1. La filiera bovina dalatte
Almeno allíapparenza, lafiliera lattiero-casearia italiana costituisce uno dei sotto-sistemi delsistema agro-alimentare nazionale nel quale i meccanismi di coordinamentoverticale sono maggiormente sviluppati: oltre ad una cooperazione che raccogliecirca il 60% del latte nazionale, esiste infatti una fitta rete di associazionidi produttori a cui aderiscono la quasi totalità dei produttori,ed una quota rilevante del latte italiano rientra nellíambito díazionedei consorzi di tutela dei formaggi a denominazione di origine protetta;esiste tra produttori e industria di trasformazione un accordo interprofessionalee, in anni recenti, è anche stata tentata la via di uníassociazioneinterprofessionale a carattere stabile. Tuttavia, questa molteplicitàdi strumenti di coordinamento non impedisce che da anni si stia tentandodi realizzare, con estrema difficoltà e scarso successo, un sistemadi gestione dellíofferta, mentre il mercato conosce periodiche crisi dicui líattuale, per durata e profondità, va ben oltre ciòche si poteva prevedere in base al normale andamento ciclico.
1.1. Líassociazionismodei produttori
Uníanalisi condotta nel 1997sulle 80 associazioni di produttori latte allíepoca operanti mette benein luce le potenzialità, ma soprattutto i limiti, di questa formaorganizzativa. Benché in linea di principio le associazioni di produttorinascano per realizzare la concentrazione dellíofferta, in modo di conseguireun riequilibrio del potere di mercato eccessivamente spostato dalla partedegli acquirenti e al tempo stesso di offrire a questi interlocutori commercialidi dimensioni significative, in pratica le APL, fino a pochi anni fa sisono occupate, sostanzialmente, quasi solo di gestione delle quote di produzione.Attualmente alcune di esse stanno cercando di trasformarsi in strumentodei produttori per la gestione dellíofferta:in questo contesto vanno inseritesia le iniziative, ancora limitate e sporadiche ma comunque significative,di commercializzazione diretta (in nome proprio o su mandato) del lattedegli associati, che una certa gamma di servizi offerti ai produttori (peri quali comunque il coordinamento con gli enti locali e, soprattutto, leAPA/ARA dovrebbe essere maggiormente sviluppato). Va comunque detto cheoltre la metà delle APL non ha mai nemmeno tentato la strada dellacommercializzazione, anche e soprattutto per insufficienza delle dimensionie, quindi, delle strutture di cui dispongono: líimpostazione burocraticache si è dato a queste associazioni ha fatto si che prevalentementeil loro ambito díazione si identifichi con i confini provinciali, con laconseguenza che circa un quarto di esse non arriva nemmeno al limite minimodefinito in ambito comunitario per ottenere il riconoscimento pubblico,ossia un bacino di raccolta di 20 mila tonnellate, e meno di un terzo superiil comunque modesto livello di 80 mila tonnellate, che potrebbe corrispondere,ad esempio, a 500 stalle aventi in media circa 20-25 vacche. Queste ultimeAPL si collocano quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali, mentrele APL più piccole comprendono buona parte di quelle operanti alSud. La polarizzazione regionale non desta sorpresa: non solo essa rispondealla geografia del comparto lattiero italiano, che vede una concentrazionedella produzione, nonché dei produttori di maggiori dimensioni,nelle regioni settentrionali, ma altresì va valutata alla luce dellamaggior presenza, al Nord, di imprese acquirenti di grandi dimensioni equindi dellíesigenza, proprio in questíarea, di una maggiore concentrazionedellíofferta.
Esiste chiaramente un legametra dimensione ed attività commerciale: solamente un paio delleAPL di dimensioni inferiori si sono presentate, anche sporadicamente eper quantitativi limitati, sul mercato. Una conferma viene dallíesame dellíattivitàdi commercializzazione incrociata con la consistenza di personale a tempiopieno, che conferma le difficoltà a svolgere questa funzione perstrutture piccole e poco provviste di risorse umane adeguate. Quasi lametà delle APL non hanno personale a tempo pieno, o al massimo unaddetto, e tra di esse circa i tre quarti non ha mai intrapreso la commercializzazione.
