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Storia e cultura

Il Mattatoio di Testaccio a Roma

di Gaddini A.



Uno dei monumenti più importanti della Roma umbertina era il Mattatoio di Testaccio, che funzionò come stabilimento di macellazione fino al 1975. Progettato nel 1888 dall’architetto romano Gioacchino Ersoch (1815-1902), allievo di Giuseppe Valadier, fu inaugurato nel 1891.


La macellazione a Roma fino al 1891
Fino al 1825 le macellazioni avvenivano nelle numerose botteghe di macelleria della città, ma, per ovviare ai problemi igienico-sanitari, fu costruito il primo mattatoio pubblico della città, in piazza del Popolo (si veda Il Macello di Piazza del Popolo a Roma, in Eurocarni n. 2/2024, pag. 112). Dal 1870, con il trasferimento a Roma della capitale d’Italia, si ebbe un forte incremento della popolazione, la zona di piazza del Popolo divenne centrale e fu interessata da profonde trasformazioni urbanistiche, che imposero la costruzione di un nuovo macello, in zona più decentrata, secondo le indicazioni date del teorico dell’architettura Francesco Milizia nel 1785. All’epoca il tragitto delle mandrie verso il macello si svolgeva in aree centrali della città, creando pericoli per i passanti, protetti solo da steccati “salva-uomo”. Oltre a ciò, il vecchio mattatoio si trovava sul fiume, a monte della città, e i reflui si accumulavano nel centro, creando, specie in estate e con basso livello delle acque, situazioni sgradevoli, e imponendo di trovare una nuova area “sotto corrente del fiume” (Lux, 1976). Così il Comune di Roma, con il Piano Regolatore del 1873, decise la costruzione di un nuovo impianto, nella zona Ostiense, allora periferica, a sud-ovest della città, in un’ansa sulla riva sinistra del Tevere. L’area si trovava sui resti degli antichi horrea romani (magazzini) dell’Emporium, ai piedi del Monte Testaccio, detto anche Monte dei Cocci, una collina di 35 metri creata dall’accumulo secolare, in epoca romana, di anfore olearie vuote (Dressel). La zona pianeggiante delimitata dal Tevere e dal Testaccio era denominata “prati del Popolo romano”, essendo di proprietà demaniale e riservata, almeno dall’anno 5 d.C., all’uso pubblico per scampagnate e feste (Lanciani). Tra queste, la festa della domenica di Carnevale nella quale si lanciavano dal monte Testaccio dei carri che portavano dei maiali e si liberavano dei tori. Una volta arrivati nella pianura questi erano accolti da una folla armata di coltelli, che se li contendeva per appropriarsi delle carni (La corrida a Roma, in Eurocarni n. 2/2018, pag. 122). Nelle grotte scavate ai piedi del Testaccio si trovavano cantine ed osterie, meta di scampagnate (Dressel). La situazione era analoga a quella del mattatoio e mercato del bestiame della Villette, a Parigi, costruito nel 1859 su un’area di campagna, tradizionale meta di gite dei parigini, al posto di cinque mattatoi cittadini, che ormai si trovavano in zone troppo centrali. Il mattatoio della Villette fu chiuso nel 1973, e, al contrario di quello romano, fu demolito (Perego). L’area di Testaccio era destinata all’espansione industriale e vi andavano dislocate le attività “clamorose” (ossia rumorose) e quelle, come il mattatoio, che generavano cattivi odori. Fu potenziata la ferrovia Roma-Civitavecchia e furono insediati vari altri complessi produttivi, realizzati con muratura portante esterna e “nuovi materiali”, come ferro e ghisa, legati quindi all’industrializzazione e alla prefabbricazione (Canciani et al.). La zona era anche vicina al porto fluviale di Ripa Grande. In realtà, l’area ebbe in seguito uno sviluppo per lo più immobiliare, a parte il Mattatoio, il Campo Boario, il nuovo mercato del bestiame che sostituiva il Foro Boario di piazza del Popolo e quello a piazza San Giovanni (Franco), oltre ad alcune attività ad essi connesse, come concerie (come tuttora testimoniato dalla vicina via delle Conce), stabilimenti per la produzione, a partire dagli scarti del macello, di colle e concimi, oltre alla Mira Lanza, che produceva candele steariche e saponi (Capodarte, Perego).


