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Sono 180 grammi, lascio?

Quinto Quarto, anche un EP

di Papalato G.


È chiaro a tutti che con i termini quinto quarto chiamiamo tutto ciò che non rientra nei quattro tagli convenzionali dell’animale. Ma si chiama così anche una casa editrice indipendente che si muove all’interno della intricata giungla editoriale con la volontà di smantellare l’assunto che i libri illustrati siano prerogativa esclusiva dell’infanzia. E si chiama così anche un disco, quello di Daddario, che mischia generi come spezie ed esce per un’etichetta che ha scelto di chiamarsi Ragoo. Tutti hanno in qualche modo sapori e consistenze marcate, concrete, materiche, da scoprire.
Andiamo con ordine: se i quattro quarti di macellazione dividono il corpo dell’animale in verticale e in orizzontale (quarto anteriore dx, quarto anteriore sx, quarto posteriore dx, quarto posteriore sx), il quinto è “Nose to tail” come recita il motto del londinese St. John Restaurant, ovvero dal naso alla coda; tutte quelle parti anatomiche ritenute non nobili ma assolutamente gastronomicamente rilevanti se trasformate con cura: cervello, lingua, muso, grugno, polmoni, cuore, fegato, lingua milza, rognone, mammella, stomaci, testicoli, coda, ecc…
Nella seconda metà dell’Ottocento, riservando le parti pregiate del macellato alle classi più abbienti, le frattaglie risultavano tagli di scarto da vendere a prezzi bassi che diedero origine a diversi piatti poveri delle tradizioni popolari.
All’ex Mattatoio di Roma del Testaccio (all’interno del suo enorme complesso architettonico oggi vengono organizzate mostre ed eventi di arte contemporanea) questi tagli erano la moneta con cui venivano pagati i cosiddetti vaccinari o scortichini, coloro che avevano il compito di scuoiare i bovini. Le donne di casa, ma anche le trattorie aperte nei dintorni del grande complesso del macello, in un circolo virtuoso quanto necessario, si specializzarono nella preparazione di piatti composti da interiora di animali a prezzi contenuti (ma anche salumi e insaccati), costituendo di fatto la fonte di proteine nobili per le classi meno abbienti. Nacquero così simboli gastronomici della tradizione come la coda alla vaccinara, i rigatoni con la pajata (intestino tenue del vitello da latte non privato del chimo) e, ovviamente, la trippa alla romana, con salsa di pomodori, mentuccia e pecorino.
Un taglio così identitario da entrare nel lessico capitolino e poi venire adottato a livello nazionale: mi riferisco a quel “nun c’è trippa pe’ gatti” coniato agli inizi del ‘900 e diffuso in seguito. Si narra che nel 1907, quando il neoeletto sindaco Ernesto Nathan, esaminando il bilancio comunale, lesse la voce “frattaglie per gatti” e chiese cosa si intendesse, gli fu spiegato che si trattava di fondi per il mantenimento di una nutrita colonia felina utile a difendere dai topi i documenti custoditi negli uffici e negli archivi capitolini. Il sindaco, accompagnando la penna con la celebre esclamazione, tracciò una linea sulla bizzarra voce spese, spiegando che ora i gatti avrebbero dovuto sfamarsi con i roditori catturati e che, in assenza di quest’ultimi, sarebbe anche cessato lo scopo della loro presenza.
A Milano la busecca, come viene chiamata la trippa, è talmente radicata nella storia socio-culturale della città che l’epiteto busecconi (mangia-trippa) è una denominazione scherzosa degli stessi meneghini.
A proposito di parole, l’etimologia di trippa è incerta, derivando forse dal francese o dall’inglese tripe di origine celtica, legato a sua volta al gaelico tarp che significa mucchio, cumulo.
Col termine generico trippa si intendono diverse parti dello stomaco del bovino: il rumine, chiamato localmente ciapa, croce, larga, panzone, costituisce la quasi totalità dello stomaco ed è spesso e grasso, mentre l’omaso, centupezzi, foiolo, libretto, millefogli, centopelli, è la parte più magra e ha una struttura lamellare che ricorda le pagine di un libro aperto. Il reticolo invece ha un aspetto spugnoso e la forma di un copricapo, da cui beretta, cuffia, nido d’ape; ricorda dei nastri arricciati tra loro.
L’abomaso, caglio o quaglio, francese, frezza, lampredotto, quaglietto, ricciolotta, di tutti l’unica cavità, marrone e grassa, che ha funzione vera e propria di stomaco ed è vicino all’intestino.
Se i Greci la cuociono sulla brace e i Francesi ne ricavano salsicce, la trippa risulta diffusa nella tradizione gastronomica di tutte le regioni, da Nord a Sud, oltre che nelle già citate romana e milanese.
Solitamente venduta lavata e parzialmente cotta, si consuma condita di solo olio, sale, pepe e limone nei trippai napoletani oppure in insalata con prezzemolo, aceto e peperoncino nelle case pisane, mentre necessita di ulteriore cottura per ammorbidirsi ed esaltare gli aromi nella maggior parte delle altre ricette italiane.
Si può gustare nella partenopea zuppa marescialla con diverse frattaglie (pancia, bonetto, mille pieghe o centopelli, franciata), o in Romagna dove viene stufata con un soffritto di aglio, cipolla e prezzemolo, conserva di pomodoro, vino bianco e poi aromatizzata con scorza di limone, cannella, chiodi di garofano prima di una grattugiata di Parmigiano Reggiano una volta servita.
