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Carne coltivata: il punto di Slow Food

of Redazione


«Il divieto alla produzione e vendita della carne coltivata secondo Slow Food non chiude la discussione: la apre» afferma Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia commentando il disegno di legge proposto dal governo e firmato lo scorso fine novembre dal presidente della Repubblica. «Non possiamo ridurre a battaglia ideologica un tema complesso, che ha a che fare con il sistema alimentare, il suolo, il paesaggio, la cultura del cibo e la sovranità alimentare. Non servono provvedimenti che vietino la produzione e la vendita di alimenti prodotti da colture cellulari o tessuti di animali come quello recentemente divenuto ufficialmente legge, ma informazioni corrette, che consentano a tutti di scegliere. Proibire è una scorciatoia. Serve un’analisi onesta, capace di accogliere la complessità».
Il cibo non è un carburante per far funzionare l’organismo, somma algebrica di proteine, grassi e carboidrati. Il cibo è prima di tutto espressione culturale, linguaggio. È parte integrante dell’identità dei popoli, frutto di saperi, tradizioni, innovazioni, scambi di conoscenza. Secondo Slow Food, il problema di un’eccessiva produzione di carne non si risolve passando dagli allevamenti intensivi ai laboratori, ma si affronta analizzando e modificando il modello che ha originato questa distorsione.
Un modello che ha trasformato l’agricoltura in industria e l’ha consegnata alla finanza, spezzando il suo legame con la terra e la natura, trasformando un’attività circolare (dove nulla era scarto) in un settore che produce più del 30% delle emissioni di CO2, inquina la terra e l’acqua, compromette la nostra salute. E fa tutto questo in nome di una popolazione in crescita da sfamare, nascondendo la verità di un cibo prodotto per essere in buona parte sprecato.
«Oggi una manciata di multinazionali controlla quasi tutto: la produzione di semi, fertilizzanti chimici, pesticidi, mangimi, prodotti farmaceutici; la genetica animale, l’allevamento, la macellazione, la distribuzione; perfino le compagnie nautiche che trasportano mangimi e farine attraverso il globo» continua Nappini.
È sufficiente dare un’occhiata all’elenco dei finanziatori della ricerca sulla carne coltivata per capire quale sia la direzione: da Bill Gates a Sergey Brin di Amazon a Richard Branson della Virgin Group. Ma anche JBS, Cargill e Tyson Foods, ovvero le stesse multinazionali che controllano la filiera della carne. Di fatto, proprio chi è fra i principali responsabili della deriva attuale dell’allevamento — e ne detiene il controllo a livello globale —, ora che il settore inizia a intravedere minacce all’orizzonte investe sulla carne coltivata usando gli stessi strumenti e gli stessi schemi: brevetti e monopoli. L’invito che lancia oggi Slow Food Italia è proprio su questo: «Vogliamo aprire una riflessione su un modello diverso di allevamento, che si ponga onestamente delle domande sull’accesso alle risorse naturali e sul diritto alla sovranità alimentare» conclude Nappini.
Quello su cui Slow Food lavora da anni attraverso i propri progetti: un modello che si ricolleghi al suolo, al foraggio dei prati stabili e dei pascoli, che tenga in considerazione l’etologia degli animali e la rispetti. Su regimi alimentari più equilibrati, che prevedano una riduzione del consumo di carne e un incremento dell’apporto proteico vegetale, tramite i preziosi legumi, che arricchiscono il suolo e richiedono poca acqua.
Su un sistema alimentare che produca un’economia diffusa, salute, benessere; che generi bellezza e non deturpi il paesaggio; che tuteli la biodiversità; che contrasti lo spopolamento delle aree interne (il 70% del territorio italiano) sostenendo le piccole aziende che presidiano le terre alte e le preservano dal dissesto idrogeologico (aziende che continuano a chiudere a favore di stabilimenti di pianura sempre più grandi).

