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Il passaggio generazionale nelle imprese dell’agroalimentare

di Dessì M. A.


Il calo demografico è un dato oggettivo a cui è difficile porre rimedio nel breve e medio periodo ma le cui conseguenze si possono intravedere e toccare con mano in largo anticipo. Non cambierà solo la struttura e la composizione delle nostre comunità, ma anche il tessuto imprenditoriale. Secondo Confartigianato Imprese, quella che viene definita non a caso Glaciazione demografica avrà effetti nefasti sull’economia nazionale e influirà anche sulla forza lavoro: tra il 2024 e il 2050 la popolazione in età lavorativa (20-64 anni) diminuirà di 7 milioni (–20,4%), una somma enorme, corrispondente alla forza lavoro attuale del Nord Ovest del Paese. Calerà allo stesso modo il peso dei giovani anche tra imprenditori e lavoratori autonomi. E se nel 2004 gli occupati indipendenti under 35 erano 1.512.000 e quelli con 60 anni e oltre erano 605.000, nel 2023 il rapporto si è invertito. I giovani indipendenti sono più che dimezzati, scendendo a 719.000 e venendo superati fin dal 2018 dagli imprenditori e lavoratori autonomi senior che nel 2023 sono saliti a 897.000 unità. Secondo l’Osservatorio AUB il 23% circa delle PMI italiane è attualmente guidato da titolari con oltre 70 anni.

L’invecchiamento della classe imprenditoriale è evidente e nelle realtà produttive dove ancora non si è avviato un vero e proprio passaggio generazionale si vive una lunga convivenza tra generazioni, sia titolari d’impresa, che dipendenti. Tra giovani che hanno difficoltà ad affermarsi alla guida dell’azienda e anziani che non vogliono o non possono mollare, la coesistenza può durare a lungo e non è detto che sfoci in passaggi di mano dal sicuro successo. Questa gestazione è infatti una fase particolarmente delicata della vita di un’impresa, soprattutto quando azienda e famiglia si sovrappongono. Una condizione diffusissima in Italia, dove le ditte a conduzione famigliare, piccole o grandi che siano, sono una parte importante del quadro economico complessivo.

Sempre secondo Confartigianato (elaborazione dati Istat), nel 2018 le imprese italiane con almeno 3 addetti, controllate da una persona fisica o da una famiglia, erano il 75,2% del totale. Un dato che, nel 2022, si è incrementato sino all’80,9%. Tra il 2016 e il 2022, il 9,1% delle imprese dichiarava di aver affrontato almeno un passaggio generazionale, che includeva operazioni di trasferimento e successione nella conduzione dell’impresa tra soggetti legati da vincolo di parentela e/o affinità. In questi casi, il ruolo della famiglia proprietaria o controllante si è mantenuto in oltre 2/3 dei casi e rafforzato in meno di 1/5: nel complesso, nel 94,8% dei casi, dopo il passaggio generazionale si è mantenuto o rafforzato il ruolo della famiglia proprietaria o controllante.

Facendo invece una disamina territoriale del dato, si nota che le regioni con la più alta propensione al passaggio generazionale negli ultimi 6 anni sono state la Provincia Autonoma di Bolzano, con l’11,9% di imprese che hanno affrontato questa fase, e a seguire Veneto (11,6%) e Lombardia (11,2%). Il fenomeno segna inoltre un marcato incremento anche in Emilia-Romagna e Molise. All’opposto, le regioni dove è più bassa la propensione al passaggio generazionale sono il Lazio (6,0%), la Campania (6,3%) e la Sicilia (6,6%).

Nel fenomeno in oggetto, il 67% delle imprese interessate erano di piccole dimensioni, il 33% medie. Nella quasi totalità delle aziende oggetto dell’indagine, la successione, totale o parziale, era già avvenuta e nel 44% dei casi non era stata programmata. Un fatto, questo, che dimostra che manca la consapevolezza che questo momento fisiologico nell’esistenza di aziende e persone, pur naturale e ovvio, vada preparato e che la mortalità in fase di successione d’impresa sia altissima.

