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Storia e cultura

Il Macello di Piazza del Popolo a Roma

di Gaddini A.


Dal 1825 al 1891 Piazza del Popolo, oggi meta di turisti nel centro di Roma, ospitò un moderno stabilimento di macellazione pubblico, il primo costruito in città.

La macellazione a Roma fino al 1824
Fino al 1824 le macellazioni avvenivano nei piccoli macelli sparsi per la città, che vendevano anche le carni. I bovini erano consegnati ai macellai il giovedì e il venerdì, sfilando per le vie di Roma in mandrie, di solito piuttosto turbolente, che creavano spesso il panico tra i passanti (Belli). Gli animali recavano dei lunghi tratti di corda legati ad uno degli ampi corni, per consentire al macellaio che riceveva la consegna di tirarli nella bottega (Ersoch).
L’abbattimento era un diversivo pittoresco per i passanti, dato che i macellai ne facevano uno spettacolo di destrezza, molto apprezzato in un’epoca nella quale la “giostra delle vaccine”, una specie di corrida, era lo spettacolo più popolare per i romani e per i turisti (si veda La corrida a Roma, in Eurocarni n. 2/2018, pag. 122). C’erano comunque conseguenze spiacevoli: oltre ai problemi di sicurezza, dovuti ad animali grandi e pericolosi che potevano liberarsi nel centro della città, c’erano i problemi igienico-sanitari, causati dalle acque reflue e dai rifiuti solidi in zone densamente popolate e molto frequentate.

