Non sarà un confronto semplice. Di questo tutti gli attori coinvolti sono consapevoli. Ma alla fine una sintesi andrà trovata perché è necessario definire oggi gli scenari del settore zootecnico nell’Europa di domani all’interno della strategia Farm to Fork. Se ne è parlato ad un recente webinar organizzato da Eunews in collaborazione con Carni Sostenibili e European Livestock Voice, al quale hanno partecipato Claire Bury, direttrice generale aggiunta DG Sante presso la Commissione UE; Herbert Dorfmann della Commissione Agri; Jytte Guteland della Commissione Envi; Pekka Pesonen, segretario generale Copa-Cogeca; Luigi Scordamaglia, presidente di Assocarni. Dai diversi punti di vista ascoltati, un dato ha trovato tutti d’accordo: se è vero com’è vero che l’obiettivo deve essere quello di rendere il settore zootecnico più sostenibile da un punto di vista ambientale, è altrettanto vero che gli allevatori devono essere parte integrante della soluzione e non del problema.
Opportunità irripetibile
«Con il Farm to Fork abbiamo davanti a noi un’opportunità unica e irripetibile — ha sottolineato Luigi Scordamaglia — ma non possiamo correre il rischio di vedere la transizione governata da approcci ideologici».
Chiaro il riferimento ai numerosi attacchi al settore zootecnico che, soprattutto negli ultimi tempi, non arrivano solamente da associazioni animaliste e/o ong, ma anche da schieramenti politici. «Sarebbe semplicistico e pericoloso ricondurre tutta la discussione ad una contrapposizione tra due metodi di allevamento, l’estensivo vs l’intensivo, pensando che il primo sia l’unica soluzione percorribile. Chi lo fa dimentica, o non sa, che il sistema zootecnico dagli anni ‘60 a oggi ha permesso di sfamare 125 milioni di persone in più e che l’impatto legato alle emissioni si è ridotto del 20% per ogni chilo di proteine prodotte.
A questo non possiamo dimenticare di aggiungere il grande apporto che può essere assicurato dalle deiezioni animali sia nella produzione di energia rinnovabile, come il biogas e il biometano, con il primo che ci colloca al quarto posto a livello mondiale come produttori, sia come fertilizzante naturale. Quindi, se parliamo di sostenibilità ambientale non possiamo pensare di svincolarla da quella economica. Rischieremmo di fare il gioco di quei gruppi privati che, investendo ingenti somme di danaro, puntano a staccare le produzioni alimentari dalla terra per indirizzarsi verso cibi processati che di innovativo e, soprattutto, di salubre hanno ben poco.
Non c’è dubbio che esistano margini di miglioramento soprattutto rispetto al benessere animale — ha concluso Scordamaglia — non è un caso che la modernizzazione delle nostre filiere rappresenti uno dei principali obiettivi a cui peraltro il Recovery Plan ha destinato una cifra ingente pari a 700 milioni di euro ma, ripeto, non possiamo permettere che l’approccio, in questo momento storico così importante, sia teorico e ideologico: la piena e completa applicazione del Farm to Fork si fa dentro e con le filiere. Certamente non contro di esse».
No all’approccio ideologico
Sulla stessa lunghezza d’onda Herbert Dorfmann, che ha ricordato l’intenso lavoro sul Farm to Fork in cui tutta la Commissione di cui fa parte è impegnata, sottolineando quanto sia importante «agire sui fatti e non sulle ideologie, perché purtroppo le strategie adottate finora non sempre hanno preso in considerazione la scienza, bensì l’ideologia. Inutile negarlo, la discussione con la Commissione è stata spesso caratterizzata da visioni che hanno creato problemi perché, a mio avviso, non c’è stato un corretto approfondimento scientifico su alcuni aspetti molto importanti. Prendiamo ad esempio il tema delle emissioni. Si punta il dito contro il comparto dei bovini da carne ma non si indaga sui danni ambientali che altri cicli di vita, inevitabilmente, provocano e che non possono essere ignorati visto che la popolazione mondiale supera i 7 miliardi di persone.
E ancora. Qual è il vero significato di intensivo? Se correttamente la strategia del Farm to Fork pone come uno degli obiettivi la riduzione dei fertilizzanti chimici è evidente che avremo bisogno di un maggior numero di allevamenti per produrre fertilizzanti naturali attraverso l’impiego delle deiezioni. È indubbio che si debba lavorare per ridurre ulteriormente le emissioni derivanti dagli allevamenti zootecnici — ha sottolineato ancora Dorfmann —ma sarebbe troppo semplicistico continuare a ribadire che l’unica responsabilità relativa all’impatto ambientale deve ricadere sugli allevamenti, e in special modo quelli di carne bovina.
Non vi è alcun dubbio che si debba individuare un modello produttivo più sostenibile, ma bisogna farlo uscendo da una contraddizione enorme che vede oggi l’Europa importare il 95% delle proteine animali di cui ha bisogno. Penso che questa percentuale suggerisca una profonda riflessione che, ripeto, deve essere scientifica. Solo ed esclusivamente scientifica».