Consumi di carne, allevamento intensivo e monocolture, un legame indissolubile
Gli attuali consumi di carne in Occidente sono insostenibili. Dal 1960 ad oggi la produzione di carne è aumentata di cinque volte e, secondo la FAO, potrebbe raddoppiare entro il 2050. Le conseguenze sono gravi per tutti: per la nostra salute, per il clima, per il nostro pianeta, per il benessere degli animali. Questa impennata della produzione è legata ad una profonda trasformazione dell’allevamento, che si è specializzato, slegato dalla terra e trasformato in industria. A sua volta, l’allevamento industriale è connesso a doppio filo alla diffusione delle monocolture (innanzi tutto soia, mais…) e di pratiche agricole che deteriorano la fertilità del suolo, compattandolo e inquinandolo con fertilizzanti chimici e pesticidi. La maggior parte della soia e del mais coltivati nel mondo sono destinati alla zootecnia e sono Ogm.
Tutto il sistema — dalla produzione di semi a quella di fertilizzanti chimici, dei pesticidi, delle pompe idrauliche, dalla genetica animale alla produzione di mangimi, dai prodotti farmaceutici all’allevamento, alla macellazione e alla distribuzione e perfino alle compagnie nautiche che trasportano mangimi e farine attraverso il globo — è controllato da una manciata di multinazionali, che continuano ad accrescere il loro raggio di azione grazie ad acquisizioni e fusioni.
I costi nascosti del sistema zootecnico riguardano anche la salute umana. Gli allevamenti intensivi sono una delle principali cause dell’antibioticoresistenza. Lo spandimento eccessivo delle deiezioni nei campi inquina le falde. Le emissioni di ammoniaca generano gran parte del particolato atmosferico (PM 2,5), ovvero le cosiddette polveri sottili. Il consumo eccessivo di carni lavorate, inoltre, per via dell’uso di conservanti (nitriti e nitrati in primis), dell’alto contenuto di sale e di alcuni metodi di trasformazione (come l’affumicatura) è legato a malattie cardiovascolari, ipertensione e ad alcune forme tumorali.
L’allevamento industriale ha separato gli animali allevati dalla natura, trasformandoli in mezzi di produzione con un’unica ragione d’essere: produrre nel modo più efficiente e veloce possibile.
Privati di spazi adeguati dove soddisfare i loro bisogni etologici, gli animali sono mutilati e sottoposti a trattamenti preventivi per evitare lo sviluppo di malattie da affollamento. La loro alimentazione è funzionale alle esigenze di maggiore produttività: erba e fieni sono stati ridotti e sono aumentati cereali (mais in primis) e soia. Il risultato di questa tipologia di allevamento è una vita di stress e sofferenza. Questo modello di produzione e di consumo non è sostenibile e, secondo Slow Food, deve essere radicalmente rivisto. Ma in quale direzione?

La carne coltivata potrebbe essere la soluzione?
Da una decina d’anni la ricerca scientifica sta lavorando allo sviluppo di sostituti della carne prodotti con tecniche di coltura cellulare, facendo moltiplicare in liquidi di coltura cellule staminali di animali. Al momento queste alternative alla carne naturale sono autorizzate solo negli Stati Uniti e a Singapore. Il processo di produzione è molto costoso, per questo la carne cosiddetta “coltivata” ad oggi non è competitiva e ci sono ancora molte difficoltà tecniche da superare per renderne possibile la produzione su larga scala. I bioreattori dove si moltiplicano le cellule richiedono un grande dispendio di energia e il risultato finale non è sufficientemente vicino alla carne naturale. Molti aspetti della produzione sono ancora oscuri. Anche perché le aziende produttrici invocano il diritto alla riservatezza previsto dalle norme commerciali.

