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Salumi selvaggi

di Ballarini G.

“Selvaggina” sono gli animali sel­vatici, volatili e terrestri, che la nostra specie ha da sempre cacciato per procurarsi l’ambita carne, considerato un bene prezioso. Preistorica è la lavorazione delle carni degli animali cacciati, come antiche sono le tecniche inventate per la loro conservazione. Se nei paesi caldi prevale l’essiccazione, in quelli freddi è preponderante l’affumicamento, mentre diffusa un po’ ovunque è la tecnica della salagione con sale marino, di affioramento o miniera, associato anche a salnitro o spezie. Tra le carni conservate i salumi hanno un posto di rilievo, traendo la loro denominazione dal sale, il più diffuso e principale agente di conservazione. La conservazione dei pezzi interi, come la coscia o la spalla degli animali di grande o media taglia, avviene con la salatura a secco, per immersione in salamoia o per iniezione della soluzione salina. La salatura a secco è il processo tradizionale e il più indicato per uno standard qualitativo elevato.

Salumi di carne selvatica
Oggi i salumi hanno origine dalla carne di diversi animali di allevamento. Il maiale è certamente il più usato nella produzione dei salumi e a questo fine sono utilizzate parti intere (cosce, spalle, coppe), oppure carni tritate insaccate crude (salami e salsiccia) o cotte (mortadella, zampone, cotechino). Anche le carni di altri animali sono usate nella produzione di salumi, mammiferi e uccelli. Tra i primi vi sono i bovini, la pecora, la capra, il cavallo e l’asino, le cui carni sono trasformate in diversi tipi di salumi (bresaole, salami, mocette e violini, carni salate, ecc…). Tra gli uccelli con carni e grasso trasformati in salumi un ruolo importate ha l’oca (prosciutto, salame, grasso e ciccioli). Da ricordare anche i salumi di pesce, presenti anche in Italia, come la ficazza di tonno siciliana, il musciame e i salami di trota trentini e piemontesi. Oltre alla grande e preponderante varietà dei salumi di animali domestici permangono i salumi ottenuti dagli animali selvatici, ruminanti e non, che rappresentano un’importante patrimonio culturale, gastronomico ed economico nostrano. Gli animali selvatici di produzione italiana dai quali si ricavano salumi sono camoscio, capriolo, cervo, daino e soprattutto cinghiale, ma non sono da dimenticare i salumi che si ricavano dall’alce, dalla renna e dallo zebù. Le carni di animali selvatici hanno valori nutrizionali molto diversi e non si può confrontare un’oca selvatica migratrice con un fagiano stanziale, anche se vi è una certa correlazione con i corrispondenti animali domestici (cinghiale — maiale; cervo e capriolo — bovini domestici; oca e anitra selvatica — oca e anitra domestica), ma con molta cautela, come dimostrano le grandi differenze che si sono create tra cinghiale e maiale domestico. Importante è ricordare che gli animali selvatici hanno un muscolo di solito molto magro. Inoltre, le condizioni di vita, cattura e abbattimento non controllate devono indurre a lavorare le carni di animali selvatici secondo la metodologia tradizionale e, per quanto riguarda i salumi, dopo un adeguato periodo di stagionatura, per evitare taluni rischi sanitari che devono essere evitati (ad esempio, le salsicce devono venire cotte al fine di inattivare pericolosi parassiti, come i toxoplasmi).

