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Storia e cultura

La carne del re

di Casini C.

Il re Sole monarca assoluto

Luigi XIV è senza dubbio uno dei più noti sovrani di tutti i tempi, il fondatore dell’assolutismo monarchico, il grande mecenate protettore degli artisti e l’ideatore della reggia per eccellenza, Versailles. Il suo regno fu straordinariamente lungo, in un’epoca in cui la vita media arrivava a soli 30 anni: Luigi XIV, infatti, regnò per 61 anni e durante questo periodo portò la Francia ad una grandezza mai raggiunta prima. Il temperamento del re era decisamente risoluto, introverso ed orgoglioso, ma anche affabile e straordinariamente cortese. Durante la giovinezza non ricevette una profonda formazione culturale, ma si mostrò sempre avido di conoscenza e una volta divenuto sovrano, dimostrò ben presto le sue doti di abile uomo politico. Il cardinale Mazzarino, primo ministro di Francia ai tempi del padre e durante la reggenza di Anna d’Austria, lo aveva esortato alla dissimulazione delle proprie reali intenzioni, in linea con l’atteggiamento politico tipico del secolo, e soprattutto a “tenere i grandi del regno bassi come l’erba”, nella convinzione che la debolezza di una nazione consistesse nelle divisioni interne.

Durante la sua giovinezza, Luigi era stato esiliato in seguito alla rivoluzione della Fronda ed era stato salvato dalle abili doti diplomatiche del cardinale, il quale aveva probabilmente impedito anche la caduta della monarchia dei Borboni: Luigi fece così esperienza diretta delle guerre civili e della possibile dissoluzione del potere e dello stato, consapevole di essere al centro di pericolosi intrighi a cui non erano estranei nemmeno i parenti più stretti. Così subito dopo la morte del cardinale convocò il suo Consiglio di Stato, formato da uomini potenti e ricchissimi, e li esautorò completamente del loro potere. Scelse di avvalersi dell’aiuto di soli tre ministri, nominati per le loro capacità e non per il privilegio del sangue: tra questi il più importante fu il borghese Colbert, le cui notevoli capacità portarono la Francia ad un alto livello di prosperità per almeno venticinque anni.

La direzione economica intrapresa dal potente ministro prese il nome di Colbertismo ed era diretta alla riorganizzazione delle finanze pubbliche — esentando la nobiltà dal privilegio delle riscossioni, riservate unicamente ai funzionari della Corona — e al sostegno dell’industria nazionale, soprattutto delle manifatture tessili e dei beni di lusso. Colbert favorì la produzione interna, nazionalizzò molte industrie e impose pesanti dazi sulle importazioni; rese florida l’agricoltura e incentivò la produzione artigianale, favorendo anche l’immigrazione degli stranieri per aumentare la manodopera e per acquisire maggiori competenze.

Colbert rappresentò il primo caso di ministro esperto, inviso alla nobiltà per le sue origini borghesi, ma amato dal popolo per la sua efficienza ed onestà, instancabile nel suo lavoro (la sua giornata cominciava alle cinque e mezza del mattino e si concludeva dopo sedici ore di intensa attività) e con la mania dell’ordine e della precisione.

Certamente, però, questo fervore economico non includeva il riconoscimento dei diritti dei lavoratori: gli operai, compresi i bambini, lavoravano 12 ore al giorno con solo una pausa di mezz’ora per il pranzo, con un salario da fame prevalentemente pagato in natura, poiché il denaro era difficilmente reperibile in quel secolo di profonda crisi finanziaria. Colbert si mostrò anche spietato nei confronti di coloro che commettevano errori, ordinando che i pezzi difettosi venissero esposti in pubblico con il nome dell’operaio che aveva sbagliato e del responsabile di produzione; dopo due errori i colpevoli venivano legati ad un palo ed esposti alla gogna popolare come “traditori della patria”. Infine, chi veniva segnalato per pigrizia, negligenza, insubordinazione e molestie sessuali veniva fustigato.

