È pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge 1o dicembre 2023, n. 172, in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati nonché di divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali. La Legge è entrata in vigore il 16 dicembre scorso. “Al di là delle controversie e della tutela del consumatore da pubblicità ed informazioni ingannevoli, quali sono gli aspetti da considerare a livello giuridico?” si chiede Carni Sostenibili. “Ne parliamo con l’avvocato Daniele Pisanello, esperto di diritto alimentare e titolare dello studio legale Lex Alimentaria.
Parliamo di meat sounding, una definizione che ci ricorda quella a cui siamo più abituati di Italian sounding. Sono forse la stessa cosa?
«Sì e no. Le due espressioni hanno in comune l’essere pratiche commerciali con le quali le imprese alimentari suggeriscono un aggancio concettuale a qualcos’altro che nei fatti però non c’è. Un’evocazione nella mente del destinatario del messaggio, nel nostro caso etichette ma non solo, pensiamo solo a quanto può circolare sui blog alimentari, sulle riviste digitali o meno, sui social network (…).
Nel caso del cosiddetto Italian sounding, vi sono echi e quindi richiami alla qualità della nostra produzione gastronomica e manifatturiera mediante suggestioni visive, fonetiche o di altro genere, variamente declinate intorno ad una millantata (e spesso falsa) provenienza italiana. È un fenomeno diffuso all’estero e molto studiato in Italia e talvolta sanzionato.
Nel caso del meat sounding abbiamo a che fare con messaggi rivolti alla promozione di prodotti alimentari altamente processati, in quanto disegnati per consentire pietanze a base di proteine vegetali, implicitamente e/o esplicitamente meat free, con un certo silenzio generale su altre parti della loro ingredientistica.
L’uso dei termini usi al consumatore quali salsiccia, bistecca, ragù serve a superare agevolmente la prima barriera che questi prodotti hanno verso il consumatore, talvolta ignaro dei progressi delle tecnologie alimentari e della riformulazione degli alimenti».
Non c’è modo di tutelare già oggi il consumatore contro gli abusi e le storpiature di nomi di vendita?
«Domanda impegnativa. Partiamo dal dato giuridico: la lettura prevalente che se ne dà pare orientata a ritenere che, in quanto la natura vegetale/meat free del prodotto è fatta palese, non vi sia “inganno” per il consumatore che viene a contatto con una comunicazione commerciale che impiega denominazioni usualmente proprie del solo settore delle carni lavorate. Infatti si fa notare che in gran parte delle comunicazioni “meat sounding”, il “richiamo a ciò che non è” (bistecca, mortadella, ragù… vegetali) si ferma alla prima fase del processo di interazione con il consumatore, per essere immediatamente superato, — e, secondo questa lettura, corretto, emendato — dagli altri elementi presenti in etichetta o più in generale nella comunicazione consumer-oriented.
Probabilmente, se ci fermiamo a livello microeconomico, la posizione ha riscontro nella normativa vigente e negli orientamenti consolidati di interpretazione e applicazione. Se però allaghiamo la riflessione, possiamo accorgerci che la “protezione da pratiche decettive” include concettualmente gli effetti indiretti a livello “macro”, sul piano semantico e sociale.
Il punto diventa quindi riflettere se il canone della lealtà dell’informazione si riduca ed esaurisca nella sola ingannevolezza, intesa negli stretti criteri utilizzati all’articolo 7, par. 1, del Regolamento 1169/2011 (Food Information Regulation, FIR) oppure se vi siano esigenze di protezione ulteriori, nuove sorte dall’affermarsi di nuovi segmenti di mercato e di forme di comunicazione sempre più efficaci e pervasive, idonee nel lungo periodo a modificare la percezione del mondo, attraverso la creazione di nuovi significati delle parole che noi impieghiamo nel nostro linguaggio. Una questione non da poco.
Mi limiterò qui ad osservare che la protezione degli interessi dei consumatori è principio generale di legislazione alimentare, come ben ricordato dall’articolo 8 del General Food law (reg. CE n. 178/2002, GFL) dove si legge: “1. Food law shall aim at the protection of the interests of consumers and shall provide a basis for consumers to make informed choices in relation to the foods they consume. It shall aim at the prevention of: (a) fraudulent or deceptive practices; (b) the adulteration of food; and (c) any other practices which may mislead the consumer”. A tal proposito è mia opinione, già espressa in alcuni commenti alla sentenza TofuTown del 14 giugno 2017 (causa C-422/16), in cui la Corte di giustizia ha ritenuto compatibile coi trattati la riserva legale delle denominazioni lattiero-casearie (latte, formaggio, burro, ecc…) ai soli prodotti ottenuti dal prodotto della secrezione mammale di taluni animali, che l’espressione “rischio di confusione” appartenga a un più generale fenomeno di “alterazione della percezione” con la quale il consumatore decodifica la comunicazione (che è linguaggio) commerciale indirizzatagli.