La costruzione del nuovo mattatoio
La fonte più importante di notizie sul mattatoio di Testaccio è il suo progettista Gioacchino Ersoch, esperto nella progettazione di macelli ed autore dell’ampliamento del vecchio mattatoio di piazza del Popolo, nei suoi testi del 1891 e 1894. Il 21 luglio 1888 il consiglio comunale approvò il suo progetto, ma i lavori erano già iniziati nel maggio 1888 e la procedura di approvazione fu accelerata perché la pelanda, il mattatoio dei suini del vecchio impianto, doveva essere demolito per la costruzione del nuovo ponte Margherita. Ersoch avrebbe voluto costruire anche un mercato dei vini, che però non fu realizzato, ed aveva pensato a un sistema di mercati generali e rionali, solo in parte messo in atto. L’architetto seguì il modello delle Grandes Halles, i mercati generali di Parigi, costruiti tra il 1854 e il 1866, sorretti da capriate Polonceau, ossia una travatura reticolare piana posta in verticale a doppio puntone a forma di V rovesciata. I rimessini, recinti esterni che consentivano la movimentazione del bestiame prima della macellazione, erano elementi prefabbricati in ferro, ferro fuso e ghisa. Edifici come il mattatoio hanno un’importanza storica, in quanto utilizzavano le nuove tecnologie messe a punto per le ferrovie, e che caratterizzano l’epoca, in contrasto con le architetture coeve che facevano riferimento al passato, come quelle neogotiche o neoclassiche (Cupelloni). Va notata comunque l’armoniosa integrazione dei nuovi materiali con le facciate di mattoni a vista di impronta neoclassica e ottocentesca. Fu molto criticato l’abbondante uso del ferro e della ghisa, anche in strutture solo ornamentali, con un maggiore costo di costruzione e quindi forte spesa a carico del comune. Questo, secondo Ersoch, garantiva però un risparmio sulla manutenzione e una maggiore durata rispetto agli elementi in legno, soggetti ad usura per gli urti del bestiame, e anche a rotture, con fuga di animali, come accadeva nel vecchio impianto. Il progetto prevedeva uno schema rigorosamente ortogonale, escludendo le aree irregolari, come la sponda del fiume, per la futura espansione, con flussi separati tra bestiame vivo in entrata e carni in uscita e tra acque di lavaggio, pulite e sporche (Perego). La costruzione fu affidata all’impresa Marotti, Frontini e Geisser (Giovanni Battista Marotti era da poco diventato proprietario dell’area) e per le opere in ferro all’Officina Fumaroli. Già il 29 novembre 1888 entrò in esercizio la pelanda, che riutilizzava le stesse attrezzature del vecchio mattatoio, ed erano pronti le strade perimetrali, il muro di recinzione e gli edifici di servizio. Ersoch andò in pensione nel 1889, ma gli fu concesso di seguire la costruzione del mattatoio a titolo gratuito e l’intero impianto iniziò a lavorare il 29 novembre 1891, dopo circa un anno e mezzo di lavori. Il lavoro di Ersoch fu lodato da papa Leone XIII per il tra-mite del segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro (Stemperini). All’epoca il macello era il più importante d’Italia e si estendeva su una superficie di oltre 50.000 m2, di cui la metà di edifici, che salivano a 100.000 contando il Campo Boario. Nel 1892 i capi bovini e suini macellati erano 145.000 (Ipsilonne). Diverse fonti riportano diversi costi di costruzione dell’impianto: da circa 6,5 milioni di lire (Pentiricci), a circa 7 (Lux 1977, da Ersoch), a 8,5 (De Benedictis), fino a 9 (Bertolini et al., Perego) (una lira del 1891 corrisponde circa a 5 euro di oggi). Nel 1895, per evitare di instradare il bestiame sulle linee ferroviarie comuni, la struttura fu collegata al centro della città con un “binario comunale” ferroviario con piano scaricatore, gestito dalla “Società delle strade ferrate del mediterraneo” (Gargiulo), ampliato nel 1913, consentendo di ricevere convogli anche di 50 carri bestiame.