Il prosciutto di cinghiale
Il prosciutto di cinghiale toscano, se­con­do Emanuele Cugola (Eurocarni n. 5/2009), fin dal Medioevo è il protagonista indiscusso dei salumi ottenuti dalle carni di animali selvatici e ancora oggi è prodotto ai bordi della Maremma toscana, nelle province di Siena e Grosseto, da norcini dediti alla realizzazione di specialità a base di cinghiale. Nei cascinali e con il favore delle temperature autunnali il rito di morte della caccia ancora oggi si trasforma in una resurrezione di prosciutti, pancette tartufate, speziate o affumicate, salami lunghi o ricurvi, soppressate, porchette e coppe. La selezione al ricevimento della materia prima è importantissima e la carne deve essere soda e ben riposata. Ogni coscia è controllata nel peso, colorazione, spessore e consistenza del grasso superficiale e lavorata in ambiente a temperatura e umidità controllata (massimo +6 °C). La ricetta della concia per la salatura è semplice: sale marino grosso, pepe tagliato in quarti, qualche spezia che ben si sposa con il profumo della carne di cinghiale, escludendo coloranti o aromatizzanti artificiali e certamente gli alteranti biologici (starter). Ciascuna coscia è salata e massaggiata a mano in modo da dosare esattamente l’aggiunta degli ingredienti della concia e rimane in salamoia per tanti giorni quanti sono i chili del proprio peso, generalmente da 4 a 6. Segue la docciatura, rigorosamente a freddo, per rimuovere i residui in eccesso di sale e ottenere un prodotto equilibrato per struttura e fragranza, mai troppo salato o troppo asciutto in superficie. Il sottile grasso di copertura, che contraddistingue i prosciutti di cinghiale, richiede meno sale di una coscia suina poiché, data la magrezza della carne, il sale penetra facilmente in maniera omogenea. I prosciutti hanno una stagionatura mediamente lunga, sino a 9 mesi, che, unitamente alle buone pratiche di lavorazione, preserva dal pericolo di contaminazione da patogeni. La flora vegetativa delle celle e dei locali di stagionatura serve da barriera contro muffe tossiche in superficie. Alla fine, lo stagionatore decide quali prodotti rilasciare per la vendita, dopo aver tastato e puntato ogni coscia nei punti ritenuti più critici. Il risultato è un prosciutto morbido, dalla fetta compatta, di colore rosso acceso, protetta da un bianchissimo grasso di copertura. In bocca, per effetto della masticazione, aldeidi, chetoni e nucleotidi sviluppano sapori con un aroma deciso e intenso che ricorda la naturalità della macchia selvatica; l’aroma di stagionato è dominante e concentrato soprattutto nel muscolo bicipite femorale, il più interno dei tre muscoli della coscia.

Salame di cervo
Il cervo è sempre stato un’importante fonte di cibo per l’uomo: già nelle pitture rupestri risalenti al Paleolitico si possono trovare numerose raffigurazioni di questi animali, solitamente in veste di preda o come entità spirituali. Il cervo è oggi allevato e riprodotto con successo dall’uomo per fini culinari, per l’uso della pelle e dei palchi (che trovano impiego nella medicina tradizionale asiatica), come animale da cortile e per essere reintrodotto allo stato selvatico.
Il salame di cervo è un prodotto caratteristico del Trentino-Alto Adige, le cui ricette possono cambiare da valle a valle, anche se viene lavorato e prodotto anche in altre regioni italiane. È un prodotto destinato agli amanti dei sapori forti tipici della carne di selvaggina, con il suo colore rosso scuro ed un sapore selvatico, deciso e intenso. Ottimo come antipasto, accompagnato o da una birra artigianale o da un tipico vino rosso del Trentino-Alto Adige come il Pinot Nero o il Lagrein. In diverse regioni italiane il salame di cervo è misto e contiene carne di cervo (40-50%) e carne di maiale (60-50%), oltre a sale ed eventuali altre aggiunte segnalate in etichetta.