Pertanto, è necessario programmare e prepararsi per evitare danni irreversibili, cessazione compresa.

In sintesi, c’è ancora una scarsa conoscenza del problema e questo fatto riguarda tutti i comparti.

Oltre agli ostacoli di natura burocratica, finanziaria e amministrativa, le insidie nelle successioni sono dovute alle dinamiche personali tra gli attori, i cui meccanismi risiedono molto spesso in ambito famigliare e poco hanno a che fare con l’azienda e il suo futuro. Enormi problemi possono sorgere in sede di conferimento delle proprietà, anche immobiliari, quando si tratta di società di persone o ditte individuali al subentro nella compagine societaria delle società di capitali e ad altre trasformazioni complesse che assorbono tempo e denaro.

Quando impresa e famiglia solo in parte coincidono, gli eredi estranei all’attività che hanno precedentemente preso un’altra strada professionale, rispetto a quella del lavoro nell’azienda di casa, possono pretendere di entrare a farne parte o di partecipare alla divisione degli utili o anche solo di essere liquidati.

E la diffusa consuetudine di saldare il parente indebitando la società può rivelarsi deleteria.

Quando poi le dinamiche tra le mura domestiche varcano la soglia della serranda dell’azienda, altri problemi possono affacciarsi all’orizzonte. Affidare compiti decisionali ad eredi che non hanno capacità né preparazione, ma sono lì per diritto dinastico, può essere fatale. Eppure questi errori si riscontrano anche in contesti dove ci si aspetta una visione più razionale di un momento così delicato come il passaggio del testimone.

Tutti gli imprenditori che sanno che entro qualche anno l’azienda verrà guidata dai figli si dichiarano propensi a cedere il passo. Nella realtà non è però infrequente che i figli, pur apparentemente coinvolti nei processi decisionali, subiscano la frustrazione di dover rimettere al padre la decisione finale, anche quando la maggiore età è raggiunta da tempo. Non solo c’è una scarsa propensione alla delega, ma in un Paese dove sembra regnare la gerontocrazia i giovani non sempre vengono correttamente responsabilizzati, con tutti i problemi che possono derivare sul medio e lungo termine. Gli eredi subiscono la mortificazione di non essere mai davvero all’altezza e maturano professionalmente nella scarsa autostima di chi non può stare nel ruolo come chi l’ha preceduto.

La tendenza alla resistenza verso nuove tecnologie e nuove metodologie, unita alla visione differente del mondo, normalmente genera già nella convivenza tra generazioni assenza di dialogo, frizioni e attriti che non aiutano.

Anche nelle aziende più grandi dove, oltre alla famiglia, partecipano alla vita aziendale collaboratori esterni, le fasi del passaggio generazionale si ripercuotono su tutta la struttura, sui ruoli e sulle funzioni manageriali più importanti, spesso impattando negativamente sui rapporti tra responsabili di funzione e proprietà. Quando l’impronta della famiglia è forte, si possono frequentemente riscontrare distorsioni nella definizione dei ruoli e delle funzioni ricoperte all’interno degli organigrammi aziendali, acuite dalla presenza di padri, madri e figli nei settori preminenti o a capo delle funzioni strategiche. Mediamente, nelle imprese accade che il padre o capofamiglia assuma il ruolo di amministratore e che di solito a questo si accompagni l’esercizio dell’attività commerciale. La madre, ove coinvolta in azienda, è normalmente, assieme alle figlie femmine, relegata alla gestione amministrativa. Ai figli maschi sono di norma riservati i ruoli commerciali o di marketing (in organizzazioni più evolute) o di responsabili della produzione quando gli eredi sono diversi.

Nelle imprese familiari è tipica l’invalidazione del sistema meritocratico aziendale: la presenza di un figlio o nipote erede non viene meno nemmeno quando questo non mostra particolare spessore imprenditoriale. E quando gli eredi sono diversi, non è detto che il designato in famiglia sia effettivamente quello che incarna le migliori doti gestionali e di leadership. La conseguente svalutazione delle figure meritevoli, siano esse parenti o collaboratori che operano nell’impresa, può generare frustrazioni, disincentivazione a lavorare o aperti contrasti col componente della famiglia con cui non si conviene.