La percentuale di latte chele APL commercializzano direttamente rimane comunque, nella maggioranzadei casi, inferiore al 50% della produzione dei soci.
Tra líaltro, proprio peril fattore limitante rappresentato dallíeccessiva frammentazione delleassociazioni, che talora hanno dimensioni operative insufficienti, nonsolo risulta compromessa la capacità di incidere sulla commercializzazionee di offrire servizi ai propri soci, ma si osserva anche un aggravio deicosti di gestione che si traduce in quote associative relativamente piùimportanti.
Un altro fattore limitanteè lo scollamento che emerge tra associazioni e base produttiva,fattore che, in mancanza di una profonda ristrutturazione delle APL, sioppone ad una concentrazione che ne faccia crescere le dimensioni: va ancorarilevata una consapevolezza assai poco diffusa dellíimportanza strategicadi un sistema informativo sulle produzioni che abbia carattere di grandetempestività.
Nel corso degli anni recentisi è osservato qualche caso di fusione tra Apl attive sullo stessoterritorio o su territori contigui: molto spesso, però, questo accorpamentoriguarda associazioni che già in partenza hanno dimensioni relativamentemedio-grandi, mentre lascia in disparte aree dove operano le strutturepiù piccole. Ad esempio una fusione era avvenuta qualche fa trale due associazioni attive a Cremona ed ugualmente tra due APL mantovane;nel 1999 è stata perfezionata líunificazione delle due maggioriassociazioni emiliane, Apler e Aiple, ed analogamente in Piemonte si univanoAsprolat, Agripiemonte Latte e Prozooa Latte a formare la nuova Alpilat.
Un ulteriore fatto nuovoera costituito dalla nascita, qualche mese fa, di Lattitalia, una strutturaassociativa cui hanno dato la loro adesione le Apl emiliane ed una associazionelombarda, nata con un progetto organizzativo che assegna la prioritàagli aspetti mercantili: disponibilità del latte da parte delleApl, coordinamento centrale per il monitoraggio del mercato ed i servizialla commercializzazione, autonomia dalle organizzazioni agricole generali.
Un ulteriore elemento diframmentazione è invece rappresentato dalla nascita, in Lombardia,Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Veneto ed Emilia Romagna, di associazioniregionali del "cobas" del latte.
Ma il fatto più salientedel 1999 è la crisi, apparentemente irreversibile, in cui èentrata líUnione nazionale che appena un paio di anni prima riuniva il95% dei produttori. Infatti líassemblea di Unalat di luglio, nella qualeil presidente si è presentato dimissionario, sanciva praticamenteil fallimento del progetto di riforma messo a punto nel 1998, che prevedevalo snellimento della struttura centrale, il riposizionamento dellíUnalatin modo complementare allíAia (per avanzare nel progetto di "casa comune")e líaccorpamento e ridefinizione delle funzioni delle Apl, ponendo al centrola commercializzazione del prodotto. In ottobre è stato nominatoun nuovo presidente, con líappoggio solo di una parte delle organizzazioniprofessionali, ma alla prova dei fatti il distacco dalla base si mostravaarduo da recuperare, tanto che nello scorso gennaio e poi ancora in febbraiola convocazione dellíassemblea andava deserta.
Probabilmente si sta assistendoad una crisi del modello su cui è nata líUnalat: una struttura concepitaper gestire le quote di produzione, che naturalmente necessitano di uncontrollo centrale, si dimostra alla prova dei fatti come una organizzazionecentralista; incapace di offrire un supporto snello per funzioni operativamentegestite alla periferia, come líofferta di servizi agli associati o la commercializzazione.
1.2. I rapporti interprofessionali
La scorsa decade ha vistotra líaltro in Italia la nascita, ed il rapido fallimento, di uníesperienzadi struttura interprofessionale attiva su base stabile, Interlatte, concepitasullíesempio di quanto avviene, nel comparto lattiero-caseario, in paesicome la Francia con il comitato nazionale interprofessionale per líeconomialattiera, i Paesi Bassi dove è attivo líufficio di prodotto perlatte e lattiero-caseari, o la Danimarca dove opera il consiglio lattiero-caseariodanese. Mentre in questi paesi líorganizzazione interprofessionale dellefiliere agricole si estende anche ad altri comparti, nel nostro paese questastruttura rappresentava quasi una novità, se si eccettua líAISOoperante per i semi oleosi, che però è quasi una necessitàimposta dalla peculiare organizzazione comune di mercato per quei prodotti.