Mocetta di camoscio
La mocetta (o motzetta) è una carne secca tipica della Valle d’Aosta. Ancora oggi, come in passato, viene confezionata con coscia disossata di camoscio o di stambecco e nella bassa valle è presente anche una produzione di mocetta d’asino (motzetta d’ane), cavallo e capra. Il cosciotto di camoscio è lavorato con sale integrale pestato, pepe nero, rosmarino, alloro, bacche di ginepro, timo, aglio e vino rosso. I pezzi devono avere uno spessore poco accentuato per favorire la penetrazione della concia, che differenzia, tra l’altro, la mocetta dalla bresaola. La coscia di camoscio può essere disossata e legata strettamente, lasciandola riposare in frigorifero per 24 ore prima di passare alla salatura. La carne va massaggiata con la concia; dopo il massaggio il pezzo va ripulito dal sale in eccesso e lasciato riposare in frigorifero per 24 ore (tradizionalmente si utilizzano i cosiddetti doils posti in ambiente fresco).
Dopo questo tempo la carne va massaggiata nuovamente, quindi occorre rimetterla in frigorifero per altre 24 ore circa. Se si tratta di un cosciotto intero disossato si ripeteranno le due fasi precedenti per un nuovo ciclo (24+24+24+24h). Alla fine il pezzo va pulito accuratamente dai residui della concia e asciugato. Eventualmente si può cospargere la superficie con un po’ di pepe nero macinato, ma non è strettamente necessario. Dopo una stufatura di circa 5-6 giorni la mocetta può essere trasferita in camera di stagionatura e appesa con un gancio da macellaio a circa 12 °C per almeno 90 giorni. Con il passare del tempo la mocetta diventa sempre più saporita e di consistenza tenace, fino a poter essere affettata in fettine sottilissime e quasi trasparenti, di consistenza simile alla pergamena, e dal sapore molto intenso.
Prof. Em. Giovanni Ballarini
Università degli Studi di Parma

Altre notizie

Marchio di filiera della selvaggina emiliano-romagnola: si parte!

In occasione della seconda edizione di Selvatica, appuntamento dedicato alla selvaggina e ai prodotti del bosco svoltosi lo scorso dicembre nella splendida cornice di Palazzo Albergati a Zola Predosa (BO), è stato presentato il marchio che identificherà la carne di Selvaggina di filiera dell’Emilia-Romagna. Animali selvatici abbattuti da cacciatori formati e informati la cui carne è in possesso di particolari requisiti, quelli che rendono tale una filiera per intenderci, ovvero tracciabilità, sicurezza e trasparenza della provenienza, a tutto vantaggio di consumatori, ristoratori e “conferitori-cacciatori”. Tutti gli operatori, dai cacciatori alle macellerie ai ristoranti, che aderiscono alla filiera della carne da selvaggina dell’Emilia-Romagna, saranno riconoscibili da questo marchio, che garantisce che il prodotto acquistato è di qualità eccellente, è sicuro da un punto di vista sanitario e proviene esclusivamente da territorio gestito. Una filiera corta, controllata e certificata di carni di selvaggina locale è un mezzo importante per tutelare l’ambiente, salvaguardare il benessere degli animali selvatici e ridurre il bracconaggio. Consumare la carne di selvaggina cacciata rispettando regole, ambiente e territorio è una scelta di valore, che contribuisce alla conservazione, alla promozione e allo sviluppo dell’Appennino e della montagna (info: galdelducato.it).

Come resistere al freddo dell’inverno? I salumi, come lardo e pancetta, sono ottimi alleati delle basse temperature

