Storicamente l’allevamento del coniglio è piuttosto recente, essendo iniziato non prima del Medioevo, ed è stato a lungo condotto in maniera poco o nulla razionale. In particolare, in Italia tale attività ha scontato forti ritardi rispetto ad altri Paesi europei come, per esempio, la Francia, il Belgio, la Germania. Nel periodo tra le due guerre mondiali si è assistito a importanti tentativi di promozione, modernizzazione e razionalizzazione, con produzione di manuali rivolti agli allevatori e un lavoro di incrocio e selezione finalizzato al miglioramento genetico. Abbiamo riletto “Il coniglio”, manuale della Biblioteca Agricola di Paravia, edito nel 19271, il cui autore, professor Francesco Majocco, era veterinario provinciale e direttore dell’Istituto Nazionale per la Coniglicoltura di Alessandria.
Alcune immagini riportate all’interno del volume. Queste, in particolare, si riferiscono alla pratica di utilizzare le classiche botti per il vino, opportunamente “modificate ricavando sportelli e falsi fondi per la raccolta delle deiezioni”, come ricovero per conigli.
L’Istituto Nazionale per la Coniglicoltura “San Michele” era stato fondato l’anno precedente “per il contributo morale e finanziario di un grande industriale di Milano, il commendatore Carlo Pacchetti”, del quale si ha notizia come titolare della Manifattura Italiana Pellicceria per la lavorazione del crine e delle pelli per pelliccerie e che dell’Istituto fu il primo direttore. Istituto che, non a caso, era ubicato ad Alessandria, all’epoca capitale dell’industria della produzione del cappello: la “Borsalino”, infatti, fondata nel 1857 da Giuseppe Borsalino, al quale era succeduto il figlio Teresio, con i suoi 2.500 dipendenti ne produceva due milioni all’anno, in uno stabilimento di 55.000 m2. E proprio per produrre il feltro necessario alla realizzazione di ogni cappello era necessario il pelo di circa cinque conigli. Un fabbisogno che, insieme a quello delle pelliccerie, richiedeva una forte importazione dall’estero, proprio in un momento in cui l’economia nazionale tendeva all’obiettivo dell’autosufficienza (la cosiddetta politica dell’autarchia). Ma non veniva trascurata l’importanza della produzione di carne per il consumo interno, sia a livello della famiglia rurale che per il commercio. E sempre in Piemonte, a Torino, già nel 1874 era entrato in funzione il primo macello italiano per conigli, a testimonianza di uno speciale interesse in quella parte del Paese, mutuato probabilmente dalla vicina Francia nella quale si ha notizia della nascita, intorno al 1830, della coniglicoltura razionale.
L’autore del volume preso in esame metteva a fuoco numerose problematiche e proponeva soluzioni pratiche, allo scopo di incoraggiare l’allevamento del coniglio “nella sicurezza di fare cosa grandemente utile e patriottica”, anche portando l’esempio di quanto avveniva nel Nord Europa, rivolgendo il suo scritto “ai nostri maestri rurali, ai nostri buoni parroci e a tutte quelle persone che vivendo in campagna hanno frequente contatto coi nostri agricoltori”. All’epoca in Italia il tasso di analfabetismo era elevato: nel 1920 era pari a oltre il 35%, ed era ancor più alto nelle zone rurali, per cui veniva ravvisata la necessità di cercare alleanze con i pochi eruditi in grado di diffondere le informazioni tra la popolazione. Può essere interessante leggerne alcuni passi, tuffandosi in una storia agricola ormai superata dal progresso degli ultimi decenni. L’allevamento del coniglio nel nostro Paese, infatti, doveva assumere forme organizzate ed imprenditoriali solo intorno agli anni ‘70. L’allevamento dei conigli era relegato, nell’Italia di allora, agli ambiti familiari rurali, e questi animali erano tenuti, per dirla con l’autore, “nelle condizioni più deplorevoli, non curandosi affatto né dei loro ricoveri, né della loro alimentazione, né della loro riproduzione, affidandone l’incarico della cura a degli inetti, spesse volte lasciandoli completamente in balìa a se stessi”. Il problema dei ricoveri era trattato diffusamente, essendo “sempre di importanza capitale, trattandosi dell’allevamento di qualsiasi specie animale, poiché specialmente dalla buona disposizione e dalla buona tenuta di essi dipende quasi sempre la riuscita di qualunque speculazione zootecnica alla quale l’uomo intende dedicarsi”.
