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Il primario mandriano

di Focherini F.

I grandi cuochi e scalchi delle corti italiane nel periodo tardorinascimentale e barocco teorizzarono l’arte del ben condire, che a mano a mano scantonò e sbandò in accostamenti sempre più audaci, irriverenti, rivoluzionari. Insomma, si sviluppò quel gusto ossimorico dell’agrodolce – per esempio il piccione in pan di Spagna cotti insieme nel latte e nella malvasia con una spruzzata di zucchero e aceto – che secoli avanti, nei nostri anni ’70 e ’80, sfociò come un fiume carsico sotterraneo nel mare francioso delle salse giulebbose ornate di frutta e fiori della nouvelle cusine di Paul Bocuse.

La nouvelle cusine, si dice, è morta. Ma Paul Bocuse le sopravvive con disinvoltura. E la cucina destrutturata di Adrian Ferrá, il geniale chef catalano che propone minestre dolci, gelati salati, semifreddi al parmigiano e prosciutto ibérico al cioccolato, sta diventando oggetto di culto internazionale.

Queste mode gastronomiche, che oggi si chiamano anche, chissà perché, "intermediazioni culturali", non hanno mai fatto gran breccia, nemmeno nel ’600, nella cultura alimentare marchigiana: povera, rustica, chiusa a riccio in un sistema agro-economico semicurtense. Se c’è una regione italiana arroccata è proprio la marchigiana. Nelle Marche ci sono montagne per il 31,2% e colline per il 68,8%. Di pianura nemmeno l’ombra. Montagne e colline arrivano fin sulla costa, dal Montefeltro al parco nazionale dei Sibillini, da Pesaro a San Benedetto del Tronto.

Per scoprire la semplicità della cucina marchigiana dell’interno – quella della costa è cucina di mare, simile a quella della costa romagnola e abruzzese – i suoi profumi e i suoi sapori netti, scolpiti in una tradizionalità quasi incorrotta, bisogna andare a Visso, sui Sibillini, alla trattoria Richetta, a Camerino all’Osteria dell’Arte, a Macerata dalla Rosa o da Secondo, e soprattutto vicino a Castelraimondo, in località Sant’Angelo, all’agriturismo incantevole, vero, duro, e puro, del Giardino degli ulivi, un casolare ristrutturato e gestito da una coppia di professionisti, architetto lui, insegnante di lettere la moglie, convertiti alla passione della filologia gastronomica marchigiana.

La base della cucina interna marchigiana è la carne. La bovina della bianca marchigiana, una razza non in estinzione poiché nella regione ci sono ancora 25.000 capi, ma comunque di nicchia; l’ovina della razza Sopravissana, incrocio Merino e Vissana (di Visso); la suina, soprattutto trasformata in salumi: prosciutto salato di montagna, lonza, vari tipi di salame come il Fabriano, l’ascolano, il marchigiano, magro e leggermente piccante, la sopressata di Fabriano, salsiccia e infine il ciaùscolo, una specie di pâté di salame tenero all’aglio da spalmare sul pane.

Faraona, anatra, piccioni, coniglio hanno un ruolo tutt’altro che marginale, così come i formaggi di pecora, la ricotta dolce e salata, il formaggio di fossa. Poi la pasta, in primis i maccheroni di Campofilone e quelli alla chitarra, il farro, i fagioli, le lenticchie, i lupini, i carciofi. E naturalmente il tartufo bianco di Acqualagna e i funghi, che a ben cercarli si trovano su tutto l’Appennino marchigiano.

I vini: il Verdicchio di Jesi e quello di Matelica, buoni non solo per il pesce ma anche per gli antipasti caldi e freddi: consigliabili lo Jesi di Fazi Battaglia e il Matelica. Degno di grande attenzione è il Mirum della Monacesca di Matelica, al 100% di uva verdicchio. Da meditazione il bianco Le Busche (verdicchio 50%, chardonnay 40%, sauvignon 10%) di Umani Ronchi di Osimo Scalo.

I rossi: Rosso Conero della zona di Ancona-Jesi e, udite, il Pelago di Umani Ronchi, strapremiato all’estero e classificato a Londra come il miglior rosso del 1997, fatto al 50% di cabernet sauvignon, al 40% di montepulciano, al 10% di merlot. Firmato dall’enologo Umberto Trombelli con la consulenza di, indovinate, Giacomo Tachis.

Sempre lui. Bene, per promuovere tutto questo ben di Dio autoctono e incorrotto la comunità montana di San Severino Marche, i comuni di Matelica e Camerino, l’università di Macerata (fondata nel 1290) e di Camerino, che ha dal 1990 una facoltà di veterinaria a Matelica, stanno lanciando il progetto agrituristico e gastronomico Appenninia.

E fra questo ben di Dio rigorosamente biologico per vocazione e per forza di cose, cioè per la natura selvaggia del territorio, noi scegliamo, per nostra vocazione editoriale, la carne bovina. La carne della bianca marchigiana, superba razza italiana da carne, pari rango della piemontese, della chianina, della maremmana.

