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Sicurezza alimentare

L'esportazione degli alimenti di O.A. verso Paesi Terzi: il ruolo del medico veterinario ufficiale

di Mucciolo C.

 

L’export di alimenti di origine animale, sia verso altri Paesi dell’UE (anche se in questo caso non è appropriato parlare di esportazioni, trattandosi di “scambi”), sia verso Paesi Terzi, sta conoscendo da alcuni anni una crescita ininterrotta, neppure nel corso della recente e prolungata crisi economica, che appare quanto mai fondamentale per assicurare un futuro al nostro sistema agroalimentare1. I motivi di questo successo vanno ricercati senz’altro nella qualità dei nostri prodotti, ma non bisogna dimenticare il fascino e l’evocazione che suscita in molte aree del mondo il solo nome “Italia”, fattori che sono chiaramente alla base anche del cosiddetto fenomeno delle contraffazioni alimentari e dell’Italian sounding (il fenomeno che porta numerosi produttori esteri a suggerire, con denominazioni di vendita, caratteristiche delle confezioni, immagini, l’origine italiana, contraffatta, del prodotto). Eppure, guardando ai dati statistici, ci si accorge che le esportazioni di prodotti alimentari dall’Italia nel suo complesso sono spesso inferiori, sia in termini quantitativi, sia di valore, rispetto a quanto raggiunto da altri Paesi che, almeno sulla carta, non possono contare su una tradizione gastronomica così radicata e diversificata come la nostra (i salumi esportati dalla Germania sono quasi il doppio, in volume, rispetto a quanto esportato dall’Italia).
Se la fama del nostro Paese è tale da comportare una potenziale, forte richiesta dei nostri prodotti su tanti mercati esteri, c’è però da chiedersi come mai spesso i tentativi di fare arrivare su quei mercati i nostri prodotti alimentari, soprattutto quelli di origine animale, salumi e formaggi in testa, sono frustrati.
In linea di massima possiamo riconoscere due generi di ostacoli, entrambi riconducibili alle difficoltà che spesso i nostri produttori e l’intero “sistema Italia” incontrano nel conoscere e rispettare le condizioni imposte dai Paesi Terzi in materia igienico-sanitaria, zoosanitaria e fitosanitaria.
Spesso sono le condizioni zoo­sanitarie a costituire le maggiori barriere all’espansione delle nostre esportazioni di prodotti di origine animale, in particolare di carni e prodotti a base di carne, ritenuti possibili veicoli di malattie per gli animali, dalle quali i diversi Paesi Terzi ritengono di doversi difendere. In realtà i motivi di ordine sanitario, così spesso invocati per ostacolare le esportazioni, sono deboli e la presenza — spesso solo presunta — sul territorio nazionale o addirittura comunitario di malattie animali viene impiegata in maniera surrettizia al fine di elevare barriere commerciali laddove, in base agli accordi internazionali, dovrebbero essere stati abbattuti gli ostacoli alla libera circolazione delle merci.
Senza pensare a quelle patologie o agenti patogeni la cui presenza non è provata, ma neppure può essere esclusa in assenza di un sistema di sorveglianza attivo (tempo addietro l’Australia aveva cercato di porre dei vincoli alle nostre esportazioni di prodotti a base di carne suina sulla base del fatto che l’Italia non disponeva di un piano di monitoraggio nei confronti del Nipah virus2, la cui presenza è segnalata solo in alcune aree dell’Asia centrale), gli esempi di malattie degli animali la cui presenza è di ostacolo alle esportazioni purtroppo non mancano. Basti pensare alla peste suina africana in Sardegna, alla malattia vescicolare del suino (presente ormai in un’unica regione d’Italia) o perfino alla Bse, nei confronti della quale l’Italia è stata riconosciuta essere un Paese a rischio “trascurabile”3, che viene tuttavia ancora ritenuta un pericolo attuale da parte di alcuni Paesi che, sulla base di questa considerazione, bloccano le importazioni di carni e prodotti a base di carne di ruminanti di nostra provenienza.
Sono malattie spesso confinate in territori circoscritti e comunque mantenute efficacemente sotto controllo, ma la cui sola presenza, o presunta tale, nel territorio nazionale costituisce un ostacolo alle nostre esportazioni.
Sembra evidente che in un mondo “a parole” decisamente avviato verso la liberalizzazione dei commerci, con la maggior parte dei Paesi che, sempre “a parole”, sostengono l’eliminazione delle barriere agli scambi, numerosi Paesi non hanno rinunciato, spesso sulla spinta di istanze interne, ad adottare politiche protezionistiche.