Questione di coerenza
«Nel momento in cui afferma che bisogna andare verso una zootecnia più sostenibile che garantisca alimenti sempre più salubri, la UE stringe accordi coi Paesi Terzi per una maggiore importazione di carne, dimostrando una totale incoerenza che avrà ripercussioni molto negative anche sulla redditività degli allevatori europei. Ma come si fa?». Ad dirlo è stato Pekka Pesonen, ricordando che una domanda si impone su tutte a seguito dei numerosi e radicali cambiamenti che gli allevatori hanno adottato nei loro metodi produttivi: come e cosa rende sostenibile un allevamento?
«Forse bisognerebbe considerare che, a fronte di un aumento della produzione di carne registrato in questi ultimi decenni, contestualmente abbiamo rilevato un abbassamento delle emissioni grazie all’innovazione tecnologica. Un’evoluzione che deve però anche tradursi in un giusto riconoscimento economico, con prezzi capaci di premiare la redditività aziendale.
L’importanza economica dell’agricoltura e dell’allevamento non può essere sottovalutata; per questo, nel rispetto degli ambiziosi obiettivi del Farm to Fork, noi abbiamo chiesto alla Commissione di fornirci strumenti sostenibili per realizzare i miglioramenti richiesti all’interno di una corretta valutazione degli investimenti richiesti.
Non vogliamo nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di una riduzione degli allevamenti perché questo creerebbe uno squilibrio senza precedenti che darebbe origine ad un mercato estremo. Noi vogliamo invece che le produzioni siano alla portata di tutti, lasciando ovviamente al consumatore la libertà di decidere cosa acquistare».
Coerenza prima di tutto
Per Claire Bury, anima ispiratrice del Farm to Fork che ha definito parte essenziale del Green Deal, le preoccupazioni degli allevatori sono comprensibili e non lasciano indifferente la Commissione. «Le sfide nate dalla pandemia ci hanno costretto a prendere coscienza di quanto sia necessario individuare un modello più resiliente ma, soprattutto, più sostenibile di produzione. E per riuscire in questo percorso non vi è alcun dubbio che occorra il coinvolgimento di tutti gli attori della filiera perché la produzione animale, in Europa, è una parte importante dell’economia: basti pensare che nel 2017 il valore del settore ha toccato i 170 miliardi di euro, pari al 40% del totale.
Quindi, quando parliamo di transizione verso un sistema più sostenibile, non possiamo non considerare che una sfida di tale portata non può riguardare solo le questioni ambientali ma anche la lotta alla microbicoresistenza, il rispetto del benessere animale, la riduzione dei pesticidi. Il tema quindi richiede un grande equilibrio e non contrapposizioni ideologiche che non porterebbero da nessuna parte.
La Commissione conosce le preoccupazioni degli allevatori e per questo rivolge loro un invito a partecipare a tutte le discussioni in programma per trovare insieme soluzioni valide e sostenibili. Posso garantire che metteremo il massimo impegno per dimostrare la necessaria coerenza operativa, a iniziare dalla gestione dei pesticidi: se la UE deciderà di proibirli non accetteremo analoghi prodotti di importazione. Sul benessere animale la sfida è di pari importanza. La Commissione ridurrà o eliminerà le gabbie e procederà ad una totale revisione della normativa. Gli impatti sugli allevatori saranno inevitabili, per questo prevederemo aiuti che possano garantire loro dei vantaggi.
Non mancano poi proposte molto interessanti in materia di ricerca e innovazione e, riguardo la grande sfida legata alla digitalizzazione, posso affermare che entro il 2025 tutte le aree rurali avranno accesso alla banda larga. Non posso che sollecitare la partecipazione di tutti gli operatori per trovare insieme soluzioni che migliorino e non penalizzino un comparto che è una parte fondamentale della UE».
Voce dissonante
Di sistema zootecnico attualmente non sostenibile ha parlato Jytte Guteland, che con una certa dose di equilibrismo diplomatico ha sì riconosciuto l’importanza del settore, la necessità di migliorare le condizioni di lavoro degli allevatori che ha definito “eroi” per il ruolo che ricoprono nel garantire l’approvvigionamento alimentare, sottolineando al contempo il bisogno, in Europa, di un sistema allevatoriale molto forte ma più sostenibile per avere cibo prodotto localmente, «con l’auspicio che per gli allevatori si creino le migliori condizioni e opportunità per rimanere sulla loro terra, eppure — è stato il suo affondo — gli studi ci dicono quanto il sistema zootecnico attuale impatti sull’ambiente e quanto sia necessario cambiare le tecniche di produzione e mangiare meno carne. Quindi io auspico la nascita di incentivi da destinare a chi trasforma la sua produzione verso modelli più sostenibili, perché tra le altre cose ritengo sbagliata questa ampia e diffusa concentrazione di animali allevati. Il parere degli allevatori mi interessa molto e, pur rappresentando una voce diversa, penso che lavorando insieme potremo riuscire a trovare insieme soluzioni equilibrate».
Anna Mossini
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