È chiaro, senza necessità di essere dei sociologi della comunicazione o filosofi del linguaggio, che la percezione del consumatore sia la risultante di diverse forze tra le quali deve essere annoverata la “struttura profonda della comunicazione di massa”. Il punto è quindi se si può o meno intervenire in termini propriamente politici e nel rispetto delle regole interne e internazionali ad assicurare, con iniziative che in modo misurabile puntino e perseguano un innalzamento generale della protezione del consumatore; detto un po’ brutalmente: continuiamo a lasciare la creazione di significato al solo mercato o accettiamo che sia legittimo ipotizzare misure regolatorie mirate e (purché, e non è poco) proporzionate allo scopo?».
Che innovazione portano il disegno di legge al Senato e la proposta di legge alla Camera sul tema?
«La nuova legge entrata in vigore sabato 16 dicembre, per quel che concerne il c.d. meat sounding, mi pare muoversi nel senso di avanzare una risposta (nazionale) a quel profilo di protezione che ora si diceva. L’ancoraggio giuridico è individuato a esigenze chiaramente professate: protezione del patrimonio zootecnico nazionale, quale condizione ritenuta per conservare le valenze culturali, socio-economiche e ambientali, tutela degli interessi dei consumatori. A tal fine si dispongono alcuni divieti nell’impiego nella comunicazione di prodotti trasformati contenenti esclusivamente proteine vegetali l’uso di:
denominazioni legali, usuali e descrittive, riferite alla carne, ad una produzione a base di carne o a prodotti ottenuti in prevalenza da carne;
riferimenti alle specie animali o a gruppi di specie animali o a una morfologia animale o un’anatomia animale;
terminologie specifiche della macelleria, della salumeria o della pescheria;
nomi di alimenti di origine animale rappresentativi degli usi commerciali.
La formulazione di tali divieti e il relativo quadro sanzionatorio è ampio e gravoso: cadrebbero nel cono d’ombra del divieto prospettato ad esempio: “bistecca di soia”, “salsiccia vegana”, “pancetta vegetale”, “polpette di verdure”, “carpaccio di verdure” o “caviale vegano”.
Questa proposta non dovrebbe dar scandalo: se guardiamo alla storia è facile osservare che molte delle denominazioni che oggi, più o meno consapevolmente, impieghiamo nel linguaggio e nei traffici commerciali, sono il portato di evoluzioni sociali e decisioni politiche ben distinguibili: pensiamo alla vicenda legata ai nomi dei prodotti vitivinicoli (cosa è il “vino” per noi Europei del sud). Nel settore dei prodotti “breakfast”, esigenze di armonizzazione, hanno portato alla riserva legale di talune denominazioni di vendita sin dagli anni ‘70 (confetture, gelatine e marmellate di frutta e alla crema di marroni, prodotti di cacao e di cioccolato, ecc…).
L’esempio più palmare è però la riserva legale dell’impiego delle denominazioni del settore caseario (latte, burro; formaggio, ecc…), definito fin dagli anni ‘80 in ambito PAC e sul quale la Corte di giustizia è intervenuta (per la seconda volta) con la sentenza TofuTown del 14 giugno 2017 (causa C-422/16), ritenendo legittimo il divieto posto dal legislatore unionale anche quando la denominazione riservata sia impiegata con altre indicazioni descrittive o esplicative circa l’origine vegetale del prodotto in questione.
Nel settore della salumeria, da tempo, vi è una disciplina nazionale che definisce merceologicamente i requisiti per l’uso legittimo delle denominazioni più ricorrenti nel settore».
E in Europa cosa succede in proposito?
«La Commissione europea non sembra particolarmente tentata di disciplinare il fenomeno, forse anche memore degli esiti discutibili dell’implementazione dell’art. 26, FIR sull’origine dell’ingrediente primario.
A livello dei partner unionali, la Francia si è mossa per prima con l’adozione di un decreto analogo a quello in discussione oggi nelle aule del nostro Parlamento (ma i Francesi vi hanno previsto la clausola di mutuo riconoscimento e si guardano bene dall’interferire nell’ambito “novel food” del nuovo spauracchio della “carne sintetica”).