Solo che le barriere doganali, abbattute o comunque ridotte sulla base degli accordi siglati prima nell’ambito GATT e poi WTO, sono spesso state sostituite da barriere sanitarie, la cui efficacia protezionistica non è in discussione e la cui applicabilità è sancita addirittura dagli stessi accordi sottoscritti nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Alla base di tutto, il principio secondo il quale un Paese non può essere obbligato ad introdurre nel proprio territorio elementi che potrebbero contribuire a esporre la propria popolazione e le proprie produzioni, animali e vegetali, a rischi. Secondo l’accordo SPS (The Agreement on the Application of Sanitary and Phytosanitary Measures) sottoscritto nell’ambito del WTO, costituito da soli quattordici, densi articoli più tre allegati tecnici4, ogni Paese può quindi stabilire le condizioni sanitarie, zoosanitarie e fitosanitarie che devono rispettare gli animali, le piante e le derrate da questi ottenute introdotti nel Paese, al fine di proteggere la salute della popolazione umana, animale e del patrimonio vegetale nazionale.
Il principio in sé è indiscutibile: ciascun Paese deve poter essere libero di difendere il proprio status quo sanitario, rifiutando l’ingresso nel proprio territorio di materiali in grado di causare o diffondere malattie tra la popolazione umana, animale o vegetale, peggiorando la situazione in essere. Chiaro il riferimento allo status sanitario in essere nel Paese, in base a dati epidemiologici definiti e oggettivabili (assenza di una certa malattia, prevalenza di una determinata condizione, vigenza e stato di attuazione di un piano di eradicazione e controllo nei confronti di una malattia, ecc…), e non a condizioni futuribili e comunque non attuali.
L’accordo stabilisce inoltre che i requisiti posti a difesa delle condizioni sanitarie di un Paese devono essere scientificamente fondati, non discriminanti nei confronti di un Paese rispetto ad altri, e che le misure predisposte e attuate a difesa del livello sanitario del Paese lo devono essere in modo tale da impattare il meno possibile sui commerci internazionali.
Nonostante le “buone intenzioni” sottoscritte da tutti i Paesi firmatari degli accordi WTO, è chiaro che le barriere sanitarie (zoosanitarie e fitosanitarie) vengono spesso impiegate surrettiziamente, al posto delle barriere doganali e tariffarie che si vorrebbero abolite, per proteggere gli operatori nazionali.
Se questa è la situazione per quanto riguarda le malattie degli animali, non meno complesso è l’altro aspetto, che spesso viene a costituire un ostacolo alle nostre esportazioni: il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie degli stabilimenti e l’organizzazione di un sistema dei controlli ufficiali (cioè gestiti dall’autorità competente dello Stato) sugli stabilimenti, sui processi di produzione e sui prodotti, in grado di fornire garanzie almeno equivalenti a quelle in essere nel Paese di destino degli alimenti, che  possono anche essere più stringenti di quelli stabiliti dalla normativa comunitaria e nazionale in vigore.
Nel caso degli alimenti, i requisiti possono riguardare l’origine delle materie prime (per esempio per escludere alcune aree geografiche o, per contro, per richiedere una specifica provenienza), le condizioni di processo al quale sono stati sottoposti (per esempio tempi e temperature del processo termico o i tempi minimi di stagionatura), i parametri chimico-fisici del prodotto finito (aW, pH), la composizione, i criteri microbiologici del prodotto finito, ma anche le modalità di controllo operate sui processi e sugli impianti sia da parte degli operatori economici che delle Autorità competenti.
Anche in questo caso valgono i medesimi principi stabiliti nell’ambito dell’accordo SPS (fondatezza scientifica, non discriminazione, contenimento dell’impatto delle misure sugli scambi), solo che mentre i requisiti zoosanitari sono posti fondamentalmente a protezione del sistema economico del Paese, quando ci si sposta a considerare gli aspetti igienico-sanitari il riferimento è chiaramente la protezione della salute (e degli interessi) dei consumatori.
In entrambe le situazioni un errore da evitare è quello di considerare a priori le scelte degli altri Paesi come irrazionali, ingiustificate o strumentali. Certo, spesso i requisiti per l’esportazione imposti da alcuni Paesi sono chiaramente tali, senza alcun reale riferimento alla situazione in essere nel Paese di origine e in quello di esportazione. In questi casi è possibile ricorrere al WTO avverso le decisioni di un Paese che hanno il solo scopo di ostacolare le importazioni (è recente il ricorso dell’Unione Europea a seguito della decisione di bloccare le esportazioni di carni e prodotti a base di carne suina da tutto il territorio dell’Unione verso la Federazione Russa, a causa dei casi di peste suina africana rilevati in alcune aree ristrette di Lituania e Polonia)5.