Il mattatoio di Piazza del Popolo
Papa Leone XII il 29 maggio 1824 con un chirografo (documento scritto di proprio pugno) decise la costruzione di un moderno mattatoio in Piazza del Popolo, per porre termine alle macellazioni nelle botteghe: “li macelli sparsi qua e là nelle strade anche più frequentate di questa città, sede delle arti belle, e capitale dello Stato ecclesiastico, e del Mondo cattolico non possono non essere di danno alla pulizia, e talvolta ancora di pregiudizio alla pubblica salute”.
Andava poi imposta l’ispezione veterinaria agli animali macellati “giacché non potendo seguire la mattazione di verun animale, se prima non sia stato ispezionato dal Perito veterinario, e dovendo d’altronde la mattazione succedere tutta in un medesimo locale, non possono più i macellari eludere la vigilanza dei Ministri Sanitari con mattare animali infermicci”. Oltretutto, Leone XII sottolineava che altre città dello Stato pontificio erano già state munite di macelli pubblici, con grande beneficio per l’igiene e il decoro.
Il progetto dell’architetto Giovanni Battista Martinetti, ispettore delle acque e delle strade, era molto simile a un precedente progetto di beccherie situate dietro la nuova piazza del Popolo, tracciato nel 1822 da Giuseppe Valadier, architetto della stessa piazza, dopo l’abbandono del “Programma di riordinamento dei mercati e mattatoio” di Napoleone, del 27 luglio 1811 (Franco), che prevedeva la costruzione di due mattatoi municipali, presso la chiesa di San Francesco a Ripa nel rione Trastevere e nei pressi della Basilica di Santa Pudenziana nel rione Monti (Stemperini).
Il nuovo mattatoio fu situato fuori dalle Mura Aureliane, nello spazio prima occupato dal gioco del pallone, tra la riva del fiume e le caserme adiacenti alla porta del Popolo, sul sito delle attuali via Luisa di Savoia, via Maria Adelaide e via Principessa Clotilde, e di fronte al mercato bovino, già esistente in quel luogo.
Il mercato occupava 8950,50 m2 ed era stato trasferito dal sito originale nel Foro Romano, all’epoca detto “Campo Vaccino”, che fu quindi lasciato alla sola destinazione archeologica (Ersoch, Stemperini).
La costruzione del mattatoio fu affidata al bolognese Gaetano Ferrarini, che si impegnava a costruire il tutto a sue spese, stimate in 220.000 scudi, comprensive di stigliature e attrezzi, in cambio del diritto a percepire per vent’anni le somme pagate per il servizio di macellazione, secondo un tariffario concordato in base al numero medio di animali macellati nel periodo 1821-23.
Le tariffe per capo erano di 40 bajocchi per giovenchi e giovenche, 20 per le vitelle, 30 per bufali, maschi e femmine, adulti o giovani, 5 per castrati e ciavarri (montoni), 15 per i suini (denominati animali neri), 3 per agnello o pecora, esclusi gli abbacchi e i capretti, che di solito entravano in Roma già macellati oppure i cui scarti venivano lasciati ai cani.
Al termine del ventennio Ferrarini poteva godere del diritto di prelazione per l’amministrazione, nel caso in cui avesse ben meritato, e il personale del macello poteva conservare il posto, sempre se non aveva commesso mancanze.
La Camera apostolica, autorità economica ed amministrativa dello Stato pontificio, forniva l’area, di 13.241,80 m2 e l’acqua, dall’acquedotto dell’Acqua Vergine, che alimenta tuttora le fontane di piazza del Popolo e quella di Trevi. Inoltre, la Camera forniva il veterinario, un picchetto di soldati di finanza per l’ordine pubblico e cinquanta forzati per la forza lavoro.
Il macello fu progettato secondo un modello “cellulare”, nel quale ogni operatore disponeva di una propria cella dove abbattere e lavorare il bestiame, diverso da quello a “galleria” o a “corsia”, in cui le macellazioni avvenivano in sequenza in uno spazio comune, sistema che verrà adottato per il successivo macello del Testaccio.
Il sistema cellulare era preferito dagli operatori, che potevano disporre di uno spazio autonomo dove poter pianificare la propria attività imprenditoriale, utilizzabile anche per la frollatura delle mezzene (Stemperini).