Per quali ragioni Slow Food ritiene che la carne coltivata
non sia un’alternativa valida alla carne naturale? Il cibo è cultura

Il cibo non è un semplice carburante per far funzionare l’organismo, somma algebrica di proteine, grassi e carboidrati. Il cibo è prima di tutto espressione culturale, linguaggio. È parte integrante dell’identità dei popoli, frutto di saperi, scambi, tradizioni, innovazioni, contaminazioni. È narrazione, convivialità, condivisione, solidarietà, piacere del gusto. La qualità organolettica del cibo è legata a quel che c’è dietro un piatto: storia, lavoro, sapere, paesaggio, suolo… Nel caso della carne, la qualità organolettica è legata all’alimentazione somministrata agli animali, alla qualità e alla varietà delle erbe e dei fieni, alle condizioni di vita dell’animale, alle tecniche di lavorazione. Qualsiasi cibo prodotto in un laboratorio esprime una cesura definitiva con l’ambiente e il contesto (fisico e culturale) e perde il suo valore principale: il legame col territorio e con le comunità.

Nuovo business, stessi attori, stesse dinamiche sociali

È sufficiente dare un’occhiata all’elenco dei finanziatori della ricerca sulla carne coltivata per capire quale sia la direzione: da Bill Gates a Sergey Brin di Amazon a Richard Branson della Virgin Group. Ma anche JBS, Cargill e Tyson Foods, ovvero le stesse multinazionali che controllano la filiera della carne: dalla produzione della soia all’allevamento, alla macellazione, alla trasformazione e commercializzazione attraverso la grande distribuzione. Di fatto, proprio chi è fra i principali responsabili della deriva attuale dell’allevamento — e ne detiene il controllo a livello globale —, ora che il settore inizia ad intravedere minacce all’orizzonte (rischi elevati di malattie pandemiche, maggiore sensibilità dei consumatori nei confronti del benessere animale, problemi ambientali, costo crescente delle materie prime), investe sulla carne coltivata utilizzando gli stessi strumenti e gli stessi schemi (brevetti e monopoli).

Una soluzione per i Paesi ricchi?

Bill Gates ha dichiarato che la carne coltivata non potrà contribuire alla riduzione della fame perché sarà sempre troppo costosa per il sud del mondo. Gates si augura che i paesi ricchi possano «abituarsi alla differenza di gusto» e sostituire la carne naturale al 100% con carne coltivata, perché appunto capaci di consumi più elitari. Ma le soluzioni dovrebbero essere accessibili a tutti, senza prevedere categorie umane di serie A o di serie B. Tutti i popoli del mondo hanno diritto ad un’alimentazione di qualità, equilibrata e in quantità sufficienti.

Quale impatto ambientale?

La coltivazione di carne prevede un minore uso di acqua e terra ed emissioni di gas serra ridotte, ma al momento gli impianti necessari alla produzione sono estremamente energivori. Come ci ricorda Alison Van Eenennaam, dell’Università di Davis in California, la natura ha già sviluppato un bioreattore perfetto alimentato da energia pulita (cioè dal sole), in grado di convertire la cellulosa presente nell’erba (non commestibile per l’uomo), in proteine di alta qualità: i ruminanti. Pascolando in ambienti spesso marginali che sarebbe impossibile convertire a colture agricole, o nutrendosi di fieno, svolgono un duplice servizio: ci nutrono e, se sono ben gestiti, sono fondamentali per l’equilibrio del territorio.

La salubrità è un’incognita
I prodotti a base di carne coltivata sono proposti come più salubri perché ottenuti in ambienti sterili e senza l’uso di antibiotici. Ma diversi aspetti della loro filiera produttiva suscitano dubbi al riguardo. Nei processi di produzione della carne coltivata si usano sia ormoni sia lieviti geneticamente modificati. Sono presenti nelle sostanze nutrienti necessarie a moltiplicare le cellule nei liquidi di coltura e sono determinanti per produrre le sostanze nutrienti.
La carne coltivata deriva da cellule in cui viene indotta la capacità di proliferare. Questo aspetto dovrebbe richiedere massima cautela: prima di proporne il consumo, servirebbero ricerche approfondite per poter escludere in via definitiva il rischio di eventuali effetti cancerogeni. I prodotti a base di carne coltivata sono iperprocessati, contengono coloranti, aromatizzanti, addensanti e altri coadiuvanti tecnologici, necessari per conferire loro la forma di hamburger o crocchetta, per dare consistenza e sapore di carne.