A prescindere da queste situazioni “patologiche”, deve essere riconosciuto che i diversi requisiti sanitari (e zoosanitari) spesso discendono da differenze di contesto e culturali che devono essere accettate, se si vuole sostenere le nostre esportazioni. Un Paese come l’Australia, geograficamente isolato e per questo mantenutosi indenne da numerose malattie delle piante e degli animali presenti in altre aree del mondo, può legittimamente operare per prevenire l’introduzione nel proprio territorio di tali patologie. D’altro canto, Paesi come gli USA, che tradizionalmente impiegano tecnologie “dure” nella produzione degli alimenti (forte acidificazioni, uso esteso del calore con cotture prolungate e ad alte temperature, impiego di radiazioni ionizzanti e di additivi chimici per abbattere le cariche microbiche, ecc…) e che non hanno l’abitudine a consumare alimenti “crudi”, ritenuti non sicuri, possono legittimamente richiedere che gli alimenti importati sul loro mercato rispondano agli stessi criteri di sicurezza microbiologica stabiliti per quelli ottenuti dai produttori nazionali applicando processi che probabilmente non trovano corrispondenza in atri Paesi.
Limitando ora l’osservazione ai requisiti di sicurezza alimentare, e quindi alle modalità attraverso le quali i diversi Paesi assicurano il livello di protezione ritenuto adeguato ai propri consumatori, possiamo riconoscere a livello mondiale tre importanti aree di influenza:
l’area del Pacifico, alla quale appartengono il Nord, il Centro e, in parte, il Sud America, il Giappone, la Cina, la Corea e l’Oceania, che guardano al modello USA come a quello di riferimento;
l’area europea, centrata sulla UE;
l’area costituita da numerosi Paesi già facenti parte dell’Unione Sovietica che oggi guarda al modello stabilito dalla Federazione Russa per assicurare la sicurezza dei propri consumatori.
È importante conoscere i diversi approcci alla sicurezza alimentare perseguiti dai Paesi afferenti alle diverse aree, perché solo così possiamo rispondere in modo adeguato alle aspettative di tali Paesi e quindi garantire uno sbocco alle nostre esportazioni.
Premesso che, a oggi, a causa delle noti vicissitudini geopolitiche, il mercato eurasiatico raccolto attorno all’Unione Doganale tra Federazione Russa, Bielorussia e Kazakistan appare sostanzialmente chiuso (è possibile solo l’esportazione di poche categorie di derrate, tra le quali i visceri bovini — due soli stabilimenti italiani autorizzati — e i prodotti a base di latte delattosato)6, è all’importante mercato dell’area del Pacifico che, oggi, è rivolta l’attenzione delle nostre industrie agroalimentari: le esportazioni verso gli USA mostrano una crescita a due cifre, nonostante le difficoltà a incontrare i requisiti molto stringenti stabiliti da quel Paese; il Giappone premia sia i nostri formaggi, sia i prodotti a base di carne; la Cina rimane, ad oggi, un grosso punto di domanda, ma le possibilità offerte da un mercato di diverse centinaia di milioni di consumatori sono tali da sollecitare un’attenzione particolare verso questo Paese.
Se così è, la conoscenza dei requisiti stabiliti per l’esportazione negli USA, quello che potremmo chiamare il “modello USA”, e la loro pratica applicazione, sia da parte delle industrie alimentari che vogliono esportare, sia da parte delle autorità competenti per quanto riguarda la conduzione delle verifiche su tali stabilimenti, diventa essenziale.
Teoricamente, gli obiettivi perseguiti dal “modello USA” e da quello comunitario e i requisiti operativi (modalità generali di gestione degli stabilimenti e dei processi) non differiscono in modo sostanziale: entrambi i sistemi fanno riferimento alla protezione della salute e degli interessi dei consumatori, entrambi pongono attenzione alle modalità di informazione del consumatore e alla protezione degli animali, ecc…
La cosa non può stupire, posto che sia gli USA (e i Paesi che agli USA si riferiscono), sia la UE condividono le medesime informazioni scientifiche, siedono negli stessi tavoli internazionali di concertazione e approfondimento (CODEX Alimentarius). Ciò che cambia, e radicalmente, è il contesto politico, economico e sociale, che porta le due aree ad applicare gli stessi requisiti tecnici in modo spesso assai differente. Alla base una diversa applicazione dell’analisi del rischio, modello di decision making comune, che non per questo deve necessariamente portare a conclusioni uniformi. I diversi approcci adottati da USA e UE nella gestione del problema L. monocytogenes può essere illuminante.