Dentro un panino con la salsa verde, il lampredotto preparato dai trippai nelle strade di Firenze, o a Moncalieri pressata a forma cilindrica. Nella pitta catanzarese, tradizionale pane a forma di ciambella, ‘U Morzeddhu Catanzarise (morzello o morsello di Catanzaro), assieme a frattaglie a lunga cottura nel sugo di pomodoro, peperoncino e altri odori.
La trippa alla genovese si può gustare nello storico brodo sbïra (ultimo pasto dei condannati a morte nel Medioevo della Repubblica Marinara), in umido con fagioli o patate, cruda in insalata con le verdure, o con sugo e pinoli.
Oltreconfine, in Francia si va dal provenzale Pieds et paquets, zampe e trippa di pecora ripiena stufate insieme, all’Andouillette, insaccato di trippa di maiale o misto bovino fino alla Tripes à la mode de Caen che tra tanti odori prevede anche l’aggiunta del piedino di bue e che soprattutto fa sobbollire la trippa non nell’acqua, ma nella tipica bevanda normanna, il sidro.
Spingendosi più ovest troviamo il Callos a la madrileña e la Tripas a moda do Porto, attraversando il Mediterraneo la Patsas greca e salendo a Est la Ciorbă de burtă rumena e la Škembe čorba anche in Bulgaria, fino all’İşkembe diffusa anche in Medio Oriente.
Tante storie che partono dalle macellerie attraverso epoche e culture diverse, fino a noi e dopo di noi, tagli meno “facili” di altri che hanno creato e creano una mappatura di tradizioni che resistono accanto a cambiamenti volti a sottolineare l’importanza di dare valore ad ogni parte di un animale, nel rispetto di chi nutre e di chi mangia.
Il “Quinto Quarto” di Daddario invece di pezzi ne ha otto ed è un album che segna il suo debutto sull’etichetta italiana indipendente Ragoo Records che si descrive così: “Le nostre ricette sono realizzate lentamente con passione e ingredienti selezionati”.
Una preparazione che inizia a bollire con Shift, un groove funky che cresce diventando Space, le note di un Hammond definiscono immediatamente il ritmo, vengono raddoppiate, dilatate e, infine, digitalizzate arricchendolo senza disperderlo. Boogie Night ft JZP continua nel solco tracciato, ma col decisivo apporto di percussioni di Pellegrino si concretizza in un misto di freschezza e familiarità. Un intreccio sinusoidale tracciato dal synth che si stende per poi allungarsi in mezzo a pelli battute e campionamenti filtrati.
Percussioni non dichiarate ma paradossalmente ancora più esplicite in Space Lou, una Jam festosa dove la chitarra elettrica di Lorenzo Mantovani e il piano si infilano tra le battute in un circolo che si rinnova ad ogni giro. Chiude il primo lato un remix di Boogie Night di Astratto, una rilettura downtempo in quattro momenti ad opera del co-fondatore dell’etichetta bolognese che ha stampato l’EP, un dj pubblicato da label come Bosconi Records e Nekubi Tapes.
Lato B che sembra iniziare progressive soul poi si impenna su una house che sa di funky ed electro, di bassi e synth da ballare. Si rallenta con Magic Circle, dove emerge l’intreccio tra le percussioni e il basso di Michele Freguglia, in una straniate afro ballad mediterranea. È il sud di un altro continente quello di Brazillionaire evocato tra note di synth che crescono come onde sul bagnasciuga mentre si mischiano a beats decisi che prima si fermano per far entrare una samba arpeggiata e acustica, poi ripartono perfetti assieme alla tromba di Matteo Pontegavelli in un tramonto esotico e ideale dove ha solo senso godersi il momento.
C’è tempo per l’ultimo brano, un remix del precedente a cura di Nicola Altieri, The Mechanical Man, produttore e DJ di origine partenopea pubblicato da Bosconi, Cognitiva, Nomada, Red Rooster e compagno di etichetta su Ragoo Records. Una versione estesa dove la Bossa viene scomposta e miscelata e diventa Funky mentre viene attraversata da un 4/4 con la battuta prettamente in levare.
Allora adesso che alziamo la puntina, che il disco è finito, che sapore ha il “Quinto Quarto” di Daddario? Quello di consistenze e aromi che singolarmente sono gustosi, ma che hanno il pregio di esprimersi al meglio anche assieme, in armonia di differenze, sì, ma dello stesso taglio. Racconta una ricerca musicale profonda, dove gli stili non sono mera citazione o scolastica esecuzione, ma frutto di un’abilità distribuita sia ai synth che all’MPC. Lavora dal 2006 in diversi studi, in Italia e all’estero come produttore, sound engineer/designer per artisti di livello internazionale.
“Quinto Quarto” arriva dopo “Daddario”, debutto su Museek nel 2016 ed un ep su Pizzico Records sotto il moniker “Kasillen”. Sette anni dopo, nel suo studio, Casillo sceglie musicisti e dj nel segno di un’attitudine che si realizza nella pluralità. Conduce, ma non si impone, con esercizi di stile, protagonismi egoriferiti che metterebbero la musica in secondo piano. Invece si svela un percorso dove hip hop, elettronica, jazz, funk e colonne sonore si svolgono perfettamente nel connubio di tecniche di campionamento e sintesi di suoni. Visto come suona questo EP, speriamo di non attendere troppo per un album vero e proprio.


Giovanni Papalato



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