I macelli per i bovini
La facciata principale, su largo Orazio Gentileschi, ha tre fornici e, alla sommità, una scultura in cemento e stucco che rappresenta un genietto che atterra un bovino, ai piedi del quale una brocca e un martello, simboleggiano la macellazione di rito ebraico e quella ordinaria (Perego). L’impianto per la macellazione dei bovini prevedeva quattro padiglioni, ciascuno di 64x18 m, alti 9,30, con 6 ingressi, due sulle testate e quattro sui lati, separati tra bestiame domo e indomito. Ersoch aveva adottato il sistema a corsie, o a galleria unica, funzionale a rendere più efficienti le ispezioni sanitarie e la pulizia degli spazi comuni, ad evitare la sottrazione dei visceri prima che avvenisse l’ispezione veterinaria, e a ridurre i rischi di furti delle attrezzature, denunciate dagli operatori. Inoltre, era il sistema più adatto ai bovini indomiti, difficili da contenere in spazi ristretti. Una doppia fila di colonne in ferro fuso separa una navata centrale e due laterali, divise in undici spazi per lato, ciascuno dedicato a un macellaio, mentre la pelanda era organizzata con celle separate. Le pareti erano rivestite di marmo bardiglio fino all’altezza di 2 metri e il pavimento era in asfalto minerale. Non era prevista illuminazione perché le lavorazioni dovevano cessare alle 14:00, così le ispezioni veterinarie delle prime ore delle mattine d’inverno si svolgevano con lanterne accese (Bertolini et al.). Tra le colonne, a due metri di altezza, correvano i “faccioni” sbarre orizzontali alle quali si assicurava il bestiame da macellare, e gli uncini con le parti macellate. Nel pa-vimento erano fissati gli anelli per fissare la corda con la quale si assicurava il bovino per la macellazione. Le colonne sostenevano le armature per i tiri per sollevare le carcasse. Il sistema a corsie fu fortemente osteggiato dalle associazioni degli operatori, che preferivano il sistema a celle, per avere spazi propri, da gestire autonomamente, e da utilizzare anche per la frollatura. Queste richieste bloccarono i lavori per alcuni mesi, fino al maggio 1889 (Perego), ma Ersoch rimase saldo nella sua posizione, con l’idea che il macello fosse un bene pubblico, aperto a tutti, anche ai piccoli allevatori, e non solo a pochi grandi operatori (Stemperini), e manifestò sempre la sua particolare attenzione per l’igiene e la salubrità delle carni, e per la protezione degli operatori e dei consumatori dalle speculazioni, il tutto a beneficio della collettività. Inoltre, l’organizzazione con uno spazio comune unico permetteva risparmi per l’uso di attrezzature comuni, come vasche e caldaie, e una maggiore efficienza, confermata dal confronto tra macelli con i due sistemi, sul numero di animali lavorati per unità di superficie, oltre alla maggiore superficie di edifici, con maggiori costi e tempi di costruzione più lunghi per il sistema a celle. Come nel vecchio mattatoio di piazza del Popolo era prevista una diversa stabulazione per i bovini domiti, in stalla coperta per 600 capi, e per quelli indomiti, in rimessini all’aperto di 64x27, ed erano anche previsti due fornici separati sulla facciata principale, per le due categorie (Lux, 1977). I bovini indomiti erano quelli non avvezzi alla stabulazione, ossia quelli allevati allo stato brado nella campagna romana e in Sardegna, oltre ai buoi da lavoro, ma già negli anni ‘30 l’afflusso di questi animali non era tale da giustificare la separazione (Franco). Negli anni ‘30 il mattatoio di Testaccio riceveva bestiame vivo da tutte le regioni d’Italia, in misura minore dall’Italia meridionale, e da varie nazioni estere, in particolare da Romania e Iugoslavia, seguendo i flussi commerciali dell’epoca (Torti).