Gli edifici occupavano 3.650 m2, e comprendevano due macelli, uno ricavato da un fienile, con 28 celle, 14 per lato, con una corsia centrale di accesso e quattro ingressi, e l’altro, costruito ex novo, con 42 celle su tre file, con due corsie di servizio e quattro ingressi (Ersoch).
La costruzione del nuovo mattatoio, inaugurato nel 1825, fermò il transito dentro le mura della città delle bestie scelte (in dialetto “capate”) per la consegna ai macelli, e il grande poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli si lamentò della trasformazione con il sonetto “Le capate” dell’11 gennaio 1832, facendo dire a un popolano che la stessa Roma era morta, come le bestie macellate.
All’inizio del 1850 l’amministrazione comunale avviò un piano di manutenzione e di ampliamento, per adeguare il macello alle mutate esigenze. Tra i tecnici incaricati degli ampliamenti c’era il romano Gioacchino Ersoch (1815-1902), esperto nella progettazione dei macelli, grazie a viaggi di formazione e scambi di corrispondenza con architetti inglesi e francesi, e progettista del macello del Testaccio del 1891.
Nel 1860 fu aggiunto l’edificio della “Fabbrica ad uso di bagni calorico-animali”, di cui si parlerà più avanti, e nel 1861 fu aggiunto un piccolo edificio trapezoidale, il “Macelletto degli Ebrei”, di 172,52 m2 più 280,12 di rimessini per la sosta, destinato alle macellazioni rituali ebraiche, che riguardavano soprattutto bufale, e che fino ad allora si svolgevano presso il rione Ripa, con gli stessi inconvenienti dei piccoli macelli prima presenti nel centro.
Il mattatoio di piazza del Popolo fu ampliato nel 1868 a 14.000 m2 da Ersoch, che utilizzò avveniristici elementi strutturali prefabbricati in ferro e ghisa (Capodarte), che userà in modo più estensivo vent’anni più tardi nel nuovo mattatoio del Testaccio.
L’ampliamento aveva lo scopo di permettere la macellazione di animali delle altre specie, sottraendoli all’abbattimento nelle botteghe, e comprendeva: il macello dei bufali, e quello dei capretti, di 152 metri quadri, diviso in 24 riparti, la tripperia, le stalle di sosta per il bestiame domito, i rimessini all’aperto per il bestiame indomito e l’edificio per la distruzione delle carni infette, la nuova legnaia comunale e la pelanda dei suini (Pentiricci). Quest’ultima era situata nei pressi del fiume e fu costruita in pochi mesi, su una superficie di 1.550 m2, disposti su tre ambienti destinati alla pelatura e alla pulizia delle carni, oltre a uno che ospitava le caldaie a vapore, e consentiva la lavorazione di 4.000 suini in dieci ore. Della pelanda si diceva che “di simili locali non si aveva esempio” (Stemperini).
Anche il mercato del bestiame fu ampliato, ben quattro volte, nel 1868, nel 1878, nel 1882 e nel 1886, poco prima della chiusura (Pentiricci). Alla fine dell’Ottocento il mattatoio divenne obsoleto, per la posizione, divenuta nel frattempo centrale e per le dimensioni, non più adeguate alla città, che nel frattempo era divenuta capitale d’Italia ed aveva raddoppiato la propria popolazione, da 212.000 abitanti nel 1871 ai 422.000 nel 1901, mentre l’espansione del macello era impedita dall’adiacenza del fiume e di piazza del Popolo. Inoltre, non era in linea con le nuove norme igieniche introdotte dal governo Crispi e scaricava i suoi rifiuti nel Tevere, a monte del centro della città, il che creava immaginabili problemi igienici, specie nei mesi estivi, con alte temperature e basso livello del fiume.
Infine, la costruzione dei “muraglioni” di contenimento contro le alluvioni e del Ponte Margherita, che collegava il centro della città al nuovo rione Prati, con la relativa viabilità, doveva occupare gran parte della zona del vecchio macello.
Il Comune di Roma, con il Piano Regolatore del 1882, decise così la costruzione di un nuovo stabilimento, inaugurato nel 1891 nella zona di espansione industriale del Testaccio. Di questo mattatoio si tratterà in un prossimo articolo.
È comunque interessante menzionare una funzione aggiuntiva dei macelli dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento: quella di luoghi di cura, in cui si praticavano due terapie, i bagni zootermici e la bevanda di sangue.