Chi sarebbe penalizzato?
La carne coltivata (e le alternative ottenute da cellule vegetali già in commercio anche in Italia) colpisce l’industria dell’allevamento, responsabile di squilibri ambientali e di molta sofferenza animale, ma penalizza anche chi alleva animali con rispetto e in contesti naturali, dando un contributo imprescindibile alla buona agricoltura e alla gestione dei territori, in particolare quelli più marginali. L’allevamento di piccola scala, già in estrema difficoltà, rischia di scomparire, e in questo modo si estinguono le razze animali locali e si perdono i saperi legati all’allevamento, alla gestione dei pascoli,delle aree più marginali e alla lavorazione della carne e dei formaggi. Un danno enorme per il patrimonio ambientale, sociale e culturale.

L’informazione corretta e trasparente deve essere garantita
La ricerca deve essere libera. E ognuno deve avere le informazioni necessarie per poter scegliere come alimentarsi. Il nome da attribuire ai sostituti della carne e le norme di etichettatura per la loro commercializzazione non devono generare confusione o malintesi nel consumatore. La carne coltivata non può essere definita in etichetta “carne”, i nomi dei prodotti sostitutivi non devono alludere alle loro alternative naturali, ad esempio “salame”, “latte”, “bistecca”, “hamburger”, “formaggio”. L’origine degli ingredienti utilizzati e le proprietà nutrizionali devono essere precisati in etichetta. Slow Food da anni si batte per la chiarezza e la completezza delle informazioni in etichetta e, a questo scopo, ha sviluppato il progetto dell’etichettatura narrante.

Ma allora qual è la soluzione?
Per la nostra salute e per la salute dell’ambiente è imprescindibile ridurre il consumo di carne e puntare su un allevamento sostenibile, rimettere insieme e in equilibrio allevamento e agricoltura, animali e terra, mettere al centro la fertilità del suolo, il rispetto per gli animali, la tutela della biodiversità dei pascoli, la cura delle aree montane e la rigenerazione delle terre di pianura, riscoprire la coltivazione e il consumo dei legumi, ottimi alleati per la nostra salute, per la salute del suolo (grazie alla loro capacità di fissare l’azoto atmosferico nel terreno) oltre che fonti proteiche di grande qualità a costi accessibili per tutti.

Un’agricoltura di qualità necessita di un allevamento sostenibile e viceversa: l’agroecologia è la strada verso il futuro
L’agroecologia si basa su princìpi vitali quali la biodiversità, il riciclo dei nutrienti, la sinergia e l’interazione tra le colture, gli animali, i suoli, la rigenerazione e la conservazione delle risorse e dei saperi locali. In questa visione, ogni singolo elemento di un ecosistema è interconnesso e dipendente dagli altri e gli animali hanno un ruolo importante, esattamente come tutte le altre risorse naturali e umane. Secondo i principi dell’agroecologia, il riconoscimento dei bisogni etologici degli animali è basilare, la loro alimentazione deve basarsi innanzitutto su materie prime del territorio, deve essere favorito il pascolamento e devono essere tutelate le razze autoctone, più rustiche e adatte ai diversi territori.

La buona gestione dei pascoli è vitale per le terre alte
Oltre il 70% del territorio italiano, da Nord a Sud, è rappresentato da montagna o collina. I pascoli ben gestiti evitano il formarsi di strati di erba secca, che agevolano lo scorrimento della neve (provocando pericolose slavine in inverno) e riducono la penetrazione nel terreno dell’acqua. Il lavoro dei pastori — che prevede anche la pulizia del sottobosco, il mantenimento dell’alveo dei torrenti e la manutenzione delle opere idrauliche, come i canali di scolo e gli argini — è decisivo per la prevenzione di incendi e frane. Buona parte delle Alpi e degli Appennini, senza pascolo e senza pastori è destinata ad essere soffocata da sterpaglie e arbusti, inaccessibili e alla mercé degli incendi estivi.


Fonte: Slow Food Italia
www.slowfod.it



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