La pelanda (macello per i suini)
La pelanda era un edificio di 92x33,4 metri con un padiglione di macellazione (detto “campo di morte”) costituito da due file di box rettangolari, separati da un corridoio centrale. Seguiva la zona di pelatura con 24 tine in ghisa da 1,5 m, profonde 1,1 m, ciascuna rifornita di vapore da un sistema di condutture proveniente dalle caldaie e affiancate da tavoli per la lavorazione. In ogni tina si potevano lavorare tre suini per volta; quindi, in dieci minuti si potevano preparare 72 suini e in 10 ore lavorarne 3.000. Seguivano le vasche per il lavaggio degli intestini. All’estremità del locale c’erano le bascule per la pesa delle carcasse, dato che i contratti d’acquisto erano basati sul peso morto. All’epoca dell’apertura del mattatoio si macellavano 40.000 suini (Solinas). L’abbattimento era praticato per accoratura, consistente nel piantare un chiodo nel cuore dell’animale, gradualmente sostituito dallo scannamento (De Benedictis). Era anche presente un locale per la lavorazione delle carni suine leggermente panicate (infestate da larve di tenia), che all’epoca potevano essere messe in commercio previa cottura, e che erano tagliate, insaccate e poi cotte, sotto la sorveglianza del veterinario. Il lardo degli stessi animali doveva essere lasciato sotto salatura per 3 mesi, in un locale apposito. Anche gli intestini destinati ad insaccare le carni erano salati in 83 vasche di travertino con fondo in cemento e con un asse di legno bucherellato per lo scolo del sale liquefatto (Capodarte).


Altri edifici
Gli uffici e i locali per le cure zootermiche e la bevanda del sangue (Il Macello di Piazza del Popolo a Roma, in Eurocarni n. 2/2024, pag. 112), erano disposti accanto alla facciata principale, con accesso diretto dall’esterno, per evitare l’accesso di estranei a zone pericolose. Nei pressi dei quattro padiglioni di macellazione si trovavano quattro stalle di sosta per il bestiame domito, divise in locali per bovini adulti e per vitelli. Nel complesso, stalle e rimessini potevano ospitare circa 700 capi bovini. Tra i due padiglioni di macellazione di ciascun lato si trovavano due rimessini per il bestiame indomito, in parte coperti da tettoia e localizzati in modo da minimizzare il tragitto verso la macellazione degli animali più irrequieti. Fu anche costruito un quinto padiglione (Macello V), diviso tra i locali per la macellazione con rito ebraico e per quella destinata alle forniture militari, locali per i sette serbatoi per l’acqua, da 120 metri cubi ciascuno, e altri cinque per la tripperia. Inoltre, erano disponibili scuderie per i cavalli dei mandriani che conducevano il bestiame indomito e di altri frequentatori, l’attrezzeria e il deposito giornaliero delle pelli. Un locale comprendeva il macello dei capretti, la tripperia con cinque coppie di caldaie. Al piano superiore del macello dei capretti si trovavano dei locali per la lavorazione degli intestini degli stessi, usati per produrre le corde armoniche per gli strumenti musicali ad arco. Le cisterne d’acqua in totale potevano fornire 3.000 metri cubi giornalieri, provenienti da pozzi interni e dagli acquedotti dell’acqua Marcia e dell’acqua Paola, prelevata dal lago di Bracciano (Solinas), mentre una galleria filtrante con un sistema di pompaggio consentiva di approvvigionarsi di acqua dal vicino Tevere in caso di necessità. In un altro fabbricato erano poste le stalle di osservazione per animali sospetti di malattie, il laboratorio per la distruzione delle carni infette, completo di macello, tavolo anatomico, alloggio del custode e studio del veterinario. C’era poi una bascula e un locale per l’arrotino. L’impianto a vapore per la distruzione e la produzione di concime in polvere, dopo mescolamento con torba, e il suo funzionamento sono minuziosamente descritti da Ersoch. Il sangue, a parte quello usato per la terapia, apparteneva alla “Società dei padroni beccai”, che, per 7.000 lire annue, lo aveva ceduto a una ditta che ne ricavava albumina, usata per fissare i colori delle stoffe. Lo stabilimento per la lavorazione comprendeva locali per il taglio del sangue coagulato, per il deposito del siero, per le stufe per l’essiccazione dell’albumina, del sangue cristallizzato usato per la raffinazione degli zuccheri e della trefusia (albuminato di ferro naturale per la cura dell’anemia). I residui del sangue, mescolato con calce e fosfati, usato per produrre concimi, insieme con le ossa e il carniccio (Bertolini et al.), erano appaltati e lavorati all’esterno, a causa dei cattivi odori generati. Il pelo dei suini, destinato alla produzione di spazzole e pennelli, veniva diviso tra le carceri ed un laboratorio, mentre gli unghielli erano usati per farne bottoni (Gargiulo, De Benedictis). Il grasso proveniente dagli animali abbattuti per motivi sanitari era rivenduto dal comune per la trasformazione in sapone, dopo la restituzione al proprietario della pelle e di un’indennità di 10 lire a capo per i bovini e di 0,20 lire/kg di peso lordo per i suini (Bertolini et al.).