Interlatte, che era costituitadalle strutture organizzate dei produttori, dellíindustria provata e dellacooperazione (seguendo con ciò il modello francese), si èchiusa dopo pochi anni di esistenza asfittica, nei quali non è nemmenoriuscita ad incassare le quote associative da tutti e tre i suoi costituentie líunica attività concreta realizzata è stata una campagnadi promozione collettiva. Probabilmente la ragione di questo fallimentosta nellíaver voluto ó ancora una volta con uníoperazione concepita alcentro e calata dallíalto ó imitare soluzioni organizzative di altri paesiche presentano condizioni strutturali assai diverse.
Francia, Paesi Bassi e Danimarcasi caratterizzano tutti per avere una marcata vocazione allíesportazionedi latte e derivati, per cui la sfida sui mercato esteri costituisce unnaturale terreno di collaborazione tra produttori e trasformatori, mentrenon esiste il "fattore di disturbo" costituito dalle importazioni di latte,che in Italia inducono invece una certa divergenza di interessi tra i dueattori verticalmente collegati. Infatti tutte queste organizzazioni interprofessionalisi occupano si di regolare le relazioni interprofessionali ó ad esempiogestendo le analisi sulla qualità del latte ó ma al tempo stessosono impegnate in attività comuni della filiera verso líesterno,come líanalisi dei mercati, la documentazione e la promozione collettiva.
In Italia si è invecevoluto superare le difficoltà dei rapporti interprofessionali, organizzatiin un accordo annuale sul prezzo che presenta evidenti limiti, allargandolíambito di questi rapporti anche a questioni nuove, ma senza realmentetoccare i concreti interessi comuni della filiera, quali ad esempio ladifferenziazione dei prodotti tutelati.
Rimane il fatto che líattualeimpostazione degli accordi interprofessionali risulta appunto insoddisfacentee lo diventa sempre più con la perdita di rappresentativitàdi uno dei due interlocutori principali ó líUnalat appunto ó e in parteanche dellíaltro, ossia líAssolatte; líassociazione degli industriali,per parte sua, risente infatti del crescente bipolarismo tra grandi multinazionalie piccole-medie imprese ancorate sul territorio nazionale. Negli ultimianni si è assistito ad accordi talora sottoscritti solo da una partedei contraenti, siglati non con due mesi di anticipo come vuole la normativama invece con mesi di ritardo, le cui clausole non rappresentavano spessola conseguenza delle condizioni di mercato ma invece del diverso peso contrattualedelle parti in causa. Ad esempio negli ultimi due anni si è provvedutoa ritocchi verso il basso dei prezzi medi per líintera campagna ó di settelire al litro lo scorso anno e di circa 10 lire questíanno ó mentre inentrambe le occasioni, al momento della stipula dellíaccordo, le condizionidi mercato suggerivano che il "valore díuso" del latte era superiore rispettoa dodici mesi prima.
Dopo averlo enunciato percinque anni di seguito nel testo dellíaccordo, ma mai realizzato, questíannosi è messo a punto un meccanismo di collegamento al mercato cheperò appare assai pasticciato e difficilmente applicabile senzacontestazioni dallíuna o dallíaltra parte. senza voler entrare troppo neidettagli, va infatti rilevato che il paniere di prezzi da tenere sottoosservazione presenta solleva molti dubbi: non si capisce come siano determinatii pesi dei diversi prodotti (il che può anche non costituire unproblema se le due parti sono díaccordo, ma lascia nella totale incertezzacirca futuri meccanismi di revisione dei pesi, nel caso ci si rendesseconto che questi sono inadeguati);i prezzi di alcuni prodotti, rilevatial dettaglio, risentono fortemente delle politiche commerciali della distribuzione,che nulla hanno a che fare con i rapporti interprofessionali tra produttoreagricolo e trasformatore e sulle quali, se ha poca voce la trasformazione,non ne ha alcuna la produzione agricola; esiste una "procedura di valutazione"del tutto soggettiva di rispondenza del prezzo del latte spot; si usa ilprezzo di orientamento bavarese, che non è diffuso in pubblicazionese non a posteriori, dopo un anno.