Che Listeria monocytogens sia un microrganismo patogeno in grado di causare episodi gravi di malattia, spesso mortale, soprattutto in individui con stato immunitario compromesso, è assodato, come pure il fatto che il microrganismo è ampiamente diffuso in natura, per cui l’esposizione dei consumatori nelle diverse aree del mondo non differisce in modo sostanziale (l’Organizzazione Mondiale della Sanità – WHO stima che la prevalenza della malattia nell’uomo sia abbastanza costante in tutte le aree del mondo). Quindi non meraviglia che la valutazione del rischio condotta sulle due sponde dell’A­tlantico porti a conclusioni sostanzialmente sovrapponibili.
Le misure di gestione del rischio sono invece significativamente diverse, almeno nel caso degli alimenti pronti al consumo. Se da una parte l’Europa, in linea con quanto raccomandato a livello del Comitato del Codex Alimentarius (CAC), ritiene accettabile il superamento dell’obiettivo “tolleranza zero” almeno per quegli alimenti la cui natura non consente la crescita del microrganismo nel corso della shelf-life7, gli USA, e con essi numerosi, importanti Paesi quali la Cina, la Corea del Sud, l’Australia, ecc…, non ammettono alcuna presenza rilevabile del microrganismo in tali alimenti.
Le ragioni delle diverse misure di gestione del rischio applicate trovano facile spiegazione laddove si considerino le abitudini alimentari (abitudine a consumare alimenti prevalentemente cotti, o comunque trattati con il calore nel corso del processo di produzione, da una parte; diffusa cultura dell’alimento “crudo” o minimamente trattato, dall’altra), come pure la natura degli alimenti e dei processi applicati per la loro produzione nelle due aree geografiche in esame, come richiamato sopra. L’uno e l’altro aspetto concorrono a far sì che la presenza, se pure a livelli estremamente bassi, di L. monocytogenes negli alimenti pronti al consumo venga gestita in modo diverso, mediante l’adozione di criteri microbiologici applicabili a tali alimenti (la fissazione di criteri microbiologici per gli alimenti costituisce una delle possibili misure di gestione del rischio) che da un lato ammettono una certa presenza del microrganismo8, dall’altro portano a considerarne la presenza come un rischio inaccettabile9.
Le differenze circa le modalità scelte per la “gestione del rischio” — una delle tre componenti dell’analisi del rischio, con la valutazione del rischio e la comunicazione del rischio — non si fermano solo ad aspetti puntuali quali i criteri di accettabilità, microbiologica e chimica, degli alimenti. Anche modelli di gestione della sicurezza condivisi a livello dei tavoli internazionali sono spesso applicati in modo differente.
È il caso del modello HACCP: laddove il Regolamento (CE) n. 852/04 parla di “procedure basate sui principi HACCP”*, il Code of Federal Regulation, al capitolo 417 (9CFR417), dispone l’integrale applicazione dei sette principi** ulteriormente svolti con atti successivi, che fanno riferimento, per esempio, alla necessità che il modello applicato sia validato dall’industria alimentare.
Non si tratta di differenze solo lessicali, ma concettuali; per esempio, laddove il 9CFR417.2 stabilisce che lo stabilimento debba dimostrare di gestire ogni pericolo “per il quale una valutazione prudente porterebbe a stabilire misure di controllo perché si è già presentato, o perché c’è la ragionevole probabilità che si possa presentare nel particolare tipo di prodotto lavorato nello stabilimento in assenza di tali misure di controllo”.
Nella pratica tale approccio porta alla necessità di predisporre piani specifici molto dettagliati e adeguatamente (scientificamente) giustificati e fondati. I “manuali nazionali di corretta prassi operativa in materia di igiene e di applicazione dei principi del sistema HACCP”, di cui agli articoli 7, 8 e 9 del Reg. (CE) n. 852/04 del cui uso e pratica applicazione le autorità preposte ai controlli ufficiali devono tenere conto nello svolgimento dei propri compiti (Reg. CE n. 882/04, art. 10.2, lettera d), vengono sostituiti da una serie di modelli di analisi e gestione dei pericoli applicabili alle diverse categorie di stabilimenti in funzione della natura dei processi applicati e degli alimenti ottenuti, con la richiesta, comunque, di una loro validazione — cioè della dimostrazione della loro pratica efficacia — nel singolo contesto aziendale. L’attendibilità, l’aderenza alla realtà e l’efficacia del piano verranno valutate nel corso dei controlli condotti dall’autorità competente, con specifico riferimento allo stabilimento in esame.