La rinascita economica voluta da Colbert fu costantemente ostacolata, e infine vanificata, dalle enormi spese militari sostenute dal re, convinto di essere un nuovo Cesare nato per estendere il dominio e l’influenza della Francia su tutta l’Europa. Dopo venticinque anni di relativo benessere la nazione cominciò ad entrare in un lungo periodo di declino, i sudditi furono ridotti in miseria e la grande popolarità di cui aveva goduto il sovrano si tramutò in odio feroce.

Luigi XIV era perfettamente consapevole dell’involuzione che il suo regno aveva subito: sul letto di morte raccomandò al nipote, il futuro Luigi XV, di non imitarlo nella passione per la guerra, sostenuta troppo a lungo per gloria e vanità, ma di cercare di vivere in pace per migliorare il destino del popolo. Quando la notizia della morte del sovrano si diffuse, Parigi esultò e il popolo ballò e cantò davanti ai numerosi falò accesi in città; infine andò ad attendere la salma davanti alla chiesa di Saint Denis, dove cercò di rovesciare il carro funebre per fare a pezzi il cadavere di Luigi.


L’invenzione di Versailles

Luigi XIV considerava la nobiltà infida e intendeva esautorarla completamente da ogni potere effettivo. Certamente l’idea della guerra civile non era percorribile e pertanto il re, così profondamente appassionato di arte e di architettura, decise di costruire una grandiosa reggia in grado di appagare il suo spirito e contemporaneamente di ospitare l’aristocrazia del regno, allontanandola così dai propri territori e dalle questioni politiche. A Versailles, Luigi governava con l’aiuto dei suoi fidati ministri, mentre i nobili erano impegnati in cacce, giochi, corteggiamenti, feste e divertimenti. Per evidenziare il ruolo assoluto del sovrano il re coniò per se stesso il nome di Re Sole, qualificandosi come un nuovo Apollo capace di illuminare i sudditi con la luce della sua giustizia e della sua regalità. Come l’astro lucente nel cielo era l’indispensabile fonte di vita per tutti i pianeti, così il sovrano doveva essere posto al centro della corte, visibile in ogni momento della giornata. Luigi XIV accentuò in maniera ossessiva l’etichetta di palazzo, divenendo una figura pubblica a tutti gli effetti, dal momento della sveglia a quello del pranzo. Ogni istante veniva meticolosamente programmato: alle otto di mattina il re doveva essere svegliato da un valletto di camera, il primo cameriere, che dormiva ai piedi del suo letto. A quel punto poteva essere ordinata la colazione, mentre un paggio controllava che entrassero solamente coloro che avevano il privilegio di poterlo fare, cioè i figli legittimi e i fratelli, quindi il primo medico, il primo chirurgo e il primo paggio. Successivamente erano ammessi gli ufficiali di camera e del guardaroba e quei nobili a cui il sovrano aveva concesso questo grande privilegio. Seguivano gli intendenti delle feste e dei divertimenti, i lettori del re, quindi i ministri e i consiglieri di stato e infine, da una porta secondaria, i figli illegittimi con le loro famiglie. Anche la vestizione del re, come quella della regina, doveva rispettare una sequenza prestabilita: il sovrano non faceva nulla da solo, ma alcuni nobili erano incaricati di infilargli la camicia, altri di allacciargli le scarpe o di cingergli la spada alla vita: il resto dell’aristocrazia, nel frattempo, era riunita nella sala più vicina al giardino ad attendere il solenne ingresso del sovrano, il quale successivamente e per gran parte della giornata, si ritirava per attendere agli affari di stato, la vera passione di Luigi XIV. Mentre la vestizione del re rappresentava un motivo di privilegio, ed era concessa solo a pochi eletti, il pranzo doveva essere un avvenimento pubblico.


