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Sono 180 grammi, lascio?

Chicken Bones

of Papalato G.


Quando ero bambino mangiare il pollo con le mani era possibile solo chiedendo “posso mangiare come Robin Hood?”. E le ossa di pollo, spolpate da dita e denti, sembravano così perfette nel piatto… Davano e danno il senso di una completezza particolare nel cibo che ha a che fare con il non sprecare nulla. Certo le Chicken Bones cantate da John Grant sono da intendere in un altro modo, forse, ma questo lo vediamo dopo. Sicuramente a Denver, dove è nato e cresciuto, come a New York dove ha avviato la sua carriera solista, il pollo è parte integrante di della cucina statunitense. La sua è la carne maggiormente consumata negli Stati Uniti, più del maiale e del manzo.
La costante raccomandazione, anche attraverso traverso spot e trasmissioni televisive, di mangiare meno carne rossa ha portato ad una domanda altissima: secondo l’Economic Research Service dell’United States Department of Agriculture, nel 2021 il consumo pro capite di pollo era di 68,1 libbre (circa 31 kg), quasi quattro volte rispetto ai primi del Novecento.
Il pollo è economico, la sua carne è la fonte di proteine a miglior prezzo, un binomio destinato ad aumentare col tempo. È stato ed è necessario un progressivo aumento delle dimensioni degli esemplari e di parti specifiche come il petto. Necessità che negli anni è stata soddisfatta e che ha portato, accanto al consumo di carne bianca del petto, ad esportare quella più scura in eccesso, come le cosce.
Un adattamento dell’industria del pollame che è cominciato nella prima parte del secolo scorso con tecnologie utili al miglioramento della nutrizione degli animali con in contemporaneo contrasto di alcune malattie. Fondamentale la selezione di alcuni esemplari con petti progressivamente più grandi che ha portato da 900 grammi a 4 kg da adulti.
È in un contesto in cui il pollo è così radicato tanto da fornire modi di dire come sentirsi “ossa di pollo” per indicare qualcosa di inutile e da buttare che vive John Grant quando scrive e canta Chicken Bones: è irrisolto, frustrato, in preda a sbandamenti emotivi. La band di cui era la voce, gli Czars, si scioglie al termine di una carriera insoddisfacente e la cui l’incapacità di tradurre i consensi di critica in vendite alimentò ulteriormente il suo enorme disprezzo per se stesso.
Dopo essere caduto in un inferno personale fatto di alcol, droga ed aver rinunciato alla musica per servire ai tavoli, trasferitosi a New York entra in contatto con bands come i Midlake. Apre parte del loro tour, si innamorano della sua voce e lo convincono ad incidere un disco solista, facendogli da backing band e producendolo. È il 2010 e “Queen Of Denmark” arriva dove nessun album dei Czars era arrivato prima in termini di espressione e comunicazione.
John Grant è uno di quegli artisti che possono fare quasi tutto. È un disco sfrontato, emozionato, cinico, doloroso, dove umorismo, relazioni interrotte, religione, problemi quotidiani e assoluti vengono raccontati con un’onestà devastante. Sono canzoni di amore impossibili, abisso e redenzione, con un senso di vastità e contemplazione che ricorda “Pacific Ocean Blue” di Dennis Wilson.
Arrangiamenti ‘70 con pianoforti e flauti che descrivono uno sguardo surreale, obliquo sull’America, che ha pochi eguali nell’infinita serie di cantautori che si sono esposti negli anni.
TC and Honeybear è una chitarra folk e tamburi, la solitudine di un orsacchiotto che si innamora, il crescendo di una soprano e piatti che scrosciano, poi la separazione e la tristezza. È solo il principio ma è già manifesta la consapevolezza di un lavoro che scardina il prevedibile come linguaggio musicale. Totalmente in asincronia con quello che sta succedendo in ambito pop, indie o mainstream che sia, ma anche riconoscibile nel suo essere eccessivo e confidenziale insieme.
Percezione che continua con Marz e la linea di pianoforte che sembra uscire da una colonna sonora di Carpenter e la attraversa come un nastro a chiudere una confezione di delizie nostalgiche sfumate di amarezza: Marz era ed è il negozio di dolciumi artigianali dell’infanzia, la malinconica porta verso l’innocenza, prima che le cose diventassero complicate.
Il trittico di ballad in apertura, come un manifesto ideale della poetica dell’autore, si chiude con Where Dreams Go To Die, straniante capolavoro di archi e accordi country, così intensa da sorprenderti a cantare “carcassa” allargando idealmente le braccia, senza sentirti strano.
Cambia registro e paradossalmente contribuisce a dare personalità all’intero lavoro la sequenza sarcastica e sferzante di Sigourney Weaver e Chicken Bones, tra chitarre e tastiere elettrificate, entrambi usciti come singoli. Se It’s Easier è una rassegnata mancanza di fiducia nella persona che hai accanto, Outer Space è una canzone d’amore sul tentativo di scoprire come la persona di cui si è infatuato sia diventata così perfetta da sembrare provenire dallo spazio. Due brani che, posti in quest’ordine, sembrano voler sottolineare quella voglia di rinascita che spinge giù turbamenti che hanno segnato con forza Grant. Entrambi sembrano uscire da una radio nei primi anni ‘80, la sua adolescenza, per come sono arrangiati melodicamente.
Tornano i fiati, stavolta al servizio del Rag-Time, in Silver Platter Club, divertita presa in giro di stereotipi alto borghesi. È una marcetta minimale ma carica di dolore quella Jesus Hates Faggots che ripercorre insulti e discriminazioni che a partire dalla famiglia hanno portato Grant a meditare il suicidio, una denuncia figlia di un’America rurale che non sembra cambiare col tempo. Fa ancora più rumore quando comincia Carmel, che invece è un inno all’amore, all’essere innamorati, con un’interpretazione vocale che spiazza e meraviglia nella sorpresa. La voce baritonale di Grant prende note inedite, vola dopo aver sfiorato marciapiedi e attraversato correnti, le paure e le preoccupazioni sono spazzate via. Un vibrato di rara bellezza per cui risulta difficile evitare di pensare a Jeff Buckley, così lontano ma forse mai così vicino.
Riesce ad essere voluttuosa Leopard & Lamb fluida su tastiere e synth sotto luci artificiali.
Quando arriva il finale di Queen Of Denmark, la title track rivela un epifania. È tutto qui, è tutto adesso. Nulla è perduto. Un testamento per una vita che non c’è più e ci sarà sempre. La caduta e la rinascita, ma senza retorica, possibile? La risposta in quasi cinque minuti intimi e maestosi in cui si sviluppa e deflagra il bisogno di dire a se stesso e a chi lo vuole ascoltare che John Grant può essere tutto, anche la Regina di Danimarca, nonostante chi non lo vuole vedere.


Giovanni Papalato



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