Iniziato non prima del Medioevo, l’allevamento del coniglio è una pratica piuttosto recente, nella quale l’Italia ha scontato forti ritardi rispetto ad altri Paesi europei come, per esempio, la Francia, il Belgio e la Germania.
E ancora, “un animale che debba trascorrere tutta la sua esistenza in un locale oscuro e senza aria, tutto impregnato di esalazioni insopportabili emananti dalla lettiera che troppo di rado viene rinnovata, divorato da parassiti di tutte le specie, non può certo prosperare: questo capita specialmente per i conigli, che il più delle volte vengono trattati con una negligenza addirittura ributtante. Succede spesso infatti di dover vedere questi poveri animali relegati nei meandri più oscuri, spesso anche nelle cantine, dentro a delle casse più o meno sconquassate, malamente disposte, nelle quali la lettiera, se pure esiste, non viene mai cambiata e si presenta perciò tutta impregnata di sterco e di urina. È facile comprendere come in siffatte condizioni questi disgraziati animali deperiscono a vista d’occhio, diventano tutti pelle ed ossa, la loro carne poi si fa cattiva, spesso immangiabile”. L’autore aggiungeva che “una deficienza sotto questo rapporto costituisce la causa principale della diffusione delle malattie, specialmente infettive; in ogni caso gli animali che si trovano costretti a vivere in tali ambienti non danno mai utili di sorta e costituiscono perciò delle passività che ogni allevatore di coscienza deve sempre cercare di evitare”. Veniva segnalata la pratica diffusa in quasi tutte le regioni di “tenere i conigli nelle stalle cogli altri animali”, tra lo sterco e l’urina. La promiscuità di conigli di diverse età e sesso impediva la regolazione dell’alimentazione e della riproduzione, con elementi negativi come la copertura di femmine troppo giovani e la consanguineità. Inoltre, molti conigli, specialmente i più giovani, finivano schiacciati sotto le zampe dei grossi animali. Indicato come “cattiva usanza” l’utilizzo come ricovero di casse di legno, nelle quali peraltro “gli animali finiscono quasi sempre di annoiarsi, mancando assolutamente quel po’ di distrazione che pure è ad essi del tutto indispensabile” (interessante il pionieristico riferimento al benessere animale), e in cui gli alimenti “somministrati sulla lettiera umida vengono subito insudiciati, impregnati di urina e o finiscono di non essere più mangiati o, se lo sono, diventano sempre causa di assai gravi disturbi”. Un tipo di ricovero che, secondo l’autore, rappresentava già un progresso, sebbene non ancora razionale, era costituito da botti. Botti non più utilizzate come contenitori per il vino, modificate ricavando sportelli e falsi fondi per la raccolta delle deiezioni, nelle quali i conigli erano allevati ancora a livello familiare. Ma anche questo sistema “presenta diversi gravi inconvenienti fra i quali il principale è pure quello di non permettere una facile e regolare pulizia: per il fatto poi che il legno di esse in breve tempo si impregna dei liquidi e dei miasmi, occorre rinnovarle piuttosto frequentemente e perciò anche economicamente tale sistema non presenta alcun speciale vantaggio.