Anche quando si passi a considerare uno dei capitoli più significativi delle attività di gestione dei pericoli in un’industria alimentare, le procedure e i sistemi di pulizia e disinfezione delle superfici e degli ambienti, le differenze tra i due approcci sono evidenti, non quanto agli obiettivi, ma per gli strumenti previsti. In particolare la normativa USA introduce il principio riassumibile con il motto “tutte le superfici sono uguali, ma ve ne sono alcune che sono più uguali delle altre”.
In pratica, il regolamento USA dispone che lo stabilimento, a fianco delle procedure di pulizia e disinfezione previste per tutte le superfici a contatto e non a contatto (9CFR416.4), predisponga e attui specifiche procedure di monitoraggio e verifica delle condizioni di pulizia e disinfezione delle superfici destinate a venire a contatto direttamente o indirettamente con gli alimenti. Tali procedure, denominate SSOP (acronimo per Procedure Operative Standard di Sanificazione), sono descritte solo dal 9CFR416 — dal paragrafo 12 al 17 — ma sono previste dalla normativa di numerosi altri Paesi (per esempio Giappone, Corea del Sud, Cina, Australia). La conoscenza dei principi alla base delle SSOP, suddivise in pre-operative e operative, diviene quindi essenziale al fine della loro corretta applicazione in vista dell’esportazione dei nostri prodotti verso una pluralità di Paesi Terzi, che includono ma non sono limitati al pur importante mercato USA, anche perché, per tutti questi Paesi, gli alimenti che dovessero entrare a contatto con una superficie non adeguatamente gestita nell’ambito delle SSOP vengono considerati sicuramente contaminati.
Le SSOP devono essere condotte con frequenza almeno giornaliera, o nei giorni in attività. Il monitoraggio delle superfici incluse nel programma SSOP deve essere sistematico e, nel caso in cui siano rilevate delle superfici non pulite, devono essere adottate le adeguate azioni correttive. Nel caso in cui un prodotto sia entrato in contatto con una superficie riscontrata non conforme (NC), le azioni correttive dovranno coinvolgere il trattamento del prodotto “contaminato”. È infatti essenziale comprendere che qualsiasi prodotto venuto a contatto con una superficie NC è, di per sé, contaminato, indipendentemente dai risultati di altre prove, anche di laboratorio.
Il monitoraggio deve essere condotto da personale adeguatamente formato e gli esiti devono essere immediatamente registrati (non è accettabile una registrazione differita, al ritorno in ufficio). Le registrazioni devono riportare l’ora di esecuzione, gli eventuali valori delle misurazioni condotte o rilevate (per esempio la temperatura di uno sterilizzatore) e devono essere datate e firmate o siglate da chi ha condotto il monitoraggio. In caso di rilievo di NC, queste devono essere parimenti registrate in modo sintetico ma chiaro (natura della NC, luogo di rilievo, estensione, ecc…), devono essere esplicitate le responsabilità in merito all’adozione delle azioni correttive (AC), che devono comunque precedere ogni ulteriore lavorazione su quella superficie.
L’attività di monitoraggio deve essere a sua volta verificata da un soggetto diverso da quello che l’ha condotta. Le verifiche mireranno ad accertare l’effettiva pulizia delle superfici, la correttezza delle modalità operative adottate dal monitoratore, come pure delle registrazioni, e la completezza e adeguatezza delle eventuali AC adottate.
Da questi brevi cenni appare chiaro che l’integrale applicazione di un requisito chiave come le SSOP non è né semplice, né di scarso im­patto sia per l’azienda, sia per i servizi veterinari, che sono chiamati ad assicurarne l’applicazione, laddove richiesto. Ciò nonostante, e ritorniamo così al paragrafo di apertura, deve essere fatto ogni sfor­zo per dimostrare alle autorità di controllo dei Paesi Terzi, verso i quali desideriamo instaurare o man­tenere correnti di esportazio­ne, che siamo in grado di garantire un livello di sicurezza delle produzioni almeno pari a quello stabilito dalle rispettive norme nazionali, tanto più che, sempre più spesso, tali autorità vengono ad auditare il “sistema Italia”.