Dall’altra parte, il fatto di attorniarsi unicamente di yes man che nulla aggiungono alla gestione aziendale e che non concorrono di fatto alla sua crescita, riduce gli attriti ma, nel lungo termine, si rivela pericolosa. Non bastasse, il mancato dialogo tra figure importanti dello staff per tutelare ambiti di riservatezza famigliare può essere l’ulteriore elemento che genera problemi.

Il passaggio generazionale va quindi preparato per tempo e da ogni punto di vista. Al di là degli aspetti meramente formali, non è un semplice passaggio di consegne, ma la consacrazione di una nuova leadership che non può essere semplicemente sancita, ma piuttosto universalmente riconosciuta internamente ed esternamente, anche nelle imprese di modeste dimensioni.

I mutamenti nell’assetto societario influiscono talvolta anche sulla dimensione delle risorse finanziarie e sulla disponibilità da parte del mondo bancario, dei clienti e dei fornitori a dare continuità alle relazioni. In un contesto in cui molti istituti di credito hanno un forte radicamento nel territorio e in cui la reputazione di un imprenditore è ancora importante, i cambi ai vertici di un’impresa sono osservati con sospetto. Chi prende il testimone potrebbe non essere all’altezza di chi glielo ha ceduto e aziende che per decenni hanno avuto la stessa leadership potrebbero non sopravvivere a lungo ad un cambio alla guida.

Le imprese del comparto agroalimentare, siano esse dell’industria di trasformazione o agricole, non sono estranee al problema, tutt’altro. In ambito agricolo solo il 30% delle aziende sopravvive al passaggio alla seconda generazione e meno del 15% alla terza. Si pensi a quanto questo dato sia deleterio in termini di patrimonio agroalimentare nazionale.

Le divisioni delle terre tra eredi generano dispersione che alla lunga, soprattutto in certe regioni, hanno portato alla parcellizzazione sotto soglia di sostenibilità agricola. Non a caso, certe aree del Paese sono ricche di terre incolte e necessitano di periodico riordino fondiario. I fondi finiscono spesso in mano a soggetti che non esercitano l’attività agricola, mentre i giovani agricoltori stentano a trovare nuove superfici da coltivare. La burocrazia, i vincoli normativi, il disamore per la campagna, il trasferimento delle proprietà, una fase complessa e costosa fa sì che quello che doveva essere un passaggio generazionale si risolva in una cessazione definitiva.

I giovani agricoltori non sempre trovano misure che facilitino questa fase e nell’agroalimentare, come in altri settori produttivi portanti del made in Italy, non esistono vere e proprie misure di sostegno. Le poche che avrebbero questo fine sono poco efficaci, tardive e inutili o quasi. È spesso nella fase del travaglio per il passaggio di consegne che i fondi di investimento si insinuano, invitando gli eredi a farsi da parte, millantando una vita più semplice a tutti o quasi.

Le politiche europee e nazionali e i Programmi di Sviluppo Rurale (PSR), anche grazie al supporto di Ismea, tendenzialmente contengono misure per il ricambio generazionale, ma ancora poco si sta facendo in un Paese dove l’invecchiamento della classe imprenditoriale è da tempo un fenomeno preoccupante. Eppure, in questo come in altri comparti, il passaggio generazionale può essere una sfida, ma anche un’opportunità per innovare e rafforzare il tessuto imprenditoriale.

Servirebbero azioni specifiche di sostegno al passaggio, con supporto consulenziale, formazione, fiscalità agevolata, accesso al credito facilitato. L’Italia non può permettersi la cessazione massiccia di imprese in comparti portanti come quello agroalimentare, dove una serranda che si abbassa si traduce in perdita di competenze, tradizioni, usanze, specialità, storia, cultura, economia, immagine e molto altro.

Maria Antonietta Dessì



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