D’altra parte è cosa assai facile trasformare una botte in una abitazione per conigli. Si leva a tale scopo uno dei due fondi di essa ed al suo posto si colloca un cancelletto in legno o rete metallica, da poterlo chiudere ed aprire a volontà. Nell’altro fondo si può aprire un finestrino per stabilire una leggera corrente d’aria, nei giorni di grande caldo, ma ciò non è assolutamente indispensabile. La botte si colloca all’altezza di almeno 60 cm dal suolo, sopra a dei cavalletti ed in modo che la sua bocca rimanga al di sotto e serva per lo scolo delle orine che si raccoglieranno in apposito secchiello. Alla bocca sarà bene applicare una rete metallica, onde evitare l’entrata dei topi od altri animali nocivi. Internamente si dipinge con catrame la parte inferiore per renderla impermeabile e preservarla contro gli effetti dell’orina del coniglio. Per dare maggior spazio al coniglio ed anche a fine igienico si colloca internamente nella botte un falso fondo, formato con due assi, alle quali vengono praticati tanti fori di circa 1 cm di diametro e distanti circa 4 cm fra di loro”. Il manuale proponeva l’introduzione di moderne gabbie, presupposto per un salto di qualità in quest’attività. “Il sistema migliore perciò di tenere i conigli è quello di collocarli in apposite gabbie, dette appunto per la configurazione loro e per l’uso al quale vengono adibite, gabbie per i conigli: l’insieme di esse, collocate in un apposito locale aperto o chiuso, in parte o totalmente, costituisce la conigliera”, da impiantare in appositi spazi prediligendo luoghi aperti come cortili o porticati, meglio se addossandole a muri facendo attenzione che non siano esposte a nord, “il che è assolutamente contrario alla salute dei conigli”. Per i locali chiusi la raccomandazione principale era quella di una buona aerazione sebbene si dovessero evitare le correnti d’aria troppo forti. Per la costruzione delle gabbie il prof. Majocco sconsigliava vivamente di “rivolgersi a degli specialisti del genere, che finirebbero sempre di perdersi in particolari molte volte inutili e spesso anche dannosi, facendo inoltre spendere una somma di danaro che potrà invece essere impiegata altrimenti e con molto maggior profitto”.
Non dimentichiamo che ci troviamo in un periodo in cui le disponibilità di spesa erano scarse, e si tendeva ad ottimizzare le assai limitate risorse in riferimento ad un’attività che comunque doveva mantenere ancora un carattere familiare. “Qualunque persona, senza essere falegname, che sappia maneggiare convenientemente la sega e gli altri utensili ordinari della casa, è in condizioni di costruirsi le gabbie per i suoi conigli, purché destini a ciò una parte del tempo disponibile ed un po’ di pazienza e di buona volontà”. Oltre a dare indicazioni tecniche sulla realizzazione delle gabbie e a raccomandare la suddivisione in gabbie diverse di maschi, femmine, piccoli conigli dopo lo slattamento e conigli destinati all’ingrassamento, l’autore dava importanti suggerimenti sulle dimensioni degli spazi necessari agli animali, sulla gestione dell’attività e in particolare sull’alimentazione e la riproduzione, nonché sulle malattie del coniglio, argomenti sui quali non ci si vuol qui soffermare; si tratterà invece in seguito della parte relativa all’utilizzazione di quest’animale, considerato un vero e proprio investimento verso il futuro: il regime fascista e Mussolini in persona, nella loro ottica “autarchica”, avrebbero fatto appello qualche anno dopo, raccogliendo gli stimoli del Prof. Majocco, alle Massaie Rurali e all’Opera Nazionale Dopolavoro, organizzazioni popolari del P.N.F., anche distribuendo riproduttori allo scopo di incoraggiare l’allevamento2.
Marco Cappelli
Bibliografia
1. Francesco Majocco, “Il coniglio”; collana Biblioteca Agricola, G. B. Paravia & C., Torino, 1927.
2. “L’allevamento del coniglio di fronte all’autarchia”; Il Vomere, anno II n. 11, novembre 1939, p. 4; http//emeroteca.provincia.brindisi.it/Il%Vomere/1939.
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