Le modalità di applicazione delle procedure di autocontrollo negli stabilimenti USA e di controllo ufficiale sugli stessi stabilimenti sono, tra l’altro, descritte in due recenti note ministeriali alle quali si rimanda per maggior completezza10, 11.
In questo quadro, il veterinario ufficiale assume un ruolo di primaria importanza quale garante del rispetto dei requisiti, dalla produzione primaria (controllo degli standard in materia di malattie degli animali) alla trasformazione (verifica del rispetto delle condizioni igieniche di produzione e dei parametri di processo stabiliti), sino alla spedizione (verifica finale circa il rispetto documentato di tutte le condizioni poste per l’esportazione dei prodotti).
Quest’ultimo passaggio, che si concretizza nella sottoscrizione, da parte del veterinario ufficiale, del certificato sanitario di esportazione, costituisce uno degli atti professionalmente più qualificanti del veterinario ufficiale ed è normato dal DM 303/200012, che stabilisce i principi per la sottoscrizione delle certificazioni veterinarie, tra i quali l’effettiva conoscenza delle condizioni da sottoscrivere, che può essere acquisita direttamente o sulla base di una certificazione ufficiale rilasciata da un soggetto operante a livello delle fasi precedenti della filiera.
In conclusione, se pure il ruolo e la responsabilità dell’industria alimentare non possono essere messi in discussione, i veterinari ufficiali costituiscono un anello fondamentale del processo che può garantire l’esportazione degli alimenti di O.A. verso Paesi Terzi. Il ruolo del veterinario è essenziale sia nel fornire adeguate garanzie ai Paesi destinatari delle nostre esportazioni, sia a supporto delle stesse industrie che si vogliono affacciare su questi mercati.
Il raggiungimento di questi importanti obiettivi è peraltro possibile solo sulla base di un’adeguata conoscenza e del rispetto dei requisiti, sia a livello di stabilimenti che di produzioni e di autorità di controllo, stabiliti dai diversi Paesi per permettere l’introduzione nel proprio territorio di alimenti e animali.


Filippo Castoldi
Regione Lombardia U.O. Veterinaria

Claudio Mucciolo
ASL di Salerno, Dipartimento di Prevenzione Area Sud Servizio Igiene Alimenti di O.A.



Bibliografia consultata
www.federalimentare.it/banche_dati.asp
www.who.int/csr/disease/nipah/en
OIE, Risoluzione n. 21, Recognition of the Bovine Spongiform Encephalopathy Risk Status of Member Countries, Parigi, 26/05/2015.
www.wto.org/english/tratop_e
    /sps_e/spsagr_e.htm
italian.cri.cn/761/2014/04/09
    /481s211538.htm
Risoluzione del Governo della Federazione Russa del 25/06/2015, n. 625, in merito all’introduzione di aggiornamenti alla Risoluzione del Governo della Federazione Russa del 07/08/2014, n. 778.
EFSA, Request for updating the former SCVPH opinion on Listeria monocytogenes risk related to ready-to-eat foods and scientific advice on different levels of Listeria monocytogenes in ready-to-eat foods and the related risk for human illness, The EFSA Journal (2007) 599, 1-42.
Reg. (CE) n. 2073/2005 della Commissione del 15 novembre 2005 sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari, in G.U. CE serie L n. 338 del 22/12/2005, pag. 1.
9CFR430, Requirements for Specific Classes of Product, www.gpo.gov/fdsys/pkg/CFR-2010-title9-vol2/pdf/CFR-2010-title9-vol2-part430.pdf
Ministero della Salute, DGISAN – Nota n. 26639 del 30/06/2014 “Controllo ufficiale presso gli stabilimenti iscritti nella lista degli impianti italiani autorizzati all’esportazione di prodotti a base di carne in USA”.
Ministero della Salute, DGSAN – Nota n. 44986 del 03/12/2014 “L. monocytogenes e Salmonella spp. nei prodotti a base di carne suina destinati all’export. Criteri e modalità di gestione dell’autocontrollo aziendale e modalità di verifica dell’autorità competente”.
DM 19 giugno 2000, n. 303, “Regolamento di attuazione della Direttiva 96/93/CE relativa alla certificazione di animali e di prodotti di origine animale”, in G.U. n. 252 del 27 ottobre 2000.

Note
*    “Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP”, Reg. (CE) n. 852/04, art. 5.1.
**    “Every establishment shall develop and implement a written HACCP plan covering each product produced by that establishment”, 9CFR417.2(b).



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