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La mortadella di fegato

di Villa R.

Le origini ed il metodo di produzione

Il fegato di maiale è una frattaglia che, al pari della carne fresca, andava e va tuttora consumata in breve tempo. Tuttavia, l’arte salumiera nazionale ha sviluppato dei metodi per poterla conservare più a lungo. Nota in Lombardia come mortadella de fidigh o come fidighèlla nel confinante Canton Ticino, esiste in numerose varianti: quella più tipica, che una volta non poteva mancare nelle botteghe dei migliori cervellee (macellai) di Milano e dintorni, è un insaccato crudo legato a forma di ferro di cavallo, da far bollire lentamente in pentola, degustandola infine alternativamente con lenticchie, purea di patate, polenta, verze cotte o mostarda che ne esaltino l’inconfondibile sapore amarognolo. Ma ugualmente diffusa è la versione venduta già cotta, magari con l’aggiunta di vin brulé, grappa o Amaretto di Saronno, secondo la ricetta dei vecchi norcini. Zone di produzione tradizionali sono l’alta pianura lombarda, in particolare la Brianza ed il varesotto, e parte del territorio novarese-vercellese in Piemonte (fidighin).


Mortadella di fegato artigianale.

L’ingrediente principale dell’impasto è rappresentato dal fegato di maiale (normalmente tra il 15% ed il 25% in peso ma si può arrivare anche al 50%), al quale si affiancano pancetta o gola suine, triti di banco, cotenna (non sempre utilizzata), oltre al sale e ad una buona dose di spezie (noce moscata, macis, cannella, chiodi di garofano) e di “aromatizzanti alcolici” come quelli già citati. In provincia di Varese e nella Svizzera italiana è comune impiegare anche una parte di carne di vitello. Il semilavorato è insaccato in un budello naturale, suino o bovino, per raggiungere un peso fresco variabile tra i 300 g ed i 2,5 kg. Maggiore è la percentuale di fegato più piccante risulta il prodotto alla degustazione. Nella versione da cuocere, la mortadella di fegato può essere conservata per 1/2 mesi prima di essere consumata; nella versione cotta, dopo l’insacco si procede invece all’immediata cottura, che può avvenire in acqua oppure a vapore. La Regione Lombardia include la “mortadella di fegato al vin brulé” nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali, ovvero quegli alimenti che rispondono ai criteri di tradizionalità stabiliti dall’articolo 1 del DM 350/98, ed in particolare le metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura che sono consolidate nel tempo (minimo 25 anni) e praticate in modo omogeneo e secondo regole tradizionali. Anche la Regione Piemonte ha inserito la mortadella di fegato nell’elenco dei propri prodotti agroalimentari tradizionali. Essa viene realizzata — sia nella versione cotta sia in quella stagionata da consumare cruda — nelle province di Novara e di Vercelli, in particolare nelle zone collinari della bassa Valsesia e intorno al lago d’Orta. In Piemonte è tradizione conservarle a lungo sotto strutto all’interno di recipienti di vetro o terracotta (duje) e sono consumate come ingrediente della “panissa” o “paniscia” (piatto tipico del vercellese). In Val d’Ossola ed in Val Vigezzo se ne produce artigianalmente una versione differente, con meno fegato (5-10%). Slow Food di Varese sta seguendo il percorso per poterla inserire tra i propri presìdi a livello nazionale, anche se la mortadella di fegato è ancora ben radicata nella cultura alimentare della zona di origine e non sembra destinata ad estinguersi.

I produttori

Il vasto areale di produzione comprende numerosi salumifici che hanno nella propria gamma la mortadella di fegato. Tra quelli a carattere industriale siti in Lombardia ci sono Fumagalli Industria Alimentari di Tavernerio (CO), Salumificio Monti e Zerbi di Vertemate con Minoprio (CO), Salumificio Ceriani di Uboldo (VA), Salumificio Venegoni di Boffalora Ticino (MI), mentre moltissimi sono i produttori di piccole dimensioni — Salumificio Beretta Vittorio di Missaglia (LC), Salumificio Butti di Valmadrera (LC), Salumificio Minoli di Gallarate (VA), Salumificio Bustese di Busto Arsizio (VA), Antico Salumificio Visconti di Gemonio (VA), Salumificio Giuseppe Cantù di Somma Lombardo (VA) — e le salumerie artigianali che la realizzano, tra le quali l’azienda agrituristica Pian du Lares di Armio in Val Veddasca (VA). In Piemonte è prodotta tra gli altri da Salumificio Mainelli Romano di Oleggio (NO), Salumificio Italimentari di Carpignano Sesia (NO), Salumificio Zoppis e Giromini di Gattico (NO), Portalupi Salumi di Guardabosone (VC).

Salumi a base di fegato nel resto d’Italia

Anche nel centro dell’Italia vengono prodotti salumi a base di fegato di maiale. Tra quelli più noti il mazzafegato dell’Alta Valle del Tevere, al confine tra Umbria e Toscana. È una salsiccia fatta con triti di banco macinati grossolanamente e con percentuali minori di fegato (che tuttavia può raggiungere il 25%) e di cotenne, cui vengono aggiunti sale, pepe, piccole quantità di aglio, scorza di limone e/o arancio e soprattutto fiori di finocchio. L’impasto viene poi fatto riposare e insaccato nel budello naturale torto di suino. La legatura avviene manualmente, con lo spago: si formano piccole salsicce di 10 centimetri di lunghezza e circa 3 di diametro, che sono poi lasciate asciugare per circa 7-10 giorni dopo di che sono pronte per il consumo. La tradizione prevede la cottura alla brace, accompagnandole con erbe di campo cotte e saltate. Per evitare che il prodotto venisse abbandonato Slow Food dell’Umbria ha deciso di creare un presidio, che ora coinvolge sette piccoli produttori nella zona di Città di Castello e di Umbertide. A Fabriano, in provincia di Ancona, si produce un’altra versione di mazzafegato. Denominato anche “salsiccia matta”, è un salume ottenuto con le parti meno nobili del maiale (testa, coda, cartilagini, lingua, fegato ed altre interiora). I tagli vengono tritati e conciati con sale, pepe, aglio, spezie — eventualmente anche scorza di arancia o di limone grattugiata — impastati e poi il tutto viene insaccato in budelli naturali. Dopo l’insacco, il mazzafegato viene fatto asciugare e stagionato per alcuni mesi. Il nome del mazzafegato deriva dal fatto che si tratta di cibo robusto non idoneo a stomaci delicati (“ammazzafegato”) o più probabilmente alla storpiatura di mezzofegato che indica la percentuale originaria di fegato di suino nell’impasto, che prevedeva anche rognone e polmone.

Roberto Villa



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