Pochi alimenti hanno il potere di darci conforto quando le temperature si abbassano: una minestra calda, una tisana o un piatto di quei salumi che ci fanno tanta “gola” come il lardo o la pancetta. Secondo un’idea ampiamente condivisa, d’inverno sarebbe meglio mangiare di più e scegliere gli alimenti più ricchi di grassi, specialmente quando il termometro precipita sotto lo zero. Il principio di una dieta ricca in inverno risale a tempi lontani, segnati dall’assenza dei comfort moderni (riscaldamento, auto, trasporti pubblici…) e la necessità per molti di svolgere un lavoro all’aperto qualunque fossero le condizioni meteorologiche. «Oggi, per la maggior parte di noi, sia che si tratti di estremo freddo o di estremo caldo, il dispendio energetico giornaliero complessivo rimane più o meno lo stesso e non è necessario compensare con un apporto supplementare di calorie. Se però le attività professionali o sportive si svolgono all’aperto o se si ha l’abitudine di camminare o usare la bicicletta per gli spostamenti abituali, in questo caso il freddo aumenta il dispendio energetico ed è indicato un surplus nutrizionale, anche derivato dai grassi o dai salumi» ci dice Elisabetta Bernardi, specialista in Scienza dell’Alimentazione, biologa e nutrizionista. La passione per lardo e pancetta ha radici antiche. In epoca imperiale i legionari romani ricevevano due volte a settimana una razione di pancetta o di lardo, nel Medioevo i muratori ne ricevevano una razione di 5 kg all’anno e il lardo è stato per secoli il companatico ideale dei cavatori di marmo perché forniva i nutrienti giusti per svolgere il duro lavoro nelle cave. Fino alla metà del ‘900, la pancetta, insieme ad altri grassi come lardo e strutto, è stata una delle principali risorse energetiche per l’uomo. Oggi pancette e lardi si sono evoluti, mantenendo gusto e profumi della tradizione. Come spiega la dott.ssa Bernardi, «il lardo è composto per il 99% da lipidi. Di questi la maggior parte sono del tipo monoinsaturo (37%), il tipo di grassi preminente nell’olio di oliva, il 29% polinsaturo, tipico degli oli di semi e il 33% del tipo saturo. La preminenza dei grassi insaturi dà quella sensazione di “grasso che si scioglie in bocca”, che piace tanto ai consumatori». Altro salume molto stuzzicante è la pancetta arrotolata, in cui, prosegue sempre la nutrizionista, «i grassi monoinsaturi sono più della metà dei grassi totali, i polinsaturi il 13% e i saturi il 32%. Anche qui i grassi insaturi sono in netta maggioranza coprendo il 63% dei grassi presenti». Dal punto di vista poi degli abbinamenti, se questi salumi li consumiamo con del pane integrale e aggiungiamo frutta e ortaggi, abbiamo un pasto completo ed equilibrato. Il lardo e la pancetta hanno anche ottenuto dei riconoscimenti comunitari: Lard d’Arnad Dop; Lardo di Colonnata Igp; Pancetta di Calabria Dop; Pancetta Piacentina Dop.
(Fonte: IVSI)

Finocchiona Igp dell’Antica Macelleria Falorni: eccellenza italiana

La finocchiona Igp di Antica Macelleria Falorni è stata riconosciuta dalla guida I Salumi d’Ita­lia delle Guide dell’Espresso 2019 come una delle eccellenze italiane col massimo punteggio. Si tratta di un riconoscimento molto importante per l’azienda, che da oltre 200 anni produce, nel cuore del Chianti, salumi di alta qualità, tramandando di padre in figlio i segreti di antiche ricette e il sapere artigiano delle lavorazioni. All’interno della vasta gamma di salumi prodotti, la finocchiona Igp è uno dei più rap­presentativi, poiché porta con sé la tradizione e gli inconfondibili profumi delle campagne toscane. Viene preparata secondo l’antica ricetta con carni grasse e magre di suini allevati in Italia, aromatiz­zata con semi di finocchio selvatico — da cui prende il nome — stagionata naturalmente e insaccata in budello naturale. Dalla consistenza morbida e vellutata, rivela un gusto intenso ma molto equilibrato. «La finocchiona fa parte della storia della nostra famiglia da molte generazioni» racconta Stefano Bencistà Falorni (in foto, mentre ritira il riconoscimento). «Quando ancora eravamo bambini e nostro padre Raffaello produceva in bottega questo salume, andava a raccogliere il finocchio selvatico, che poi avrebbe utilizzato per l’impasto, nelle campagne intorno a Greve in Chianti. Spesso si fermava vicino al castello di Verrazzano. Fu proprio lì che un giorno venne scoper­to dal cavalier Luigi Cappellini, ancora oggi proprietario del castello». Tra i due nacque un animato battibecco circa il fatto che Raffaello aveva violato una proprietà privata. «Erano tempi, allora, in cui le discussioni si risolvevano facilmente: un bicchiere di vino, un chiari­mento e le dovute scuse. Anzi, fu proprio quell’incidente a diventare l’inizio di un duraturo rapporto di amicizia e di collaborazione professionale. Da quella “violazione di proprietà privata” nacquero infatti progetti e iniziative che hanno portato all’attenzione del mondo il nome, il volto e la fama di Greve in Chianti».

>> Link: www.falorni.it

Didascalia: salami di cervo e camoscio. Questi salumi ottenuti da animali selvatici rappresentano un importante patrimonio culturale, gastronomico ed economico per l’Italia (photo © Marion Lafogler).



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