La prima mandria che incontriamo, mista a capi della bianca francese charolaise, è al pascolo sul monte San Vicino, a 1.400 metri. Le bestie sono dei fratelli Aldo e Giancarlo Lorenzotti che hanno anche 700 pecore, producono formaggi e salumi e macellano carne bovina, suina, ovina nella loro azienda agricola in località Caserine sopra Matelica.

E più a sud, sotto Camerino appena passato il Chienti, sta il nostro personaggio che siamo venuti a stanare, l’allevatore totale di vacca marchigiana Alessio Marchetti. Che è un allevatore sui generis visto che è un medico, anzi un clinico internista e cardiologo, già primario di medicina generale a Modena dove tuttora abita con la moglie e tre figli.

"Ma non sono un allevatore di complemento – spiega –, uno che improvvisamente è scappato dalla città per nascondersi in campagna. Io qui faccio l’allevatore e l’agricoltore professionalmente dieci ore al giorno. A Modena rientro solo per il fine settimana. Questa è la mia terra, sono nato qui, in questo piccolo castello del borgo di Lucciano, nel comune di Pieve Torina.

Questa è la proprietà da tante generazioni della famiglia Marchetti, che una volta erano i più piccoli fra i grandi proprietari fondiari delle Marche. Molti di quei proprietari hanno venduto tutto o quasi, un pezzo di terra o di bosco anno dopo anno. Io e i miei fratelli siamo riusciti a tenere intatta la proprietà. E ci abbiamo pure investito soldi con continuità. Io me ne sono sempre occupato direttamente, ogni volta che ho avuto tempo libero. Mio fratello e mia sorella hanno altri interessi e non hanno la passione della terra. Hanno sempre lasciato che della nostra azienda agricola mi occupassi io.

Quando ho raggiunto l’età della pensione mi sono tolto il camice, ho salutato colleghi, collaboratori e pazienti, e sono tornato qui alle mie origini a fare l’allevatore e l’agricoltore a tempo pieno, a vivere all’aria aperta. Il che ha fatto bene anche alla mia salute: ero sovrappeso, e il nuovo lavoro mi ha fatto perdere 15 chili".

Ha perso i chili in più scapicollando ogni giorno su e giù per colline e montagne, un piccolo feudo di campi, pascoli fioriti oltre i mille metri, boschi pieni di cinghiali, lupi d’Abruzzo, volpi. La proprietà dei tre fratelli Marchetti è di 110 ettari, ma il professore ne ha presi in affitto altri 130 e ancora altri 230 in concessione dalle comunanze agricole, istituti di tipo cooperativo che risalgono alla civiltà dei Comuni e che nella campagna emiliana si chiamano partecipanze. Per girare tutta l’azienda Marchetti, di 470 ettari, per strade in terra battuta, tratturi e prati, ci vogliono due tre giorni con un’auto con quattro ruote motrici.

"Ho fatto questa scelta di vita – dice il professor Marchetti – perché amo la mia terra, mi è sempre piaciuto allevare bestiame e seguire il lavoro dei campi. E ho sempre cercato di approfondire i problemi collegati con queste due attività leggendo libri e frequentando gli ambienti associativi del settore".

Nell’azienda agricola Marchetti sono sugli alti pascoli o stallati accanto al castello 150 capi: 80 fattrici, 15 giovenche per la rimonta, 55 tra vitelli e vitellini. Quasi tutti della razza marchigiana più alcuni della charolaise. Nei campi l’azienda produce quello che è compatibile con l’ambiente, cioè solo mais, grano, orzo, foraggio. Non può certo piantare vigneti data l’eccessiva altitudine.

"Questa è una zona svantaggiata, quindi non possiamo essere competitivi sul piano della quantità. Puntiamo quindi sulla qualità: la carne della marchigiana, che non ha niente da invidiare alla maremmana e alla chianina. Rispetto alla chianina ha inoltre maggior resa. Non ho laboratorio di macellazione. Faccio macellare fuori azienda, poi vendo la carne direttamente ad alcune macellerie e ad alcuni ristoranti nei centri qui attorno: Camerino, Tolentino, San Severino, Pieve Torina, Pieve Bovigliana". Gli ultimi due centri prendono il nome proprio dall’attività dell’allevamento di tori e bovini e dal commercio delle loro carni che qui si praticano da secoli.

Il professor Marchetti non è molto soddisfatto delle conclusioni della trattativa europea per Agenda 2000. "Con gli accordi attuali, le compensazioni comunitarie ai singoli allevatori, specialmente delle aree marginali, svantaggiate e povere come l’Appennino marchigiano, non saranno sufficienti a ripagare il previsto abbassamento dei prezzi e il costo di gestione dell’allevamento.

Le aziende come questa, già marginali, rischiano dunque una ulteriore marginalizzazione. L’unica via che ci resta da battere è cercare di raggiungere un livello sufficiente di produttività attraverso la qualità. Che è quello che sto facendo da tempo".

Franco Focherini




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