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Vola l’export agroalimentare italiano: in dieci anni è aumentato del 70%

of Mossini A.


In soli 10 anni l’export agroalimentare italiano è aumentato del 70%, a fronte di consumi interni rimasti sostanzialmente stazionari, raggiungendo in valore, nel 2022, quasi 60 miliardi di euro (+17,7% rispetto al 2021). Ciononostante, il saldo della bilancia commerciale nel nostro Paese, sempre nel corso dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle, ha chiuso a –1,4 miliardi di euro, perché la fiammata dei prezzi registrata soprattutto per effetto della guerra in Ucraina ha favorito gli esportatori di commodities agricole e penalizzato i Paesi trasformatori come l’Italia. Se ne è parlato alla settima edizione di Agrifood Monitor (6 marzo, “Commodities e food & beverage. La filiera agroalimentare alla prova delle tensioni su materie prime agricole, energia, acqua”), l’annuale appuntamento organizzato da Nomisma dove, come consuetudine, è stato fatto il punto sull’andamento del comparto agroalimentare nazionale alla luce delle tante dinamiche internazionali che vi gravitano intorno.
Le materie prime e soprattutto il loro approvvigionamento sono state al centro dell’intervento di Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare Nomisma, che ha sottolineato le preoccupazioni, fondate, sorte con l’esplosione del conflitto ucraino che ha messo in evidenza quanto l’Europa, e ovviamente anche il nostro Paese, sia “scoperta” anche sul fronte energetico e idrico. «Ecco allora spiegato il motivo per cui Paesi come il Brasile — ha scandito Pantini — grande produttore di cereali, ha registrato un incremento del valore dell’export di questi prodotti pari a +224% rispetto al 2021, a cui si aggiunge un +103% per gli oli vegetali, un +48% per la carne e via via di diversi altri prodotti, con una quota del 34% sulla produzione agroalimentare complessiva brasiliana destinata alla Cina».

Il deficit italiano dei cereali
Intanto, dopo l’impennata registrata lo scorso anno, i prezzi delle commodities agricole sui mercati internazionali si stanno ridimensionando anche se non hanno raggiunto, e forse non li raggiungeranno più, i valori pre-pandemia. «È la quiete che arriva dopo la tempesta?» si è chiesto Denis Pantini, prima di analizzare i dati elaborati da Nomisma. «Secondo la FAO — ha osservato — in Ucraina le superfici seminate a cereali invernali con raccolto nel 2023 risultano inferiori del 40% rispetto alla media 2017-2021; per il mais, nello stesso quinquennio preso a riferimento, la produzione era arrivata a 34 milioni di tonnellate mentre per quest’anno si prospetta una cifra di circa 21 milioni di tonnellate.
Anche in Argentina, che assieme all’Ucraina incide sull’export mondiale di mais per il 35%, a causa della grave siccità si prevede una sensibile riduzione della produzione e dell’export, compensate a livello globale dalla crescita del Brasile che nel 2022 è diventato il primo esportatore di mais insieme agli Stati Uniti.
E l’Italia? Nel 2022 la produzione di mais è risultata la più bassa degli ultimi dieci anni: con un 24% in meno rispetto alla media 2017-2019 e un –50% rispetto al picco del 2014. Ma per il nostro Paese non è solamente una questione di mais». L’Italia è infatti fortemente deficitaria di cereali, soia e oli vegetali e, nel corso del decennio che va dal 2011 al 2021, l’import a volume di queste commodities ha toccato valori davvero elevati, come per i cereali a +50% e i semi oleosi a +61%, a cui si contrappongono valori più contenuti per gli oli vegetali (+23%), mentre le carni e addirittura il latte e i derivati hanno fortemente ridotto l’import rispettivamente per il –4% e il –40%.