Ancor più rilevantisono le osservazioni sul meccanismo di conguaglio: si propongono aggiustamentitrimestrali, mentre non esiste alcun ostacolo, e solo vantaggi, per unaggiustamento mensile; per evitare gli effetti distorsivi sul ciclo stagionaleche ciò comporterebbe si prevede un aggiustamento a posteriori,che obbliga le imprese a rivedere il prezzo di un latte che è giàstato utilizzato, in parte fatturato e pagato e forse anche venduto (informa di prodotti ottenuti). Soprattutto, si prevede un aggiustamento nonrispetto al primo trimestre della campagna, ossia prendendo come base ilprezzo che esce dalla contrattazione interprofessionale, ma il primo trimestredellíanno (ossia líultimo trimestre della campagna precedente) che ènotoriamente un periodo di massima del prezzo, per cui gli aggiustamentisono quasi forzatamente al ribasso.
1.3. La cooperazione
La motivazione prima percui in Italia è necessario ricorrere a uníaggregazione dellíoffertamediante le associazioni dei produttori sta nellíinsufficiente sviluppodella cooperazione lattiero-casearia. Invero, essa risulta raccoglierecirca il 60% del latte nazionale, ma si stima che la sua quota di mercato,per i prodotti di sola origine nazionale, non superi il 35-38% (mentreovviamente scenderebbe ancora se si considerassero anche i prodotti importati).A livello di primi acquirenti, si trovano circa 1.100 cooperative, cheritirano dai produttori mediamente meno di 6 mila tonnellate di latte allíanno.Ma gli stabilimenti di tali cooperative sono circa 800, il che significache quasi il 30% del totale di queste imprese sono puramente centri dicontrattazione.
Anche considerando solo lecooperative impegnate nella trasformazione, salvo poche rilevanti eccezionila loro dimensione insufficiente, ed i problemi finanziari che ne conseguono,le confina al solo comparto dei formaggi DOP, certamente più difendibileanche senza ricorrere ad aggressive politiche di mercato. Esse sono deltutto assenti dai fenomeni di internazionalizzazione, che pure stanno interessandoun numero sempre più rilevante di cooperative lattiero-casearienordeuropee; presentano una scarsa vocazione allíinnovazione di prodottoed a innovazioni organizzative concepite, tra líaltro, proprio per superareil cronico problema dellíinsufficiente autofinanziamento.
Ne consegue tra líaltro chelíintero comparto dei prodotti DOP, se da un lato è "presidiato"da imprese necessariamente inserite nel contesto produttivo locale, e quindiin un certo senso difeso da rischi di snaturamento e banalizzazione, altempo stesso pare condannato ad una staticità ed una passivitànei comportamenti competitivi che impedisce di sfruttare le opportunitàfavorevoli che si presentano sia sul mercato interno sia, soprattutto,su quello internazionale.
Líosservazione di realtàdi altri paesi europei va naturalmente condotta tenendo conto delle specificitàdel comparto lattiero-caseario nazionale, in particolar della presenzadi formaggi a denominazione che non sono prodotti di nicchia, ma al contrariocostituiscono la quota più rilevante della produzione; in ogni casoemerge che la cooperazione lattiero-casearia italiana trova i suoi limitiallo sviluppo ó la sua quota sul mercato è infatti tra le piùbasse nellíambito dei paesi europei ó nellíincapacità di sfruttarequello che potenzialmente è il suo principale fattore di vantaggio,ossia una naturale coesione interna, data dalla particolare forma societaria,che consente di affrontare un mercato globale e sviluppare dimensioni operativerilevanti mantenendo però efficienti meccanismi interni di trasmissionedelle informazioni e gestione delle decisioni aziendali.