Anche in Francia l’iniziativa è fieramente avversata, tanto che la applicazione del Décret n. 2022-947 du 29 juin 2022 relatif à l’utilisation de certaines dénominations employées pour désigner des denrées comportant des protéines végétales è stata sospesa in via cautelare dal Consiglio di Stato. In quel caso, che comunque afferisce ad un ordinamento diverso dal nostro, ai fini della sospensione dell’applicazione, in attesa della decisione nel merito, è emersa la rilevanza della “assenza” nel decreto impugnato di un elenco tassativo dei nomi di cui esso vieta l’uso, a pena di sanzione amministrativa, nonché l’imprecisione nella qualificazione dei termini di cui è vietato l’uso, nonché l’assenza di libero accesso del pubblico ai codici di deontologia ai quali l’amministrazione fa riferimento per chiarirne la portata».
È possibile affermare che il meat sounding sia una possibile truffa o inganno al consumatore?
«Sul piano giuridico, questi termini hanno un significato proprio che deve essere tenuto presente da un giurista. Col meat sounding, si capta l’attenzione del consumatore per entrare più facilmente nella sua sfera di comprensione e catalogazione del prodotto. Non c’è un inganno diretto e puntuale riferito al singolo momento di contatto consumer-prodotto/comunicazione, perché il consumatore è posto in condizioni di comprendere per sommi capi ciò che sta comprando; c’è però, come ho cercato di evidenziare, un effetto di secondo grado derivante dall’impiego di tecniche di comunicazione che, per ampiezza e profondità, finiscono per deformare il significato delle parole. Il punto, ancora una volta, torna a essere il limes, operazione che dipende dalla gerarchia di valori che una società si dà. Se la creazione di significato da cui originano i nomi delle cose è rimessa al solo mercato, in cui operano forze orientate al massimo profitto anche con l’impiego di strumenti sempre più pervasivi dei big data e del calcolo computazionale, possiamo serenamente lasciare le bocce ferme. Sul punto, che chiaramente qui è solo abbozzato, mi viene in mente, tra le diverse, la sentenza del 10 settembre 2009, in causa C-446/07, relativa alla denominazione “felino”, nella quale vi sono indici (par. 62) utili al tema qui discusso.
A mio sommesso avviso, se la clausola delle “esigenze imperative” o degli “altri fattori legittimi” c’è per essere applicata, il punto di caduta è il rispetto dei requisiti di compatibilità costituzionale e unionale (efficacia della misura rispetto agli obbiettivi posti; proporzionalità; rispetto del requisito del minor impatto (less restrictive); non discriminazione, ecc…).
In passato, una frettolosa trattazione di questi requisiti ha consentito più facilmente alla Corte di giustizia di dichiarare l’incompatibilità unionale di misure nazionali distoniche così scarsamente progettate.
In altri e più recenti casi (si pensi al Decreto Legislativo che ha reintrodotto l’obbligo della sede di produzione/confezionamento, o il Decreto Interministeriale del 2016 sull’indicazione dell’origine del latte sulle confezioni di latte e derivati) le misure nazionali sono rimaste invece immuni dal sindacato da parte del guardiano dei trattati (gli uffici della Commissione) e sostanzialmente applicate per via di prassi, immune da un vaglio giurisdizionale (domestico). Vedremo nel caso di specie da che lato l’ago penderà».
Fonte: carnisostenibili.it
Con la consapevolezza che la sostenibilità nel campo delle carni costituisce un argomento complesso e dibattuto, il Progetto Carni Sostenibili vuole individuare gli argomenti chiave, lo stato delle conoscenze e le più recenti tendenze e orientamenti tecnico scientifici. L’intento è quello di mostrare che la produzione e il consumo di carne possono essere sostenibili, sia per la salute che per l’ambiente.
Al dibattito sulla produzione e il consumo di carne partecipano organizzazioni e stakeholder di vario genere, caratterizzati da scopi differenti: associazioni animaliste e/o ambientaliste, centri di ricerca, media. In questo contesto non si è mai inserito, almeno in Italia, il punto di vista dei produttori di carne, che hanno invece sentito la necessità di partecipare al dibattito fornendo informazioni, dettagli e dati oggettivi utili a correggere, dove necessario, alcune posizioni, a volte pregiudiziali se non completamente scorrette. Per far questo, dal 2012 un gruppo di operatori del settore zootecnico (aziende e associazioni) si è organizzato per supportare studi scientifici che, in una logica di trasparenza pre-competitiva, hanno permesso di arrivare, oltre che alla pubblicazione dello studio “La sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia“, all’avvio del progetto “Carni Sostenibili” e, quindi, del portale www.carnisostenibili.it. Nato dalla comunione di intenti delle tre principali associazioni di categoria, Assocarni, Ass.i.ca. e Unaitalia, il sito si propone di trattare in modo trasversale tutti gli argomenti legati al mondo delle carni: un progetto senza precedenti, in Italia, che con un approccio formativo e informativo vuole contribuire a una informazione equilibrata su salute, alimentazione e sostenibilità. >> Link: www.carnisostenibili.it |
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