Il Campo Boario
Il Campo Boario poteva ospitare fino a 1.200 capi e disponeva di stalle di sosta, rimessini, padiglioni per l’esposizione del bestiame, una pesa pubblica, oltre ad una trattoria, un ufficio postale, un corpo di guardia, gli uffici della borsa merci, dei contratti e dell’assicurazione bestiame. I padiglioni per l’esposizione del bestiame erano un progresso rispetto al sistema usato nel vecchio macello, nel quale gli animali erano esposti per molte ore tenuti a braccia dagli addetti, spesso sotto le intemperie o sotto il sole. Anche il Campo aveva due ingressi separati, per il bestiame domito e per quello indomito, e tale divisione era garantita da una passerella pedonale recintata e rialzata che lo divideva in due, e includeva un edificio ottagonale detto Belvedere, o Panòttico, usato per l’ispezione del mercato. Il mercato si svolgeva il giovedì e il venerdì per i bovini e il mercoledì per i suini e tra maggio e giugno per gli equini (Bertolini et al.). Una campana, al centro del portale d’ingresso, segnava l’inizio e la fine delle contrattazioni. I recinti per i suini erano usati soprattutto da novembre a febbraio e quelli per gli ovini a marzo e aprile, quando l’afflusso di bovini indomiti era minore. Erano poi presenti i depositi dei foraggi.

Ersoch sottolinea la maggiore importanza del mercato e del mattatoio per la città di Roma che non per le grandi città del nord, dove il circondario disponeva di molti altri mercati e mattatoi. Per il bestiame indomito e per quello stallino da zone lontane da Roma c’era comunque una diffusa abitudine a vendere il bestiame già in azienda, per la difficoltà di riportare indietro il bestiame invenduto, limitando il ruolo del mercato alla spartizione tra i compratori.


Gli addetti al macello
Gli addetti fissi del mattatoio erano solo 70, ma altri 2.000 lavoravano nell’indotto. De Benedictis elenca le figure che vi si incontravano nel 1906: mercanti di bestiame, bovari, mediatori, macellai, garzoni macellai, tripparoli, grassaroli (raccoglitori di grasso), testaroli (raccoglitori di teste private del cervello), fegatari (raccoglitori di fegati, corate e cervelli e schienali, ossia il midollo spinale), pellai o vaccinari (ra-ccoglitori di pelli), carrettieri, che trasportavano le carni fuori dal mattatoio, e sanguinari, ossia raccoglitori di sangue per ricavarne albumina per uso industriale e emoglobina per uso terapeutico, o per farne sanguinacci o per venderlo lessato. D’inverno, da metà ottobre a metà marzo, quando era in funzione la pelanda, lavoravano anche pizzicagnoli, norcini, accoratori (che abbattevano i suini), incollatori (che trasportavano i suini macellati alle bascule e ai carri) e pesatori. I carrettieri comunali consegnavano le carni ai negozi con carri, le cui rimesse erano nello stesso perimetro del mattatoio (Cupelloni).


