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Promozione e innovazione sono i driver nel futuro della carne bovina italiana

of Mossini A.


Dove va l’allevamento di bovini da carne in Italia? Quali sfide deve affrontare? Qual è il futuro di un comparto additato dai suoi detrattori come la principale fonte di inquinamento ambientale? Come dovrà difendersi dall’avanzata di produzioni alternative che puntano a minare la sua sopravvivenza? A queste domande ha cercato di rispondere la Giornata di studio organizzata dall’Associazione Ricercatori Nazionale Nutrizione Alimenti (ARNA), svoltasi il 31 marzo scorso presso il Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Bologna (Dimevet).
Ricco e particolarmente interessante il programma dell’incontro, che ha potuto contare sulla partecipazione di esperti del settore, i quali, spaziando dalla sostenibilità del comparto dell’allevamento di bovini da carne alle prospettive della cosiddetta “carne coltivata”, senza dimenticare il peso e il ruolo della corretta comunicazione rivolta sia al consumatore che al mondo della ristorazione, hanno fornito un quadro ampio ed esaustivo del contesto in cui la produzione di carne bovina si trova.
«Non è facile parlare del futuro di questo comparto produttivo» ha introdotto il suo intervento Massimo De Marchi, ordinario di Zootecnia generale all’Università di Padova, intervenuto dopo i saluti di rito da parte di Andrea Formigoni, docente al Dimevet di Bologna. «Veniamo da alcuni anni in cui la pandemia e poi la guerra hanno profondamente segnato e cambiato la nostra vita e quello che abbiamo davanti è un orizzonte pieno di incognite in cui il tema della sostenibilità, non solo ambientale ma anche sociale ed economica, riveste già ora e rivestirà in futuro un ruolo sempre più importante. Parlare di sostenibilità implica la presa in carico di un concetto complesso che si traduce nella capacità di mantenere un equilibrio tra le attività umane e l’ambiente naturale, al fine di garantire una vita dignitosa alle generazioni presenti e future. Se il comparto zootecnico dovesse scomparire vorrebbe dire eliminare un presidio del territorio che è fondamentale per la sopravvivenza dell’ambiente e dell’uomo».

Settore resiliente
Secondo i dati illustrati da De Marchi, attualmente l’Italia importa il 53% di carne bovina dall’estero, in gran parte ristalli provenienti dalla Francia che, però, ha già iniziato a ridurre la sua produzione a causa di una progressiva dismissione di aziende da parte di allevatori che sentono come troppo gravoso il loro impegno di svezzatori, fase quasi totalmente assente nel nostro Paese. Non solo. Le stime calcolano che da qui al 2030 la linea vacca-vitello in Francia subirà la perdita di circa 500.000 vacche determinando inevitabilmente nel Paese importatore una lievitazione dei prezzi dei ristalli.
«L’allevamento del vitellone da carne in Italia ha dimostrato negli ultimi anni un’ottima resilienza» ha sottolineato De Marchi. «Secondo i dati Ismea 2021, nel nostro Paese si contano circa 2,45 milioni di capi in allevamenti specializzati per la produzione di carne concentrati in particolar modo in Veneto e in Piemonte, per una produzione complessiva che nell’anno di riferimento ha toccato le 721.000 tonnellate, un consumo medio annuo pro capite di 17 kg e un posizionamento produttivo a livello europeo che si colloca al terzo posto dopo l’uscita della Gran Bretagna dalla UE. Le sfide legate alla competitività del comparto e al suo sviluppo non mancano, anche se difficilmente possono essere previste. Per questo è fondamentale il ruolo della comunicazione, non solo rivolta al consumatore, ma anche agli operatori dell’intera filiera, compreso il mondo della ricerca scientifica. Negli ultimi anni la marginalità degli allevatori è stata molto modesta e oggi la necessità di investire nell’innovazione è un imperativo a cui non ci si può sottrarre. Il miglioramento del benessere animale che non può e non deve riguardare solo la fase dell’allevamento ma anche e soprattutto quella del trasporto, la riduzione dell’utilizzo del farmaco e la capacità di individuare razioni alimentari che riducano le emissioni costituiscono i driver indispensabili per dare un futuro a questo comparto. Così come è necessario investire nello svezzamento finalizzato alla valorizzazione del ristallo nazionale, perché l’innovazione del prodotto e del processo da cui deriva rappresentano una concreta strategia per valorizzare la carne bovina, fornendo una risposta alle alternative vegetali o artificiali che stanno venendo avanti con sempre maggiore incisività».
Stimolare la commercializzazione innovando il prodotto. È stata questa la conclusione dell’intervento di De Marchi, che ha sottolineato quanto sarebbe importante, peraltro, cambiare anche nel nostro Paese la modalità di valutazione della carne adottando quanto si fa in Australia e in Francia, dove il requisito preso in considerazione è la marezzatura e non più la carcassa come invece avviene da noi.

