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La carne in tavola

Picaja, Tasca e Cima

di Manicardi N.

Sembra un gioco di parole, una filastrocca infantile, una cantilena… E dell’infanzia, Picaja, Tasca e Cima, conservano il sapore lontano, quello delle cose buone, che si ricordano e si ricercano in mezzo ai tumultuosi avvenimenti dell’esistenza per fermarsi un attimo ad assaporare, ad indugiare in quella calma e serenità ormai perdute. Si tratta di tre specialità gastronomiche appartenenti a tre aree locali differenti — Bassa parmense, collina piacentina e entroterra genovese —, unite da quegli antichissimi passaggi fra le montagne un tempo frequentati soprattutto dai pastori nelle loro transumanze. Più che strade erano viottoli, sentieri, che si inerpicavano su e giù e dentro un Appennino ancora oggi in parte selvatico e che collegavano il mare con la pianura e la pianura col mare, portando di qua e di là una straordinaria ricchezza di esperienze diverse che andavano a confluire in una cultura mista dai tratti affascinanti ma tuttora non adeguatamente conosciuti. Picaja, Tasca e Cima conservano, di quei tempi remoti, la parte forse migliore e più facilmente accessibile a tutti: quella legata al cibo, al vissuto, al calore di genti semplici e un po’ rustiche ma che in questi piatti hanno saputo sfoggiare una raffinatezza notevolissima.

Picaja

La Picaja è tipica della Bassa parmense. Preparazioni analoghe si trovano nelle vicine aree del Bresciano (pancia ripiena alla bresciana) e della Bergamasca (punta ripiena alla bergamasca). È una punta di vitello in cui viene praticata una larga tasca dentro la quale è inserito un ripieno uguale a quello degli anolini, l’altrettanto tipica pasta in brodo “imbottita”. Questo ripieno è un impasto di formaggio Parmigiano Reggiano stravecchio grattugiato con un po’ di pane raffermo anch’esso grattugiato e l’aggiunta di uova sbattute con un pizzico di pepe, noce moscata e sale. Manca, nel caso della picaja, il sugo ristretto di stracotto di manzo insaporito con noce moscata. La tasca deve essere riempita con grande attenzione in modo da non romperla e non lasciare spazi vuoti. Viene poi ricucita con refe bianco e messa a cuocere. Il tipo di cottura è vario e fa parte del patrimonio gastronomico di ogni famiglia che continui a cucinare questo piatto, soprattutto per le festività. C’è chi la fa bollire in abbondante acqua con sedano, carota e cipolla per circa un’ora e mezza e chi la mette in forno, a 190-200º, per una cottura lenta preceduta da una rapida rosolatura su entrambi i lati per sigillare bene la carne. La cottura al forno rende la picaja più succosa e saporita e le conferisce inoltre una deliziosa crosticina in superficie. La punta di petto, del resto, è indicata specialmente per arrosti e rotoli farciti. Dopo averla fatta riposare per circa un quarto d’ora, si taglia a fette e la si irrora col sugo di cottura in precedenza ridotto di un terzo.

Al Tasc

La Tasca piacentina (al Tasc) caratterizza le tradizioni culinarie soprattutto della collina. Anche in questo caso si utilizza la punta di vitello tagliata a tasca, a sua volta riempita e successivamente cucita a mano per impedire la fuoriuscita dell’impasto. Qui, nel Piacentino, si adoperano anche le verdure, bietole o spinaci. Poi, oltre al formaggio, alle uova e al pangrattato, anche aglio pestato e pancetta lardata tritata finemente, con sale e pepe a piacere. Si cuoce a bollitura. Una volta tagliata a fette, la Tasca viene accompagnata dalla salsa verde casalinga a base di prezzemolo, peperone e carote. Ottima quella secondo la ricetta della zona di Cerignale, con prezzemolo (meglio se fresco), aglio, tuorlo d’uovo sodo, mollica di pane bagnata nell’aceto, vino bianco, olio, sale e pepe. Personalmente consiglio anche la mostarda, soprattutto se si ha la fortuna di imbattersi in una mostarda preparata familiarmente secondo la tradizione che anche qui, pur non essendo nel Cremonese e nel Mantovano, rimane comunque caratteristica e abbastanza viva.

‘A Çimma

La Cima genovese è caratterizzata soprattutto dalle frattaglie dell’animale che vanno a formare l’impasto. È infatti un piatto della cucina di recupero, anche se complessivamente risulta molto ricco e pregiato. Tipico della zona del capoluogo, è però diffuso in tutta la Liguria di cui costituisce uno dei simboli gastronomici più conosciuti ed apprezzati. Il grande cantautore genovese Fabrizio De Andrè le ha perfino dedicato una canzone, ‘A Çimma, scritta con Ivano Fossati, altro grande cantautore della città della Lanterna. Nella canzone, in cui si parla poeticamente anche della ricetta, il ritornello dice:

“Cielo sereno terra scura /

carne tenera non diventare nera /non ritornare dura /

e nel nome di Maria /

tutti i diavoli da questa pentola /andate via”.

Si fa intuire anche la lunghezza e laboriosità della ricetta.

“Ti sveglierai sull’indaco del mattino / quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare / ti guarderai allo specchio di un tegamino /

il cielo si guarderà alla specchio della rugiada / metterai la scopa dritta in un angolo /

che se dalla cappa scivola in cucina la strega / a forza di contare le paglie che ci sono / 

la cima è già piena è già cucita”.

Si prepara sempre con la tasca che si riempie con polpa di vitello, poppa (tettina di vitello), strigolo (parte della trippa), animella, cervello e testicolo di vitello, uova, Parmigiano Reggiano grattugiato, piselli, mollica di pane ammollata in acqua o latte, aglio, maggiorana, sale, pepe e olio evo (ovviamente ligure). Nel brodo di cottura ci saranno gli odori di rito, cioè sedano, carota e cipolla. Vista la ricca farcitura è bene avvolgere la cima in un canovaccio bianco per non disperderla durante la bollitura. E poi…

“Poi vengono a prendertela i camerieri / ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere / tocca allo scapolo la prima coltellata / mangiate mangiate non sapete chi vi mangerà”.

Nunzia Manicardi

Didascalia: tasca piacentina ripiena (photo © ricette.giallozafferano.it).



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