1.4. I consorzi di tutela
Un accenno va fatto ancheai consorzi di tutela, che pur non nascendo come strumento di coordinamentoverticale di fatto assumono in molti casi come ad esempio quello del GranaPadano ó una natura interprofessionale; essi infatti associano produttorió che, almeno quando presentano natura cooperativa, hanno anche una radicein agricoltura ó stagionatori e operatori commerciali. Entrati in crisiquando è venuta meno la loro funzione "fiscale" di controllo dellaqualità, che la normativa comunitaria ha affidato a terzi, molticonsorzi ó e soprattutto quelli di maggiore dimensione ó stanno faticandoa mantenere una loro precisa collocazione.
Il consorzio del Grana Padanoha da poco risolto una divisone interna che, aggiungendo elementi incontrollabili,ha a sua volta contribuito a rendere più gravosa la difficile situazionedi mercato, e che trovava la sua origine apparentemente in questioni tecnologiche,nei fatti nella difficoltà a gestire con uníimmagine unitaria unbacino produttivo così ampio da abbracciare praticamente quasi tuttoil Nord Italia.
In acque certo piùtranquille navigava il consorzio del Parmigiano Reggiano, afflitto da analoghiproblemi di mercato ma non dalla crisi societaria che scuoteva il GranaPadano. La ricetta per uscire dalla difficile situazione che il consorziodi Reggio Emilia pare voler adottare, con la collaborazione dellíinterafiliera e líappoggio della Regione Emilia Romagna, consiste nel rafforzarela specificità del prodotto, inserendo norme più restrittivesullíalimentazione delle vacche, nel proseguire nellíestensione dei sistemiqualità dei caseifici, adottati ormai da oltre la metà diquesti ó anche mediante attività regionali di formazione e assistenzaó e nellíinnovare la presenza sul mercato, specie per rafforzare le esportazionimediante un accordo strategico con il consorzio del vino Franciacorta.Nel frattempo è avanzata líidea, su cui si discute da tempo, dicreare uníagenzia di commercializzazione, funzione che potrebbe essereassunta dallíunificata associazione dei produttori localizzati nellíareatipica.
Risulta quindi che líazionedei consorzi di tutela, mirata al rafforzamento dellíidentità deiprodotti da essi tutelati, può ricevere efficacia quando esisteuníintegrazione operativa con gli altri soggetti della filiera, mentrein molti casi appare inefficace proprio perché al compito di "difendere"una denominazione fa da controaltare líimpossibilità e líincapacitàdi incidere sia sulle scelte produttive ed organizzative che sulle strategiecommerciali.
2. La filiera bovina dacarne
La situazione di profondacrisi in cui da anni versa il settore delle carni bovine, con consumi decrescenti,prezzi in calo e costi in aumento, specie la rarefazione dellíofferta dicapi da ristallo, ha avuto un riflesso nellíevoluzione strutturale: sonoinfatti quasi del tutto spariti gli allevatori medio-piccoli ó mentre rimangonoi piccolissimi, spesso aventi un ruolo marginale nellíeconomia dellíaziendaagricola o addirittura condotti a part time, ma il loro apporto èmolto limitato ó; le stalle che rimangono in attività hanno infattigeneralmente dimensioni che vanno dai 300-400 capi in su. Si tratta quindidi un comparto nel quale gli imprenditori agricoli hanno dovuto sviluppareuníelevata professionalità e specifiche competenze gestionali.
Tuttavia il mercato ètradizionalmente rimasto sotto il controllo degli operatori commercialie dei macellatori che, anchíessi toccati da crisi di ristrutturazione,si vanno rapidamente concentrando. Tradizionalmente i meccanismi di coordinamentoverticale sono pressoché assenti, in quanto le relazioni sono affidateal mercato; tuttavia, da una decina díanni a questa parte, a seguito diun susseguirsi di bilanci aziendali insoddisfacenti per gli allevatori,ha trovato una certa diffusione la particolare forma di integrazione contrattualenota come contratto di soccida.