I bagni zootermici
La “cura dei bagni zootermici” era una pratica terapeutica che ebbe breve fortuna, indirizzata a problemi muscolari degli arti (fratture, lussazioni e distorsioni) specie conseguenti a traumi, e a reumatismi e semiparalisi e consisteva nell’immergere la parte malata nelle viscere dei bovini appena macellati, o più di frequente, nel loro contenuto. Fiorelli (1895b) rievoca dei precedenti mitologici, come quello di Esone, ringiovanito per immersione nel sangue nella caldaia di Medea (Ovidio, Metamorfosi, VII, 251-293), e di Ulisse che avrebbe consigliato al padre Laerte lo stesso rimedio per ringiovanire.
Queste pratiche si svolgevano tradizionalmente nel retrobottega dei piccoli macelli privati, utilizzando i resti della macellazione prima che fossero gettati nel Tevere. Nel 1829 da Mentone, allora nel Principato di Monaco, venne a Roma il dott. Giacinto Grana, che cominciò a prescrivere questa cura ai suoi pazienti nel caso di rigidità muscolare dovuta a traumi. La cura era applicata nei locali del macello di piazza del Popolo. La pratica però creava problemi ai pazienti, non abituati ad assistere alla macellazione, e costretti ad esporre alcune parti del corpo denudate, in un’epoca con un senso del pudore molto maggiore di oggi, e con maggiore imbarazzo per le donne, in presenza del personale del macello. Si aggiunga la pericolosità dei bovini e dell’ambiente stesso del macello.
Per ovviare a questi inconvenienti il papa Pio IX, tramite il senatore Matteo Antici Mattei, cugino di Giacomo Leopardi, chiese nel 1858 la costruzione nel mattatoio di piazza del Popolo di un edificio adibito specificamente alla zootermia, che nel 1859 fu progettato dall’architetto Ersoch e inaugurato il 15 maggio 1860 con il nome di “Fabbrica ad uso di bagni calorico-animali”.
La “fabbrica” era un piccolo edificio separato, posto immediatamente a destra dell’ingresso, di tre piani, composto da quattro camere “da bagno”, oltre agli spazi di servizio. In ciascuno dei primi due piani vi era un “bagno” per gli uomini e uno per le donne, con la differenza che al primo piano si prestavano cure gratuite, mentre al secondo i trattamenti erano a pagamento, di 50 centesimi per mastello di contenuto gastrointestinale. Il terzo piano ospitava l’abitazione del custode.
Nel mattatoio di Testaccio le tariffe divennero di 3 lire per il bagno in prima classe, con camera e salottino individuale, 1,50 in seconda, con camera individuale e anticamera in comune, e 75 centesimi in terza, in locale comune (Ricci, 1892a). I locali a pagamento erano “addobbati con certo lusso ed hanno tutte le comodità necessarie” (Fiorelli, 1895b). Si usavano vasche di zinco o di latta per l’immersione totale, vasche per semicupio, e vaschette più piccole, ad esempio, per trattamenti ai gomiti. Dopo l’immersione la vasca era chiusa da un coperchio di zinco, avvolto da una coperta di lana, per mantenere il calore (Fiorelli, 1895b).
La “fabbrica” presentava comunque alcuni problemi, come il fatto di essere situata al primo e al secondo piano, e quindi di richiedere di salire le scale, il che per gli infortunati agli arti inferiori poteva essere un problema; mancava poi la riservatezza, dato che i locali per la cura gratuita costringevano più persone a condividere la stessa stanza, e infine la vicinanza con i locali di macellazione, oltre a creare disagio alle persone più sensibili, creava pericoli per la presenza di bestie spesso indomite, per persone che, in caso di fughe di animali, non avevano la prontezza e l’agilità per mettersi in salvo. Si pensò quindi di modificare i locali, ma prima che questo si potesse attuare, il vecchio mattatoio fu dismesso e la “fabbrica” fu riaperta nel nuovo stabilimento (Ricci, 1892a), con ingresso diretto dall’esterno, senza passare dal mattatoio, mentre il passaggio verso lo stabilimento era riservato al personale di servizio per il trasporto del materiale per la cura.
Al Testaccio c’erano locali di cura a piano terra, un giardinetto per sosta dei pazienti in attesa, e un locale per pronto soccorso, sia per gli infortuni degli addetti al mattatoio, sia per eventuali emergenze dei pazienti del bagno zootermico (Fiorelli, 1895b).
L’ammissione avveniva solo dietro prescrizione medica e le indicazioni terapeutiche nel 1860 erano i problemi reumatici, in quanto determinava la sudorazione, i problemi cutanei, tra i quali la scrofola e le cicatrici, le irritazioni, comprese coliche, dolori di capo, amenorrea, asma e sciatica, malattie veneree, podagra, idropisia, assideramento, dispepsia (Tarenghi). Per Ricci (1892a) la cura era adatta “nei casi di anchilosi, deambulazione dolorosa per frattura, lussazioni, distrazioni, etc. e nei casi di reumatismo, indebolimento nervoso, muscolare, semiparalisi, ecc…”.
Per la cura si consigliava l’ora di pranzo, a stomaco vuoto, di preferenza d’estate. Il trattamento durava da mezz’ora a tre quarti d’ora, la completa guarigione si aveva dopo venti o trenta bagni, ma i primi miglioramenti si manifestavano dopo dieci o dodici trattamenti (Fiorelli, 1895b). L’effetto immediato del trattamento era “leggera scossa al sistema dei nervi, dovuta alla diversità del mezzo, con cui si trova a contatto la persona che la riceve, e grata sensazione ai nervi cutanei, che trasportandola nelle interne parti, calma i moti disordinati. Questa specie di bagno per la sua mitezza conviene pure ai vecchi, ed ai bambini” (Tarenghi). Durante la cura il paziente “ordinariamente prova un senso di benessere alla parte lesa” (Fiorelli, 1895b).
Al termine gli inservienti pulivano con una spugna e poi con un asciugamano le parti del corpo del paziente che erano state immerse, ma non si applicava un lavaggio con acqua calda, perché questo “ostacolerebbe la continuazione dopo il bagno dell’assorbimento delle materie rimaste sulla cute, tanto più che il leggiero puzzo superstite è tollerabile ed appena avvertito dall’infermo” (Fiorelli, 1895b). A volte Fiorelli faceva applicare dopo la cura un massaggio, che trovava efficacissimo. Si vide che i liquidi dovevano essere caldi, ma non si poteva riscaldarli una volta raffreddati, per non perdere di efficacia.
Tre pazienti altolocati avevano richiesto la cura a domicilio, ma i liquidi, nonostante le cure per isolarli termicamente, erano arrivati freddi, e il trattamento non aveva avuto successo, costringendo i tre illustri pazienti a recarsi di persona al macello (Fiorelli, 1895b).
Il medico direttore del bagno teneva un registro dei pazienti con trattamento subito e malattia e successivi benefici, oltre a temperatura e pressione rilevati giorno per giorno. Erano anche annotati i macellatori che fornivano il materiale, per calcolare le somme da corrispondere loro. Dopo un periodo iniziale di rodaggio, si introdusse una registrazione dei pazienti, con il numero dei trattamenti eseguiti, il che permise anche di pubblicare statistiche sulle cure.
Fiorelli (1895b) pubblicò alcuni dati sul bagno zootermico dal 1867 al 1893, quindi comprendente sia il vecchio sia il nuovo macello, da cui risultano 5.354 pazienti, di cui 3.012 curati gratuitamente, e in totale 1.278 guariti (23,9%) e 1.432 migliorati (26,7%). Del totale 2.977 (55,6%) erano curati per “anchilosi e movimenti dolorosi, o rigidità muscolare in seguito a frattura, lussazione, flemmone, ecc…”, 1.187 (22,2%) per “artrite, reumatismo, ecc…” e i restanti pazienti per “indebolimento nerveo-muscolare, paralisi, ecc…” o per “denutrizione, infarcimenti glandolari, diatesi scrofolosa e rachitica”.

