centrale, che non a quello asiatico, corrispondente all’attuale podolico, come testimoniato dalla stampa allegata al suo articolo.
Miglioratrice delle altre podoliche
Il successo della Romagnola la rese la scelta preferenziale per il miglioramento delle altre razze podoliche: se nel 1885 dalla Romagna partirono solo 14 torelli, nel 1895 divennero 151, per salire a 185 nel 1899 e a 390 nel 1926 (Sbrozzi, 1948). Già nel 1899 Sbrozzi raccontava che “molto sangue romagnolo è specialmente andato a migliorare le vicine Marche ed imprimere dei pregi maggiori ai bovini del Ferrarese, del Polesine, del Padovano”. Nel 1914, per Bennicelli, “il toro romagnolo (…) si è imposto come animale miglioratore delle razze bovine che con esso hanno somiglianza di forme ed una certa uniformità di ambiente. Ne è prova indiscutibile la forte esportazione che viene fatta sia all’interno che all’estero, esportazione che cresce ogni anno, facendo realizzare buoni guadagni agli allevatori”. Nel 1923 Stazi scriveva: “Bisogna considerare l’importanza di questa razza non soltanto per la speciale attitudine alla carne e al lavoro, ma anche in vista dell’impiego che si può fare di essa come razza incrociante, per migliorare i bovini di tipo podolico meno redditizi”. In effetti la Romagnola fu usata come incrociante sulla Pugliese del Veneto, razza del Polesine e della bassa Padovana, oggi estinta. Per la produzione di carne i pugliesi del Veneto erano incrociati con i romagnoli (Bettini). Tori romagnoli intervennero anche in incroci su podoliche del centro-sud, nella tenuta del principe Boncompagni Ludovisi a Procoio Vecchio, sulla via Tiberina, presso Roma, e del conte Valentino Orsolini Cencelli a Magliano Sabina (Roma), nelle tenute Torlonia del Fucino e di Gubbio, in allevamenti del barone Barracco in Calabria e a Cerignola, presso la locale Scuola Pratica.
La Romagnola, insieme alla Pugliese del Veneto, fu impiegata per il miglioramento della razza Istriana, di ceppo podolico, già sotto l’amministrazione austro-ungarica, a partire dall’inizio dell’Ottocento, e di nuovo dal 1905, con buoni risultati sulla produttività e la fecondità. Quando l’Istria passo all’Italia, gli incroci proseguirono, furono promosse le prime associazioni di allevatori e iniziarono incroci anche con tori maremmani. Gli incroci furono condotti in modo non appropriato e i bovini incrociati risultarono meno adatti al lavoro in quanto avevano unghioni più teneri, non adatti ai terreni dell’Istria; quindi al congresso zootecnico di Padova del 1931 si decise di sospendere gli incroci e di selezionare gli animali più aderenti al tipo istriano primitivo, aprendo anche stazioni di monta. Sirri e Marani, nel 1930, sottolineavano come “non sempre le regioni che importarono dei torelli romagnoli per migliorare i bovini locali seppero metterli nelle condizioni necessarie per ottenere i migliori risultati. È evidente che non basta migliorare il tipo bovino di una zona; per creare un notevole aumento di reddito occorre soprattutto migliorare il sistema di allevamento”. Cugnini, nel 1931, scriveva: “La Romagnola è un ottimo elemento di progresso per numerose popolazioni podoliche, ma non deve essere introdotta in località in cui il bestiame vive tra privazioni e deve quindi essere munito di grande rusticità”. Altra razza podolica insanguata dalla Romagnola fu la rumena Sura de Stepa, per riconvertirne l’attitudine prevalente al lavoro, migliorando la produzione di carne. Nel 1934 lo zootecnico Filippo Usuelli (1900-1973) riferiva che gli incroci di sostituzione, che avvenivano in tutti i Balcani, erano seguiti con particolare cura in Romania, dove si era recato per seguire l’acclimatamento della razza Romagnola gentile, in un paese dal clima nettamente più freddo di quello italiano, con punte di –40° in inverno. Telesforo Bonadonna, nel 1950 e nel 1967, riferiva che la varietà Moldava della razza era stata insanguata dalla Romagnola, che, dopo confronti con Charolaise e Simmental, era risultata migliore, tanto da essere l’unica razza da carne impiegata negli incroci. Per lo zootecnico ungherese Pal Hönsch, la varietà Transilvaneana (grigia o bianca di Transilvania) della Sura de Stepa era più simile alla Romagnola che alla Grigia ungherese, sebbene la zona di allevamento di quest’ultima fosse molto più vicina, oltre ad essere stata territorio ungherese fino al 1918. Gli scambi tra Italia e Romania per molti anni sono stati intensi, con forti importazioni di bovini rumeni nel nostro paese. Alla fine dell’Ottocento l’Italia era la principale destinazione dei bovini vivi rumeni, superando in diversi anni l’80% (Filip), grazie anche alla buona qualità (Stazi). Nel 1967, una delegazione italiana guidata dal ministro dell’Agricoltura e Foreste Franco Restivo si recò in visita in URSS e a Charkhiv (oggi in Ucraina) i sovietici manifestarono interesse per le razze Romagnola e Chianina, per migliorare la Grigia della Steppa locale (Bonadonna). Per Magliano e Gobetto (1961) la Romagnola era diffusa in Ungheria e Russia, mentre a partire dagli anni ‘70 riproduttori romagnoli o materiale seminale sono stati introdotti in Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Argentina, Messico, Colombia, Nicaragua, Kenia e Sud Africa (Ridolfi).
Come per altre Podoliche europee, le consistenze sono oggi molto ridotte rispetto a quelle dell’epoca del lavoro animale: al 31 dicembre 2017 il libro genealogico della Romagnola contava 12.150 capi e 369 allevamenti; circa due terzi del totale si trovavano in Romagna. Nel 1911, invece, la razza contava 163.796 capi nelle province di Ravenna e Forlì e 152.414 in quella di Bologna, compresi i soggetti montanari (maremmani) e le vacche adibite alla produzione del latte (Pucci). Nel 1941 Albertario censiva 573.768 capi e, dopo il calo a 80.000 nel 1945, a fine guerra (Sbrozzi, 1948), Hönsch ne riportava 560.400, riferiti al 1960, con dato riportato dagli Ispettorati Provinciali dell’Agricoltura, che salivano a 774.100 contando anche i meticci (dato del 1962 del Ministero dell’Agricoltura e Foreste).
Andrea Gaddini
Ringraziamenti
L’autore ringrazia per la disponibilità e la competenza la Biblioteca Comunale “Aurelio Saffi” di Forlì, la Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza e la Biblioteca Storica Nazionale dell’Agricoltura di Roma.
Bibliografia
Per abbonarti a una nostra Rivista o acquistare la copia di un Annuario