2.1. I contratti di soccida
In effetti la soccida presenta,nel comparto bovino, caratteristiche peculiari cha la distinguo, ad esempio,dal caso forse più noto che si riscontra nellíallevamento avicolo.In quel caso la condivisione che avviene con il contratto di integrazioneè soprattutto di natura tecnologica: i soccidanti sono di normafornitori di mezzi di produzione che hanno integrato verso valle le proprieattività, e forniscono allíallevatore appunto líessenziale degliinput, oltre alla necessaria assistenza ad alla messa a punto di tecnologiespecifiche. Nel comparto bovino da carne, invece, la nascita di tali contrattiviene promossa soprattutto dai commercianti, che da sempre hanno un fortepotere di mercato, controllando le importazioni di capi da ristallo siadallíEuropa centrale ó in quanto detentori delle quote díimportazione óche dalla Francia, dove mantengono una ben stabilita rete di contatti commerciali,e dai macellatori. Di conseguenza, a differenza appunto dal settore avicolo,questi contratti hanno la natura di accordo di tipo fondamentalmente commerciale,non imprenditoriale, finalizzato essenzialmente ad assicurare un collegamentodi mercato tra i produttori e un numero ridotto ó sostanzialmente non piùdi 5-6 operatori ó di imprese situate a valle.
Malgrado si tratti di uníesperienzarecente e non generalizzata alla maggioranza degli acquirenti, questo particolaretipo di organizzazione sta conoscendo una diffusione rapida, tanto da diventareil principale veicolo di concentrazione della macellazione; attualmentesi può stimare che coinvolga fra 300 e 500 mila capi, su un totaledi 2 milioni di capi macellati. Indubbiamente la soccida può costituireun fattore di razionalizzazione in un comparto strutturalmente fragile,ma sono evidenti anche i rischi che essa comporta: da un lato portare aduna dequalificazione dei produttori, che possono perdere la loro professionalitàsoprattutto per gli aspetti commerciali; dallíaltro non coinvolge organicamentei macellatori, che possono in caso di occasioni più favorevoli rivolgersialtrove per i loro approvvigionamenti (non a caso, alcune di queste impresestanno investendo fuori díItalia, specie nella ex Jugoslavia.
Fanno eccezione a questoschema talune specifiche realtà, come le cosiddette "oasi ecologiche"della Plasmon o gli accordi con talune catene distributive; in questi casiesistono specifici disciplinari perché il contratto è tesoad ottenere prodotti aventi specifiche merceologiche distintive; ma sitratta comunque, almeno per il momento, di quantitativi relativamente assairidotti.
Che la soccida non costituiscaun fattore di equilibrio nei rapporti contrattuali risulta evidente dallavicenda dellíassegnazione dei premi di macellazione, quelli per i bovinimaschi e quelli che rientrano nellíenvelope nazionale prevista dalla nuovaPAC. Il MIPAF ha inizialmente inteso riservare i premi allíallevatore,che tra líaltro costituisce il detentore del codice anagrafico e quindi,anche nei confronti dellíamministrazione sanitaria, il responsabile epidemiologico.
Questa impostazione risultacorretta se si tiene presente che, secondo líimpostazione adottata ormaidal 1992 per questo tipo di interventi finanziari comunitari, si trattadi aiuti al reddito, non di compensazioni di mercato. Tale posizione avevainizialmente líappoggio delle organizzazioni professionali agricole, chenon più tardi del gennaio scorso hanno anche sottoscritto una letteraaperta denunciando i tentativi di deviare tali premi dal settore agricolo.In aprile invece, constatando líimpossibilità di sbloccare la situazionee paventando il rischio, se non si giungerà rapidamente ad un regolamentoministeriale di recepimento delle disposizioni comunitarie, di perdereil diritto ai premi per tutti gli allevatori, si è messa a puntouníintesa, sottoscritta da organizzazioni dei produttori, della cooperazione,della trasformazione, degli alimentaristi e della macellazione, secondocui "almeno" il 20% dei premi va riservato al soccidario.
2.2. Líorganizzazionedi filiera per le razze italiane da carne
Mentre il sistema dellíapprovvigionamentonazionale di carne dipende in larga maggioranza da allevatori ristallatori,che allevano capi provenienti da allevamenti da latte o capi da carne importati,questione assai di
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