“Punk not diet!” è il secondo disco dei Giardini di Mirò. Ristampato a gennaio 2024 poco dopo i vent’anni dalla pubblicazione (l’edizione con l’aggiunta di brani editi solamente su ep e singoli recita “2003-2023+1”) è l’occasione per riascoltarlo, ma anche di ripensare alla particolare associazione tra titolo e copertina dove la sagoma di un cavallo, prima disegnata e poi scarabocchiata, è accompagnata da una spilla da balia, giocando così con uno slogan spesso usato senza cognizione di causa. Band nata tra Cavriago e Reggio Emilia, a fine anni ‘90 aveva portato in Italia il post rock che gli scozzesi Mogwai avevano contribuito a creare, aggiungendo connotazioni decise e riconoscibili tra le sensibilità di questo continente e di questa penisola.
Come siamo arrivati a questo disco e a questa copertina? Partendo da un dato e cioè che l’Emilia-Romagna è la regione con più prodotti DOP e IGP: dei 44 totali, Parma ne ha ben 6, in ragione di caseifici e norcinerie eccellenti.
Certo, ma se è impossibile non pensare al Parmigiano Reggiano così come al Culatello o al Prosciutto, è solo vivendo la quotidianità della città ducale che se ne può conoscere appieno l’identità — non solo —, gastronomica. Attraverso gesti, abitudini, veri e propri rituali come ritrovarsi, per tradizione il mercoledì e il sabato, in attesa di entrare nelle macellerie equine per mangiare il cavallo crudo, forse a voler celebrare la settimana lavorativa che si avvia e poi si apre alla conclusione!
Se fino ai tardi anni ‘70, come nel resto d’Italia, era consumata dai ceti sociali più popolari, oggi la carne di cavallo a Parma è una tradizione trasversale e condivisa che trova nel Cavàl pist il suo rappresentativo più celebrato. Disossata e sgrassata, viene consumata cruda e condita solo con sale, pepe e un filo d’olio e limone. Può essere di prima o di seconda scelta, a seconda della percentuale di grasso e dei tagli utilizzati. E se quella “di prima” è decisamente più magra, dal colore rosso vivo, consistenza compatta e gusto delicato ideale per il consumo crudo, quella di seconda, inversamente con una percentuale di grasso maggiore, è l’ingrediente principale della “Vécia alla pramzana” (la Vecchia alla parmigiana) o della “Vécia col pist” (la Vecchia col pesto di cavallo), un secondo piatto legato al recupero delle carni avanzate, dove il pesto di cavallo è cotto e servito caldo con pomodoro, patate, peperoni, cipolle e sedano.
Sono diverse le macellerie equine nel Parmense. Tre, storiche, si trovano proprio nel cuore della città ducale: la Macelleria Olga in Borgo Basini, la Macelleria Bolsi e Parizzi in Borgo del Gallo e la Macelleria di Palmia e Simonetti, con la sua iconica incisione in rosso sull’edicola razionalista, in via Ferdinando Maestri.
Ma non dimentichiamo quanto sia buono “al pist” dentro un panino… Per scoprirlo e gustarlo c’è un posto imperdibile: Pepèn dal 1953 è la paninoteca per antonomasia a Parma, piccolo locale pieno di storia e di storie, come solo i luoghi dove si condivide l’esperienza di mangiare stretti dentro o un po’ più larghi appena fuori, possono custodire.
Posti concreti, dove le classi sociali più diverse si mischiano, scontrandosi e dialogando, dove le mode ci provano ma poi passano, dove le diete intese come “cosa mangio e quando lo mangio” sono naturali e non artificiali.
“Punk not diet!” appunto dicevamo, come pubblicare un disco che, dopo un esordio importante e celebrato, non si allinea a ciò che ci si aspetta ma continua ad esprimersi come vuole. Lo mette in chiaro subito, quando in Too much static for a beguine, le parole lette da Ronnie James sembrano salire come nebbia dalla terra, tra tastiere e chitarre che si contraggono e rilasciano, come a rivelarsi alla luce dell’alba. Da qui nasce The Swimming Season, stratificata e corale, una suite che si apre e accoglie, chiamando l’ascoltatore ad avvicinarsi come ad ascoltare una confidenza.
Perché la voce di Alessandro Raina è in mezzo al suono, non si alza sopra gli strumenti e continua a narrare mentre si aggiungono fiati e una fisarmonica, in un dialogo che diventa protagonista naturale, senza imporsi, come liberandosi.
Il post rock, virato su una forma canzone che non tradisce l’attitudine, entra con Given ground (oops…revolution on your pins), e titolo che ironicamente scherza con le aspettative create da un esordio tanto celebrato quanto ingombrante. È un camminare faticoso tra accordi dolci, poi ci si ferma e gli archi fanno respirare e ci si appoggia prima di ricominciare, stavolta non da soli ma con una chitarra che taglia e incide dal basso verso l’alto. Si chiude marziale e poi una fuga percussiva si esaurisce come si era cominciato, ma al contrario.
Connect the machine to the lips tower *be proud of your cake* comincia che sembra uscire dalle session di “Rise and Fall of Academic Drifting”: solenne e verticale, con una dinamica tra corde e batteria che prima si placa in un paesaggio glitch tra Fennesz e Apparat, poi sceglie una strada dove le chitarre si abbassano ad accompagnare e fanno salire tutto in un crescendo morriconiano che allo stesso tempo ricorda cose belle come solo certi Notwist sembravano poter fare.
Il dialogo tra un’elettronica gentile che nei primi 2000 prendeva da Brian Eno l’ambient per farlo canzone, prosegue prima nella crepuscolare Once a again a fond farewell, poi nel piano sequenza sonoro in aria di Morr Records di The Comforting Of A Transparent Life.
Una ballad che trasfigura in una progressione fitta come pioggia di un temporale, When you were a postcard si aggiunge alla lista dei brani indissolubilmente legati alla scrittura dell’album precedente. La malinconia straniante di Last act in Baires si cristallizza nella voce di Kaye Brewster tra filtri ed effetti di synth e chitarre, saturando fino a scomparire all’orizzonte di un mare di nebbia. Un viaggio che è straziante lontananza, archi a piangere un ritorno che non arriverà.
Dolphins are here to watch your blue blood flow chiude un album tanto intenso quanto sorprendente, legato al recente passato ma che si emancipa nel modo meno prevedibile, grazie ad una voce presente al pari degli strumenti e scegliendo di contaminare le chitarre, che tanto avevano definito il loro suono, ad un’elettronica tanto contemporanea quanto malinconica. A distanza di anni, le polemiche che accompagnarono gli elogi di critica e pubblico lasciano spazio a una ristampa che celebra un disco tanto intenso quanto coraggioso.
Giovanni Papalato
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