La carne del re

L’influenza della cultura francese, promossa e incoraggiata da Luigi XIV in ogni sua espressione, fu predominante nell’Europa del Seicento: come conseguenza il francese divenne la lingua delle corti e soppiantò il latino nei documenti diplomatici, mentre la cucina francese, basata anche sui gusti del sovrano, divenne famosa in tutto il continente, rompendo l’egemonia italiana. Il re, secondo l’etichetta, doveva mangiava sempre da solo, seduto ad un tavolo apparecchiato per una sola persona, mentre i membri dell’alta nobiltà, in piedi, dovevano servirlo. Al pasto potevano assistere tutti, purché fossero vestiti decentemente e in possesso di una spada, che comunque veniva fornita per l’occorrenza davanti ai cancelli di Versailles. Il pranzo prendeva il nome di “carne del re”, indipendentemente dalla natura delle portate, che comprendevano anche minestre, zuppe, verdura e dolci. Quest’apparente anomalia può essere spiegata con il fatto che, a partire dal Medioevo, la carne e soprattutto la selvaggina, erano considerate le sole pietanze degne della nobiltà e soprattutto del sovrano. Il passaggio della “carne del re”, dalle cucine fino alla sala da pranzo, era annunciata solennemente lungo i corridoi e le sale del palazzo e salutata dall’inchino dei nobili; diversi soldati scortavano i domestici lungo il tragitto, mentre un vero e proprio plotone era schierato alle spalle della poltrona regale. Ai tempi di Maria Antonietta, giunta in Francia nel 1774 come sposa di Luigi XVI, il cerimoniale di Versailles rispettava ancora il volere del grande re, la cui personalità colmava ancora le sale del palazzo. L’etichetta, consolidata da Luigi XIV per l’esaltazione del sovrano, costituiva ormai un gran peso per i successori, che si sentivano intrappolati in una gabbia di regole sentite ormai come superate. Per questo motivo la regina arrivò ad eliminare il rituale della vestizione, ma per lungo tempo non riuscì ad abolire l’aspetto pubblico del pranzo quotidiano e la pesante etichetta ad esso associato: questo evento metteva in profondo imbarazzo la regina e probabilmente per tale motivo Maria Antonietta era solita mangiare poco, prevalentemente pollo arrosto o bollito accompagnato dalla sola acqua. La testimonianza di Madame de Campan, biografa della sovrana, mostra come la famiglia reale non potesse godere di alcuna intimità: durante il pranzo, in particolare, si poteva assistere ad un continuo andirivieni di persone che percorrevano le scale e le camere da pranzo di Versailles per vedere la regina nel momento in cui sorbiva la zuppa, per assistere i principi mangiare il bollito, per poi correre “con la lingua di fuori” ad osservare le principesse alle prese con il dessert. Pur provenendo dalla corte imperiale di Vienna, Maria Antonietta non sopportava il pesante cerimoniale di Versailles e cercò in tutti i modi di limitarlo o di eliminarlo, ma questo suo atteggiamento la rese invisa alla stessa nobiltà che si sentiva privata dei suoi privilegi; inoltre, rafforzò nei sudditi l’idea che la regina si sentisse più austriaca che francese e che in cuor suo continuasse a favorire gli interessi della madrepatria.
Solo Luigi XVI, sembrava non curarsi della sobrietà o dell’aspetto pubblico dei rituali, probabilmente per la sua educazione prettamente francese. Il formidabile appetito del re non si ridimensionò nemmeno durante la prigionia e un simile atteggiamento, magari dovuto anche a cause d’ordine psicologico, attirò sul re la riprovazione generale. La grande crisi economica di fine secolo, che aveva avuto origine durante il regno del re Sole, aveva condotto la nazione alla miseria più nera e lo spettacolo dei sontuosi pasti regali non poteva far altro che accrescere l’avversione nei confronti della monarchia, un odio a lungo covato che sarebbe di lì a poco esploso nella più dirompente rivoluzione europea.



Cristina Casini


Bibliografia

G. Gerosa, Il re Sole, vita privata e pubblica di Luigi XIV, Milano, 1998.

Madame de Campan, Maria Antonietta, Milano, 1971.



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