Le bibite di sangue

Il mattatoio di piazza del Popolo, come altri macelli italiani, ad esempio Napoli, Milano (Ricci, 1892b) o Pavia (Padova et al.), era anche attrezzato per la “bevanda di sangue” o “bibite di sangue”, una cura che consisteva nel bere sangue proveniente dalle bestie appena macellate, indicata contro l’anemia, come ultima speranza dopo che erano fallite le cure con prodotti a base di ferro, spesso mal tollerati dallo stomaco dei pazienti (Ricci, 1892b). Si proponeva anche contro clorasi, tisi e scrofola (adenite tubercolare), anemia da anchilostoma, debolezza da febbri malariche.
Padova et al. ricordano che Virgilio (Georgiche, 3: 463) attribuiva al popolo dei Tartari l’abitudine di salassare i propri cavalli per berne il sangue, ma comunque la cura dell’anemia basata sul consumo di sangue animale era attuata a Roma a livello popolare da lungo tempo. Dal 1876 si iniziò a praticarla a piazza del Popolo e nel 1883 su indicazione del medico.
Si considerò però sconveniente che delle donne, maggiori destinatarie della cura, fossero costrette a stare nei locali di macellazione e a trattare con gli addetti dell’abbattimento per chiedere un bicchiere di sangue bovino, oltretutto in ambienti ormai fatiscenti. Un reparto per tale cura fu quindi aperto il 1o marzo 1888 dal dottor Giovanni Fiorelli, già direttore dei bagni zootermici, proprio accanto al reparto di zootermia.
Per Fiorelli (1895a) la dose iniziale era di 100 grammi al giorno, per vincere l’iniziale ripugnanza, meglio se a stomaco pieno, arrivando fino a un bicchiere (500 grammi, se intero e 400 grammi se defibrinato). Per i giovani si preferiva mezza dose (Ricci, 1892b), mentre alcuni pazienti ne chiedevano con avidità anche due bicchieri, e il medico era costretto a limitarli. Il bicchiere era colorato per mascherare il colore del sangue. La cura durava normalmente 60 giorni, ma dopo i primi 20 cominciavano a manifestarsi i benefici. I pazienti erano pesati all’inizio della cura e poi altre volte nel corso di essa, per verificare i miglioramenti (Ricci, 1892b).
Il sangue che si somministrava per cura era mantenuto alla temperatura di 36°C con un apposito riscaldatoio. La bevanda di sangue poteva provocare il vomito la prima volta, ma nelle successive ci si abituava, mentre nei mesi estivi non era tollerata da alcuni pazienti, per problemi di digeribilità. Il sangue di vitello era ritenuto più digeribile e meglio tollerato come sapore.
Per superare la ripugnanza alcuni pazienti mescolavano al sangue latte o tuorli d’uovo freschi o bevevano marsala o vino comune dopo la somministrazione, mentre sembra che bere del cognac o acqua ghiacciata dopo la cura nuocesse alla digeribilità. Il sangue era prelevato dopo le due visite veterinarie, pre mortem e post mortem, ma si sceglievano comunque animali di razze ritenute refrattarie alla tubercolosi, come quelli di razza Sarda, che abbondavano al macello di Roma.
La cura era gratuita nel vecchio stabilimento di piazza del Popolo, mentre nel nuovo mattatoio del Testaccio costava 15 centesimi per il trattamento normale in reparto, con sale in comune, e 50 centesimi per quello di lusso, dotato di camere separate. Il sindaco poteva rilasciare il permesso all’ammissione gratuita, se verificata la povertà, per 40 giorni, prorogabili per decisione del medico direttore del reparto (Ricci, 1892b).
Nel nuovo mattatoio era attivo un defibrinatore, e quindi il sangue poteva essere defibrinato, ma alcuni medici lo ritenevano non efficace e prescrivevano il solo sangue intero. Padova et al. rilevarono netti miglioramenti anche su malati di tubercolosi, in prove cliniche in ospedale, ma ipotizzavano che questi fossero anche dovuti al miglioramento del vitto, somministrato nel reparto, per persone che erano normalmente sottoalimentate.
Tra il 1888 e il 1894, quindi in un periodo che comprende il trattamento sia nel vecchio, sia nel nuovo mattatoio, furono curati 3.465 pazienti, in media 495 l’anno, tre quarti dei quali per anemia. Poco più della metà (52%) fu ritenuto guarito o migliorato, mentre per il restante 48% la cura non ebbe successo. Per ovviare alla mancata tolleranza da parte del paziente era anche praticata la cura dei clisteri di sangue defibrinato o di siero di sangue (Federici, Padova et al.). Si tentò anche la somministrazione di sangue bovino secco in tavolette, per superare la ripugnanza dei pazienti, ma l’odore di questo prodotto quando si alterava determinò l’abbandono del metodo (Padova et al.).
Il dott. Luigi D’Emilio di Napoli nel 1877 lanciò un prodotto granulare denominato Trefusia, albuminato di ferro naturale, prodotta a partire da sangue disseccato, che però ebbe limitata diffusione per il suo alto costo.