Le “minacce” alternative
Di “carne coltivata”, più comunemente chiamata carne sintetica e degli sviluppi commerciali che potrebbe avere ha parlato Federica Cheli, ordinario di Nutrizione e Alimentazione animale all’Università di Milano che è, però, partita da una certezza: «la carne coltivata potrà rappresentare un’alternativa ma non sostituirà mai la carne. Immaginare un mondo senza allevamenti è impossibile, soprattutto per gli effetti positivi che il comparto ha sull’ambiente e perché questo scenario si tradurrebbe nella perdita di un patrimonio e di una bioeconomia circolare che deriva proprio dai ruminanti. Questo però — ha affermato Cheli — non può impedire alla ricerca scientifica di andare avanti tentando di individuare come la carne coltivata possa trovare uno sbocco in nuovi prodotti destinati al consumo in situazioni estreme, come possono essere le missioni spaziali, o rivolte a particolari categorie di consumatori mentre già ora, e con un trend in crescita, viene utilizzata nella preparazione di cibo per il pet.
In questo percorso non possiamo però uscire dall’ambito della ricerca scientifica perché sarebbe un errore che non aiuterebbe nessuno. Gli studi fin qui condotti sottolineano che la coltura cellulare ha sicuramente un impatto contenuto sull’impiego idrico e del suolo, ma decisamente più importante rispetto al consumo energetico richiesto».
Numerose le domande sul tavolo a cui la scienza, grazie alla ricerca, può e deve dare risposte:
la tecnologia è abbastanza matura per garantire la produzione di carne coltivata?
abbiamo davanti un prodotto che è veramente carne?
quali sono le questioni legali ad essa legate?
è davvero sicura, sana e gustosa?
è davvero ecologica quanto la carne convenzionale?
è davvero prodotta senza la macellazione degli animali?
qual è il suo futuro?
«Per rispondere a queste domande — è stata la sottolineatura di Federica Cheli — abbiamo bisogno di una valutazione olistica, multicriterio e indipendente su un prodotto che, come detto, potrà trovare impiego in determinate condizioni e con particolari categorie di consumatori, senza però mai pensare che gli allevamenti zootecnici siano destinati a scomparire».
Comunicare. Possibilmente in maniera chiara e corretta. È esattamente quanto stanno facendo importanti catene di distribuzione come Metro che sta lavorando alla cosiddetta “etichetta parlante” perché, come hanno ricordato Claudio Truzzi e Marco Tassinari, rispettivamente Head of QA Metro Italia e docente all’Università di Bologna, «comunicare la carne è sempre stato difficile e oggi lo è ancora di più».

Un consumatore da conquistare
E particolarmente interessante, al termine della Giornata di studio, è stata la presentazione dei risultati di un’indagine condotta dall’Università di Padova nel periodo compreso tra il 19 novembre e l’8 dicembre 2021 su un campione di 1008 persone, che proprio in riferimento al periodo pandemico ha voluto mettere a fuoco i dati legati alla diffusione del consumo di prodotti di origine animale nel nostro Paese, analizzando le fonti e il livello di informazione sul rischio di infezione derivante dal loro consumo.
«Tra le tante risposte registrate — ha informato la platea Lucia Bailoni, ordinario di Nutrizione e Alimentazione Animale all’Università di Padova — è stato interessante rilevare che il consumatore italiano, nell’acquisto di carne, privilegia ancora il rapporto diretto con il venditore da cui trae più fiducia e sicurezza. Molta considerazione viene riservata all’aspetto del prodotto, mentre il riferimento all’origine viene relegato al secondo posto ed è meno valutato dai giovani e dalle persone con un basso livello di scolarità.
La nostra indagine ha inoltre evidenziato che la popolazione femminile è attenta alle certificazioni e anche più sensibile alle problematiche che riguardano la sostenibilità. Infine, rispetto ad analoghe indagini condotte a livello europeo, i nostri risultati indicano che il costo dei prodotti di origine animale non condiziona particolarmente gli acquisti dei consumatori italiani, mentre proprio l’origine degli alimenti rappresenta una motivazione più importante al momento dell’acquisto. Infine, la sostenibilità, di cui si sente sempre più parlare ma che, da quanto è emerso dal nostro questionario, non è ancora un parametro utilizzato nella scelta, una tendenza che coinvolge sia il nostro Paese che il resto d’Europa».
Un settore resiliente quello della carne bovina in Italia, ancora poco valorizzato, dalle grandi potenzialità ma al centro di un incrocio di sfide molto competitive. Le incognite non mancano. Ma gli strumenti e le modalità per uscirne vincenti ci sono.


Anna Mossini



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