Un futuro di incertezze
Cosa attenderci per il 2023? Secondo l’analisi di Pantini, a parte il settore avicolo, quello frutticolo e vinicolo, tutte le altre filiere agroalimentari registreranno una minor produzione rispetto al fabbisogno, «e non perché i volumi diminuiranno — ha sottolineato — ma perché l’export ha registrato una crescita molto significativa. Nel lattiero-caseario stiamo raggiungendo l’autosufficienza, ma dovremo comunque fare i conti con la volatilità del mercato e la debolezza del nostro sistema produttivo chiamato ad impegnarsi per raggiungere la neutralità climatica imposta dall’Europa che, per quanto necessaria, comporta sacrifici non indifferenti. Va ricordato infatti che al 2030 dovrà essere raggiunto il target di una produzione agricola proveniente dal 25% di superficie totale Sau (Superficie Agricola Utile, NdR) biologica, a cui aggiungere la contrazione dell’uso dei fertilizzati (–20%) e quella dei fitofarmaci (–50%).
Ultimo obiettivo richiesto dalla UE, ma non certo per importanza, la riduzione degli antimicrobici in zootecnia: –50%. Tutto questo — è stata la chiosa di Pantini — è destinato a produrre un peggioramento del saldo della bilancia commerciale italiana e se l’ottima performance dell’export non può che essere letta come un evento molto positivo, non dimentichiamo che per mantenere queste quote destinate a superare i confini nazionali occorre purtroppo importare materie prime dall’estero alla luce della nostra situazione deficitaria».
Un quadro di luci e ombre in cui il tema della transizione ecologica si è inserito inevitabilmente con l’intervento di Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, il quale ha introdotto il suo intervento con un’affermazione dai toni rassicuranti: «il peggio è passato. Dopo un anno che per tutti, sotto il profilo dei costi energetici, si è rivelato drammatico, il nostro Paese ha dimostrato una forte resilienza. Ricordiamoci infatti che ad agosto 2022 il gas costava oltre 300 e/MWH, una cifra mai raggiunta in passato che fortunatamente nei mesi successivi si è sgonfiata ma che non è ancora arrivata a quella media di 20 e/MHW che invece dovrebbe rappresentare la normalità.
Occorre allora fare tesoro dell’esperienza per difendersi con una strategia capace di riprendere le politiche che da sempre si basano su tre pilastri: l’ambiente, la competitività e la sicurezza.
Riguardo la prima, dobbiamo essere consapevoli che le emissioni salgono a livello globale e in un modo o nell’altro ci mettono in trappola; rispetto alla competitività l’esplosione dei prezzi, in Europa, ha evidenziato i rischi che corrono la nostra economia e la nostra società infine, sulla sicurezza abbiamo capito fin troppo bene che l’Europa è troppo dipendente dalle autocrazie dei fossili che le nostre spese, peraltro, contribuiscono a rafforzare.
Quindi — ha concluso Tabarelli —, pur vivendo in un quadro che oggi è meno drammatico di pochi mesi fa, dobbiamo ricordare che dalla crisi non siamo ancora usciti perché i trend sono immodificabili, le politiche europee di decarbonizzazione sono irrealistiche, le emissioni mondiali di CO2 continueranno a salire, l’Italia e l’Europa versano in una endemica deindustrializzazione.
Per questo, il richiamo è a una politica più attenta alla dinamica dei prezzi e alla sicurezza, consapevoli che oggi per la produzione di energia serve tutto: anche le rinnovabili dall’agricoltura».

Acqua: bene prezioso e insostituibile
Infine l’acqua, che ha visto l’intervento di Marco Marcatili, responsabile Sviluppo Nomisma, secondo il quale la crisi idrica dettata dalla siccità che il nostro Paese, ma anche una parte del mondo, stanno vivendo, va contrastata con un sistema di misure di tariffazione che vanno incentivate, potenziando gli interventi di mitigazione e adattamento e promuovendo un approccio integrato tra gli attori coinvolti. «Il 55% della domanda idrica nel nostro Paese arriva dall’agricoltura e inevitabilmente determina il tipo di agricoltura che si può praticare. Oggi ci troviamo di fronte ad uno scenario in cui le precipitazioni sono spesso estreme e caratterizzate da un’ampia variabilità. È per questo che attorno all’acqua si sta creando un’agenda pubblica che pone al primo posto la necessità di creare infrastrutture adeguate: pensiamo solo al Po che attualmente è a –57% della sua portata media.
Serve un Piano operativo con un approccio sistemico tra tutti gli attori della filiera. Secondo un nostro studio è stato calcolato che la diminuzione di quantità di acqua erogata in Emilia-Romagna porterebbe ad una perdita di 303,6 milioni di e/anno, con un ammanco di manodopera a contratto valutabile in 8,8 milioni di euro, il tutto pari al 12,8% della Plv delle produzioni vegetali della regione».


Anna Mossini



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