Andrea Gaddini



Bibliografia

Belli G.G. (1886), I sonetti romaneschi, Vol. II. S. Lapi Tip. Ed., Città di Castello(da archive.org).
Ersoch G. (1891), Roma: mattatoio e mercato del bestiame costruiti dal comune negli anni 1888-1891, descrizione e disegni, R. stab. lit. C. Virano e C., Roma.
Federici (1890), Sul significato terapeutico dei clisteri di sangue, Il Raccoglitore Medico, serie V, vol. XI, 175-176 pp.
Fiorelli G. (1895a), La cura delle bibite del sangue nel mattatoio municipale di Roma dal 1888 a tutto il 1894, Malpighi, Gazzetta medica di Roma, anno XXI, fasc. 18, 15 settembre 1895. 482-490 pp.
Fiorelli G.(1895b), I bagni zootermici nel mattatoio municipale di Roma dal 1867 al 1893, Tipografia di Michele Lovesio, Roma.
Franco G. (1998), Il mattatoio di Testaccio a Roma: costruzioni e trasformazioni del complesso dismesso. Librerie Dedalo, Roma.
Padova C., Nosotti I. (1888), Sull’azione ricostituente delle bevande di sangue e della trefusia d’Emilio, Annali universali di medicina e chirurgia, Vol. 283: 144-157.
Papa Leone XII (1824), Chirografo del 29 maggio 1824, in Sulla macellazione e sul mattatoio romano, Biblioteca Angelica, Roma, Manoscritti, Mss 1958 (carte 188r-329v).
Pentiricci M. (2014), I progetti per i mattatoi di piazza del Popolo e di Testaccio, in Cremona A., Crescentini C., Pentiricci M., Ronchetti E., Gioacchino Ersoch architetto comunale: progetti e disegni per Roma capitale d’Italia, Palombi, Roma.
Ricci A. (1892a), Dei bagni zootermici nel mattatoio municipale di Roma, Tip. Lib. Democratica, Forlì. Estratto dal Raccoglitore Medico, Serie V. Vol. XIII. N. 14.
Ricci A. (1892b), Le bibite di sangue a scopo terapeutico nel mattatoio municipale di Roma, Raccoglitore medico, anno LV, serie V, 30 giugno 1892, vol. XIII, n. 18: 550-557.
Stemperini G. (2010), Gioacchino Ersoch architetto municipale: progetti ed interventi per la modernizzazione dei pubblici macelli e del sistema dei mercati nella Roma dell’Ottocento, Città & Storia, Anno V, n. 2 luglio-dicembre 2010, 297-327 pp.
Tarenghi A. (1860), Dei bagni animali ossia dell’applicazione del calore animale, Leonardo Olivieri Editore, Roma.


In foto, Piazza del Popolo dal Pincio, 1890-1900 (fonte: Library of Congress, USA).



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