Il rimodernamento del mattatoio
Il mattatoio subì diversi ampliamenti negli anni per adeguarne le dimensioni all’aumento dei capi da lavorare. Tra il 1912 e il 1918 fu aggiunto l’edificio dei frigoriferi e della fabbrica del ghiaccio, non compreso nel progetto iniziale — all’epoca uno dei più moderni in Europa (Cerchiai) —, e una delle prime opere in cemento armato a Roma (Cupelloni). I locali frigoriferi erano distinti in anticamera fredda per la frollatura a piano terra, a 5-6 °C per due o tre giorni, e sala di conservazione a 0 °C al primo piano, per 7 o 8 settimane di sosta (Franco). Nel 1924 fu allargata la pelanda, con corsia di macellazione, nuove caldaie per la scottatura dei suini, corsia per ispezione sanitaria e tripperia (Franco). Furono aggiunti dei rimessini per i suini in attesa di macellazione e furono modernizzati i padiglioni di macellazione dei bovini, inserendo le guidovie meccanizzate, anche esterne e coperte da pensiline, per la movimentazione verso i frigoriferi modernizzando gli argani. Nel 1932 fu allestita la sala di vendita grande, collegata a mezzo di guidovie con i macelli e i frigoriferi (Torti). Fu allestito un moderno gabinetto per l’esame microscopico delle carni, e per la ricerca dei saprotossici, e un museo di Anatomia patologica, munito di una sua biblioteca, per unire l’attività di macellazione a quella di ricerca, (Torti). Tra il 1944 e il 1957 fu costruita una terza sala di vendita, modificando i depositi degli attrezzi e dei pellami, il locale dell’arrotino e la pesa pubblica (Franco). Negli anni ‘50, a causa della crescita del trasporto su camion, fu aperto un nuovo accesso veicolare sul Lungotevere (Pentiricci), davanti al ponte Testaccio, inaugurato nel 1948. Il 18 gennaio 1985 un fulmine colpì la ciminiera e la fece crollare sulla pelanda, danneggiandola (Perego).


La chiusura del mattatoio
Già con la variante del Piano regolatore del 1939 si prevedeva la chiusura del mattatoio di Testaccio (Perego). Quindi già prima della chiusura, nel 1975, il numero di capi lavorati diminuì drasticamente, e i macellai romani si rivolgevano all’esterno per l’acquisto di carne (Perego). Al posto del mattatoio doveva sorgere un grande giardino e una strada di scorrimento veloce, ma il grande valore architettonico del complesso, la sua importanza come bene archeologico industriale, e la fame di strutture sociali dell’area circostante, spinsero per una riqualificazione del complesso. Gli edifici del mattatoio hanno ospitato, tra l’altro, l’ufficio elettorale, l’ufficio contravvenzioni della polizia municipale, un’associazione di rifugiati curdi, un centro sociale, le stalle delle botticelle (le tipiche carrozzelle di piazza romane), scenografie del Teatro dell’Opera, aule per concorsi, spettacoli dell’Estate romana e, nel marzo del 1991, l’edificio dei frigoriferi fu assegnato alla Scuola popolare di musica di Testaccio (Perego). Oggi il complesso dell’ex-mattatoio ospita locali per mostre e il dipartimento di architettura dell’Università Roma Tre, mentre altri edifici sono in via di ristrutturazione, come il Macello III, che ospiterà il Centro per la fotografia, mentre altri sono in stato di abbandono.


Il mattatoio di via Togliatti
Dopo la chiusura del mattatoio di Testaccio, nell’agosto del 1975, le macellazioni sono state trasferite al nuovo impianto di via Togliatti, 1280, con un Centro Carni che ospita diversi operatori. È stato proposto da anni il trasferimento dell’impianto presso il Centro Agroalimentare Roma 1, situato nel comune di Guidonia Montecelio, confinante con Roma, in Via Tenuta del Cavaliere, ma per il momento il progetto è in stallo.



Andrea Gaddini



Ringraziamenti
L’autore ringrazia il personale della Biblioteca Storica Nazionale dell’Agricoltura per la preziosa fattiva collaborazione per il reperimento delle fonti bibliografiche.


Bibliografia
Per gli interessati, la bibliografia è disponibile in Redazione.



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